La conversazione con Beth Hart è piacevole, scorre con spontaneità fin dalle prime battute dell’aneddoto col quale ha inizio: “L’altra settimana ero al telefono per un’intervista con una ragazza che stava raccogliendo interviste per un libro su cantanti blues ed ho esordito dicendo che non mi considero propriamente una cantante di blues…ci è rimasta male. Forse non dovevo dirglielo. Allora mi dice che è una rivista femminista e mi chiede delle mie lotte come donna. L’ho delusa di nuovo, infatti non sono mai stata discriminata o valutata meno di un uomo. Spero che ora non mi odierà!”
Come è nato il nuovo album, Better Than Home? E’ personale nei testi, però è più cantautorale come suoni. Hai anche cambiato produttore, passando da Kevin Shirley a Rob Mathes e Michael Stevens.
Tutto vero. Sono amica di Kevin Shirley, ci siamo scritti via e-mail giusto ieri, da quando ho lavorato per la prima volta con lui per il primo disco che ho inciso con Joe (Bonamassa), Don’t Explain. Mi ero trovata così bene con lui che dissi al mio manager David, che volevo a tutti costi fosse Kevin a produrre il mio prossimo disco. Cosa che è poi avvenuta, il disco si chiamava Bang Bang Boom Boom. In seguito abbiamo fatto un secondo disco con Joe, Seesaw che è andato molto bene ed ha persino avuto una nomination ai Grammy. A quel punto il mio manager e mio marito mi hanno detto, “Beth ci sono questi due produttori con i quali hai lavorato all’evento del Kennedy Center Honors che vorrebbero produrre un tuo disco”.
Io non volevo, preferivo continuare con Kevin, ero molto restia a provare qualcosa di diverso. Abbiamo discusso parecchio, alla fine mi hanno fatto capire che era importante raccogliere la sfida e non restare ancorata alle mie sicurezze. Al primo incontro con i produttori mi hanno spiegato quel che avevano in mente, cioè di mettere in luce il mio lato cantautorale, senza nascondermi dietro il blues o il rock’n’ roll. Non la presi benissimo, non pensavo infatti di nascondermi in nessun modo, adoro cantare blues e rock’n’roll. La sfida secondo loro era realizzare un intero disco che scavasse più in profondo e parlasse di me, della mia vita e delle mie emozioni in un modo che non avevo mai fatto prima. O comunque non per tutto un disco.
Ancora non ero convinta, ma essendo stata per molto tempo in terapia, tuttora sono in cura per il disturbo bipolare, so che posso avere paura di certe cose in modo non normale e rischio di basare le mie decisioni su queste paure. Proprio per questo, non ho seguito le mie paure e il mio istinto, ma ho accettato di fare il disco, pensando che se anche avessi fallito il mondo avrebbe continuato a girare e nessuno sarebbe morto. Così mi sono messa al lavoro, ho riunito insieme circa quaranta canzoni e i produttori sono stati di grande supporto e incoraggiamento. Ne abbiamo scelte dodici e ci siamo trovati a New York per circa una settimana di registrazioni.
Avete lavorato piuttosto rapidamente.
Sì, ma ormai è normale, almeno per qualcuno come me. Solo se sei una pop star e una major è disposta a spendere milioni per un artista i tempi si allungano. E’ stato duro incidere quei pezzi e una sera sono anche stata male, perché ho capito d’un tratto che questa volta mi esponevo molto e non c’era quasi nulla dietro cui nascondersi. Tutte le canzoni le ho scritte io, e perciò non ho nemmeno qualcun altro da incolpare se non piaceranno a nessuno. In un certo senso temevo di esternare anche la gioia, c’è qualcosa di rassicurante nel dolore, nella tristezza e nel nascondersi sotto le coperte, hai meno responsabilità. Se assapori la gioia, poi hai qualcosa da perdere e nelle canzoni sentivo che c’erano anche speranza e fede. Quando le ho risentite per la prima volta, le paure sono riaffiorate di nuovo, quasi mi vergognavo di quelle canzoni. Ho detto ai produttori di procedere al missaggio e finalmente dopo averle ascoltate, ho capito che non sono poi tanto male.
Le canzoni le hai scritte appositamente per questo progetto oppure alcune di esse le avevi nel cassetto ma non le avevi mai incise prima, magari perché troppo personali?
E’ precisamente la seconda cosa. Ad esempio St. Teresa l’ho scritta tre anni e mezzo fa e Tell ‘Em To Hold On risale invece ad oltre due anni fa. Mood That I’m In e Trouble invece le ho scritte addirittura sei anni fa, Tell Her You Belong To Me l’ho finita per questo disco ma era un pezzo su cui lavoravo da tempo, non è stato facile finire quella dannata canzone di cinque minuti, mi ci è voluto un anno per finire di scriverla. Mama This One’s For You invece l’ho scritta in dieci minuti. Perciò sì, alcune canzoni le ho recuperate dal passato e altre le ho scritte apposta per questo progetto.
Facendo un passo indietro, la tua partecipazione con Jeff Beck al Kennedy Center Honors ha portato alla collaborazione con Buddy Guy.
