Bernie Leadon

Membro fondatore degli Eagles, Bernie Leadon se ne andò dal gruppo alla vigilia di Hotel California.Da allora, pur se ha prestato la sua abile opera di polistrumentista in centinaia di dischi di altri artisti, ha pubblicato solo due album a suo nome.
Abbiamo parlato con lui del recente Mirror e della sua lunga carriera

D.-Anche se è soltanto il tuo secondo disco, Mirror segna un lungo percorso musicale, lungo oltre quarant’anni. La tua prima esperienza professionale risale ai primi anni ‘60 con gli Scottsville Squirrell Barkers.
R.-Ho suonato con loro alcuni concerti alla fine del 1964. Avevo 16 anni. Ma Larry Murrey, che aveva suonato il dobro con gli Squirrell Barkers, mi chiamò a Los Angeles nel 1967, per unirmi ai suoi Hearts And Flowers, che avevano un contratto con la Capitol. Il produttore era lo stesso di Linda Ronstadt, e finii così a suonare nei suoi dischi e in quelli di molti altri.
D.-Com’era la nascente scena country-rock californiana?
R.-Beh, nessuno allora parlava di country-rock. Tutte quelle band sperimentavano mescolando diversi stili: folk, pop, country, bluegrass, rock, un po’ di tutto. Noi eravamo più un gruppo vocale e se alcune canzoni suonavano country, altre suonavano come i Bee Gees di allora.
D.-Sei stato tra i fondatori della Dillard And Clark Expedition. L’album The Fantastic Expedition Of Dillard And Clark è una delle pietre miliari del country-rock.
R.-Avevamo scritto la maggior parte delle canzoni in casa di Doug Dillard, solo le parti strumentali. Gene Clark, che frequentava le session, cominciò a portare le liriche, una alla volta, e noi ci lavoravamo tutti assieme. Dopo poche settimane, Gene, che aveva un contratto con la A&M, li convinse che quel gruppo e quelle canzoni erano il disco che doveva registrare per loro. C’è tanto cuore e tanta coesione in quel disco. Suona come se le canzoni fossero state scritte nello stesso momento, e lo sono per davvero.

D.-La tua carriera sembra una continua ricerca, da una formazione ad un’altra, da un progetto all’altro. È cosi difficile far parte di una band?
R.-No, al contrario, sono un po’ troppo un musicista da band. Quando però le mie idee vengono messe da parte comincio a cercare qualcosa di meglio.
D.-Dopo i Dillard And Clark, sei rimasto qualche anno con i Flying Burrito Brothers di Gram Parsons, cui hai poi dedicato la canzone My Man in un disco degli Eagles. Perché oggi Parsons è così popolare tanto da essere indicato come uno dei padri dell’intero movimento Americana?
R.-Si dice che morire giovane, per lui, sarebbe stata una mossa decisiva per la sua carriera. Gram era dotato, ma molto dispersivo. È risaputo che abusava di alcol e droghe, al punto da morire per overdose a soli 27 anni.
Lui era concentrato solo sulla sua carriera e in un modo assai confuso. Venne cacciato dalla sua band, i Burritos, perché non si presentava alle session o ai concerti e non si comportava da professionista. Ognuno aveva già una lunga carriera di successo alle spalle e nessuno di noi voleva sputtanarsi a causa sua. Era comunque un artista dotato. Specialmente nel primo album dei Burritos, sapeva mescolare tutti quegli stili di cui parlavo prima, anche molto r&b e soul, una cosa che pochi sanno, e aggiungeva a tutto questo un tempo country shuffle. Ci sono stati altri però che hanno giocato con queste contaminazioni, come Poco, Dillard And Clark, Linda Ronstadt, Buffalo Springfield, Lovin’ Spoonful, i Byrds senza Gram, i Grateful Dead.
D.-I tuoi anni negli Eagles sono generalmente considerati il periodo d’oro della band: quale album tra il debutto, Desperado, On The Border e One Of These Nights ami più degli altri?
R.-Non ho un disco preferito. Credo che andare a Londra a registrare il primo album con Glyn Johns agli Olympic Studio sia stata la cosa più eccitante. Mentre riascoltavamo quello che avevamo registrato altri produttori venivano a sentire e ci dicevano “questo è un hit e anche questo”.

D.-Quegli anni con gli Eagles sono passati alla storia come anni selvaggi: sesso, droga…
R.-Mi sono sempre considerato un professionista e anche gli altri lo erano. Molto di quanto è stato detto, a proposito di donne, alcol, accade in qualsiasi altro mestiere dove sono coinvolti dei ragazzi, dei giovani. Ed è senz’altro vero che molte delle persone che giravano attorno a noi erano lì solo per divertirsi. Ma siamo onesti: può lavorare duro, viaggiare per settimane, suonare tutti i giorni e stare in piedi tutta la notte a bere e fare sesso. Quelli che ci hanno provato sono tutti morti.
D.-Sei rimasto con gli Eagles circa quattro anni, lasciando la band proprio prima del successo miliardario di Hotel California. Qualche rimpianto?
R.-Prima che lasciassi gli Eagles, tutti i quattro album nei quali ho suonato erano già ‘million seller’ negli Usa. Quando me ne andai fu pubblicato il Greatest Hits, che vendette subito 10 milioni di copie negli States, ed è oggi il disco più venduto di tutti i tempi (negli Stati Uniti, ndr), con oltre 27 milioni di copie. Questo è molto di più di quanto abbia venduto Hotel California. Fu una mia scelta lasciare la band. L’ho fatto per buone ragioni e non ho alcun rimpianto.
D.-Dopo oltre quarant’anni di dischi e concerti, cosa provi quando sali su un palco? Non sei stanco della vita da zingaro?
R.-È sempre una cosa speciale salire su un palco, anche perché ho degli amici, dei grandi musicisti, accanto a me: Tommy Burroughs, che suona mandolino, chitarra e violino in Mirror, David Kemper, Dan Schwartz. In questi giorni siamo io e Tommy. La vita da zingaro? Una volta che hai il tarlo del viaggio, vuoi sempre andare da qualche altra parte. Negli ultimi cinque mesi ho fatto circa 40 mila miglia…
D.-Ventisei anni per fare Mirror…
R.-È stata una mia scelta, attendere così tanto. Andava fatto adesso e l’ho fatto e questo è ciò che conta per me. Decideranno gli altri se Mirror significhi qualcosa o meno

Mauro Eufrosini, fonte JAM n. 108, 2004

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