Awards – William Ferris. Il fascino discreto della ricerca picture

Ogni tanto le belle notizie ancora arrivano, fonti inesauribili per poter credere che non tutto è perduto, e che il lavoro – quello serio, composto da un perfetto mix di passione, arguzia e tanto studio – alla fine paga. Magari non in moneta sonante, ma in preziosi riconoscimenti a livello mondiale come quelli che William Ferris – per gli amici Bill – ha saputo meritarsi nella recente premiazione dei Grammy Awards per la musica, da considerarsi al pari del celebre premio Oscar per il cinema, che sancisce quello che per gli americani sia il meglio della musica mondiale. Non uno ma ben due sono i riconoscimenti meritati da questo studioso, professore emerito all’Università di Chapel Hill, North Carolina, tra i tanti incarichi che lo hanno visto protagonista di spicco nel panorama culturale statunitense. Best Historical Album e Best Album Notes vanno a sommarsi ai già tanti premi ricevuti nella lunga carriera, dalla Blues Hall Of Fame fino a quel Charles Frankel Prize In The Humanities conferitogli di persona dal Presidente Bill Clinton, suo grandissimo estimatore. Una carriera costellata di grandi progetti, come l’essere il co-fondatore, assieme a Judie Presier, del Center For Southern Folklore che ha sede nel centro di Memphis, fondatore e presidente del Center for the Study of Southern Culture, presso l’Università del Mississippi ad Oxford e, anche, nella veste di co-editore della Encyclopedia of Southern Culture.

La vittoria di questi Grammy è un compendio alla lunghissima carriera di Ferris e l’occasione viene dalla produzione, in collaborazione con la’benemerita’ Dust To Digital, del bellissimo cofanetto Voices Of Mississippi che il nostro direttore Marino Grandi ci ha così ben illustrato nel numero 143 dello scorso mese di giugno. È inutile, perciò, che io ritorni ad illustrare questo prezioso spaccato musicale di una terra a noi tanto cara, ma preferirei soffermarmi sulla figura di Bill Ferris, delizioso uomo che ha dedicato la propria vita a coltivare una grande passione per trasferirla a tutti noi con la competenza, la modestia e la simpatia che sono la caratteristica umana di questo ormai neo settantasettenne. Ho avuto la fortuna e la possibilità di trascorrere alcune giornate in sua compagnia, quando lo invitammo a Parma nel giugno del 2010 in occasione del Rootsway Festival. Ferris aveva appena pubblicato il suo bellissimo volume Give My Poor Heart Ease e, soprattutto, l’incredibile CD Come And Found You Gone che racchiudeva un intero concerto da lui registrato direttamente a casa di ‘Mississippi’ Fred McDowell nel 1967 con ben 12 inediti e la partecipazione in alcuni brani di Annie Mae McDowell e Napoleon Strickland. In quell’occasione arrivarono, da quel Deep South a lui tanto caro, anche Elmo Williams ed Hezekiah Early che assieme a Ferris diedero vita a una intensa nottata – con tanto di luna piena – trascorsa assieme ad un pubblico totalmente rapito navigando sulle calme acque del Po.

Ma il momento più toccante fu la mattinata trascorsa assieme a Ferris, la moglie Marcie e la figlia Virginia nell’incantevole agriturismo sperduto nella campagna parmense, lontano da ogni sorta di rumore e fastidio, perfetta meta dopo aver condotto la simpatica famiglia lungo le principali vie della città ducale. In quella bucolica mattina abbiamo avuto la possibilità di dialogare con questa affabile persona, dotata di una rara sensibilità e di quel fuoco sacro che gli permette ancor oggi di raccontare, quasi fosse la prima volta, la lunga serie di esperienze da lui vissute in quei meravigliosi e, allo stesso tempo, terribili anni ’60 laggiù nel Mississippi, lui unico bianco in mezzo a tanti neri. E Bill, lo ricordo come fosse oggi, era orgoglioso di quell’esperienza, di aver in parte contribuito a cambiare, anche se solo parzialmente, il corso della storia ma – più di ogni altra cosa – di aver imparato così tanto da quelle persone che andava a trovare, che intervistava e filmava e che, più di tutto, rispettava. Un rispetto che emerge profondo e sincero nei suoi racconti e che possiamo trovare tra le note di questo cofanetto o nelle pagine dei tanti libri pubblicati. Uno di questi assieme agli amici del festival piacentino Dal Mississippi al Po lo abbiamo tradotto in italiano perché siamo tutt’ora convinti che Il Blues del Delta – al pari di La Terra del Blues di Alan Lomax, amico di Ferris, e Deep Blues di Robert Palmer siano fondamentali per capire cosa voleva dire Blues in quelle terre dove è nato.

Mentre ci raccontava aneddoti o ci spiegava ed illustrava la vita nel Delta nei suoi occhi la luce cambiava intensità, era percepibile e palpabile la trascinante passione con la quale ripercorreva quei momenti, ma il tutto ci veniva esposto con una semplicità e con un candore quasi commovente. Ci teneva che noi capissimo perché, e ce lo disse chiaramente, aveva visto quanto la nostra passione fosse grande e la cosa per lui fu di notevole importanza. Racconti che resteranno scolpiti nella nostra memoria, come il ricordo di questo uomo gentile ed estremamente elegante nei modi, tipico delle persone colte del Sud, che mentre ci autografava oltre cinquanta sue fotografie che ha donato all’Associzione Rootsway ci ha reso partecipi di quell’immensa cultura del Sud, fatta di grandi musicisti e scrittori tra i più importanti della letteratura mondiale. Personalmente devo ringraziare Bill Ferris se ho potuto leggere libri di Eudora Welty o ascoltare con un differente approccio tanti bluesmen, ma più di tutto lo voglio ringraziare per averci permesso di incontrare il suo sapere, e questo non ha valore.

Antonio Boschi, fonte Il Blues n. 146, 2019

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