Asleep At The Wheel – Asleep At The Wheel cover album

Otto album, uno più brutto ed insignificante dell’altro, in otto anni è la poco invidiabile media degli Asleep At The Wheel (Addormentati/o al Volante). Un pisolino che col tempo è diventato sonno profondo ed un’irreversibile posizione orizzontale dopo l’ultima prova, Framed, un affronto alla buona fede dell’appassionato. Ci sono critici talmente allocchi e sprovveduti da credere che una canzone di Randy Newman, un brano di Count Basie o la partecipazione straordinaria di una certa Bonnie Raitt possano di per sé valere e nobilitare un intero LP.

Il solo nome di un autore di razza, invece della qualità della versione proposta, è una sicura garanzia e basta a costoro per annunciare ai quattro venti l’ennesima fatica di una band seria, di musicisti colti e preparati, l’ennesimo prodotto di altissimo livello. Beata ingenuità o psicosi infantile? A tutto ciò si deve aggiungere la cosiddetta febbre texana che imperversava da un paio d’anni a questa parte sui nostri lidi. “Texas è bello”, tutto quello che ci arriva dal Lone Star State è degno di considerazione e di un’ammirazione senza limiti, sia esso un cantautore o un gruppo, molto spesso indipendentemente dalla reale validità artistica.

Di solito le nuove figure leggendarie vengono scoperte per semplici associazioni di nomi e luoghi o mediante logiche supposizioni; per esempio se un musicista affermato incide una composizione di uno sconosciuto dalla penna allegra, quest’ultimo passa immediatamente al vaglio dei baroni della critica ottenendo sempre entusiastici consensi. E così per grazia ricevuta West Texas Waltzes di Butch Hancock sta girando sui nostri piatti. Non ha alcuna importanza se in fondo si tratta di moltissimo fumo e di ben poca sostanza: è di un texano e perciò, per lo scopritore e per i suoi affiliati, un capolavoro.

Pressappoco secondo questo schema, e a volte con meccanismi paranoici più complicati, sul fronte californiano anni fa ci siamo dovuti sorbire i figli legittimi e non nati in seno alla famiglia/comune Byrds, vale a dire i vari Gene Parsons, Skip Battin, Pete Kleinow, Byron Berline, Terry Melcher (per citare solo la parentela di primo e di secondo grado), tutta gente i cui lavori solisti possono essere giustificati esclusivamente dalla pietà e dal mecenatismo alla rovescia di un produttore dalle tasche bucate. Meditate, gente, meditate!

Gli Asleep At The Wheel sono giunti da noi presentati come una piacevole alternativa al suono di Commander Cody & His Lost Planet Airmen, dividendo infatti con essi il tipo di strumentazione ed ingentilendolo con una voce solista femminile. Ma non vantano un leader della statura di un George Frayne, né la tecnica e la personalità degli Airmen, né la professionalità, la raffinatezza o la carica esplosiva nell’affrontare un titolo qualsiasi e per giunta si servono spesso di numerosi session-men di grido sia per tappare le falle sia (ahimè) per stimolare l’acquirente. Sono texani però e partono nel pallottoliere dei critici anzidetti con qualche punto di vantaggio.

La loro prova migliore, di gran lunga più consistente dell’esageratamente celebrato e recente Served Live, rimane il secondo LP intitolato con semplicità Asleep At The Wheel (la cui diretta conseguenza è illustrata già nella foto di copertina!). Analizziamolo in dettaglio. Vede la luce nel 1974, in concomitanza all’impareggiabile Live From Deep In The Heart Of Texas di Cody & Co., e rappresenta in tutta la produzione del gruppo la classica eccezione che conferma la regola. È suonato con una certa maestria e con un pizzico di malizia, cantato altrettanto dignitosamente, meditato nella scelta dei titoli, saggiamente bilanciato nel dosaggio delle musiche: in una parola è un disco riuscito.

Gli Asleep At The Wheel si mostrano qui, più che in ogni altro loro lavoro, sostanzialmente come una band di western swing, di vintage western swing, prendendo quindi le mosse dai modelli originali. Due delle componenti essenziali di questa musica sono riconducibili al duetto o al trio di violini (all’unisono o in salti d’ottava) ed al gioco dei fiati (sassofono e trombe, spesso ovattate dalle sordina); la prima soluzione venne sperimentata con successo dalle orchestre texane di Milton Brown e di Bob Wills sposandola alla seconda ereditata dallo swing.

Jumpin’ At The Woodside di Count Basie è un pratico esempio di sintesi tra forza espressiva di ottoni e fiddles (l’ex-Texas Playboy Johnny Gimble ed il giovane Richard Casanova, poi con i Moonlighters). Così come di pura atmosfera western swing strumentale e vocale (l’impostazione e lo stile della voce di Ray Benson) è permeata Don’t Ask Me Why I’m Going To Texas che sembra balzata fuori da una movimentata seduta d’incisione dei Texas Playboys (e notate gli accenni a San Antonio Rose ed a Glory Hallelujah / John Brown’s Body / Battle Hymn Of The Republic tra un break e l’altro).

Curatissimi gli arrangiamenti di You And Me Instead, delicato motivo firmato da Kevin Blackie Farrell (dei cui servigi hanno giovato sia gli Asleep sia gli Airmen), e di Our Names Aren’t Mentioned interpretata in coppia da Benson e da Chris O’Connell, una cantante che sebbene non abbia una completa padronanza della propria voce, a volte stridula e stonata, e sappia mal dosare le tonalità, tuttavia in più di un’occasione riesce a superare se stessa. Mi riferisco soprattutto a Last Letter in cui Chris duetta vincitrice con la pedal steel su toni crepuscolari.

Proprio la pedal steel guitar affidata a Reuben Lucky Oceans Gosfield ha stranamente pochissimo spazio in un genere dove per tradizione è sempre stato uno degli elementi caratteristici. In realtà Lucky O non sembra molto a suo agio tra i manici e le numerose corde del proprio strumento. A peggiorare la sua già precaria posizione ci si mette il maestro Bobby Black, un Lost Planet Airmen, con una lezione di tessitura musicale a base di gusto, delicatezza e velocità (che ogni tanto non guasta) in I’m Gonna Be a Wheel Someday.

Il pianista Floyd Domino, alias Jim Haber, meriterebbe una recensione a sé stante. Il suo tocco fantasioso di chiara scuola boogie-woogie (la mano sinistra) e la squisita impronta swing (la destra) conferiscono a tutti i brani una dimensione difficilmente riscontrabile nei lavori dei colleghi, a parte forse Steve Solomon dei Dusty Chaps, di altre band dai medesimi intenti (Alvin Crow, la Rio Grande, lo stesso Cody). Era già successo in precedenza (per esempio con Cherokee Boogie nel primo album) e succederà ancora (Roll ‘Em Floyd od One O’Clock Jump), ma intanto ascoltatelo qui in Choo Choo Ch’Boogie ed in Jumpin’ At The Woodside assecondare la voce e fornirle quelle blue notes che sono rimaste nell’ugola dell’interprete, o ancora prendere per mano gli altri strumenti suggerendo loro le piste da seguire, gli spunti da riprendere e sviluppare.

Ray Benson, chitarra molto pulita ma raramente originale, é il mozzo su cui ruota il volante, colui che manovra le redini del gruppo. È lui il fondatore degli Asleep nel 1973, lui che conosce e si ingrazia il produttore Tommy Allsup (non a caso anch’egli un ex-Texas Playboy), lui decide il repertorio ed infine è ancora lui a tenere disperatamente unito quello che resta della band per la registrazione del Live e dell’ultimo Framed, non un fatidico canto del cigno ma piuttosto uno sgraziato, informe e volgare suono gutturale. Nell’album in esame per fortuna Benson si mostra in eccellente forma.

Una band insomma che dalle speranze e dai buoni propositi degli inizi é purtroppo ruzzolata giù malamente nella musica di facile consumo, ricca solo di trovate melense e d’effetto per la gioia di utenti incantati e beoni. Inutile perdonare, disonesto giustificare, assurdo appellarsi ed aggrapparsi ad inesistenti tentativi di rinnovamento fatti passare sotto il comodo aggettivo di progressivo: bisogna avere il coraggio di raccattare le poche cose buone e di buttare senza remissione il resto nella spazzatura. È tempo di pulizia.

Epic KE 33097 (Western Swing, 1974)

Adelio Puri, fonte Mucchio Selvaggio n. 37, 1981

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