Sì, Guy era tra i premiati quell’anno e poi ho cantato nel suo disco (Rhythm & Blues n.d.a.) però ti dirò una cosa, non ci eravamo mai incontrati, anche il disco è stato fatto a distanza. Poi finalmente lo scorso anno al Byron Bay Festival in Australia, Buddy era in cartellone ed anch’io ho tenuto un paio di concerti. Una sera qualcuno è venuto a chiamarmi nel camerino dicendo che Buddy Guy voleva vedermi e allora sono andata a trovarlo.
Se ne stava lì seduto sorseggiando un crown royal o qualcosa del genere, mi ha fatto sedere accanto a lui ed ha cominciato a raccontarmi storie e aneddoti sul passato, sulla sua amicizia con Etta James, storie personali, divertenti, è stato bellissimo, e mio marito che era seduto a pochi passi era a sua volta incredulo. Ho osservato il suo concerto dal backstage quella sera, Buddy è straordinario, non so come faccia, ha ancora un’energia fuori dal normale, sembra che gente come lui venga da un altro pianeta.
Hai avuto modo di cantare con lui sul palco?
Macché, non ci crederai e non ci faccio una gran figura, ma la seconda volta che ho aperto un concerto per lui, mi sono fermata a vedere il suo concerto e poi sono dovuta andare al bagno, proprio in quel momento mi ha chiamato sul palco! Quando sono rientrata era troppo tardi, poi tutti mi hanno chiesto, “ma dov’eri finita ti ha chiamata”. Mi è dispiaciuto moltissimo, ma forse sarei stata troppo tesa. Spero ci siano altre occasioni di farlo.
Hai citato prima Etta James, una delle tue artiste preferite.
Mi ricordo come fosse ieri la prima volta che ho sentito Etta James. Ogni estate andavo col mio amico Ron Williams, ci siamo conosciuti al liceo, a trovare i suoi genitori sul lago Tahoe, un posto molto bello. Da Los Angeles in macchina è lunga, ma eravamo adolescenti e ascoltavamo molta musica e l’un l’altro ci dicevamo “devi ascoltare questo!” Mi ricordo che all’epoca ero ossessionata da Big Joe Turner. Ron ad un certo punto disse “questa non la conosci” e mise una cassetta di Etta James, un concerto dal vivo registrato in un piccolo club, la sua voce era meravigliosa, le canzoni erano bellissime, era una musica ricca, onesta, pura, si avvertiva subito che veniva da una sopravvissuta, una che aveva lottato e ne aveva viste di tutti i colori.
Che avesse una voce incredibile era evidente e poteva fare quel che voleva dal punto di vista tecnico, ma la cosa ancor più impressionante era per me la sensazione che la vita abbia cercato di spezzarla e tuttavia lei abbia resistito. Avesse rifiutato di cedere. Questo mi ha dato speranza. Non ho cercato di cantare come lei, non mi piaceva nemmeno molto la mia voce; ho provato a cantare il suo tipo di repertorio solo molto più avanti nella vita, più blues e soul, ma non da giovane. Volevo emulare la sua attitudine e convinzione. Mi procurai diversi dischi di Etta, ma devo dire che quelli in studio spesso li trovavo troppo prodotti, come se qualcuno le volesse dire come cantare, la sua forza veniva smorzata. Ora, a distanza di anni, li apprezzo lo stesso ed alcuni sono belli, ma dal vivo resta ineguagliabile, ascolta Blues In The Night.
Tra quelli in studio Tell Mama, registrato a Muscle Shoals, è un grande disco, forse quello che la cattura al meglio.
Non ce l’ho presente, aspetta controllo su internet, sempre che il mio telefono funzioni ancora. Ecco qua…ah era il disco su cui c’era I’d Rather Go Blind, che grande canzone, tra l’altro sapevo che il pezzo lo aveva scritto lei, ma ho controllato e ufficialmente è attribuito a Billy Foster e Ellington Jordan. Probabilmente questioni di soldi, so che cose del genere avvenivano all’epoca e a volte le etichette mettevano dei coautori che non avevano davvero avuto un ruolo nella composizione.
Come ti sei appassionata alla musica?
Da bambina ho sentito un pezzo che mi ha colpito moltissimo e mi ha spinto a suonare il piano: Moonlight Sonata di Beethoven. E’ un pezzo magnifico e tuttora mi commuove. L’avevo sentita in televisione, era utilizzata come sottofondo in una pubblicità di pianoforti. I miei mi trovarono in piena notte mentre cercavo di suonarla al piano, ad orecchio, avevo quattro anni. Allora mi mandarono a lezione, non mi piaceva leggere la musica però mi piaceva scriverla, tanto che al mio primo recital di piano suonai un pezzo che avevo composto io. Mia sorella Sharon, che è morta qualche anno fa, mi sollevò e mi fece sedere al piano e restò li di fianco a me mentre suonavo.
Non ricordo come faceva quel pezzo e non ci sono registrazioni. Volevo suonare musica classica, presi lezioni e cominciai anche a studiare canto lirico, opera, ricordo che la mia insegnante diceva che non avevo abbastanza disciplina, non segui propriamente le regole, “nella musica classica non puoi fare come vuoi tu, altrimenti vai cantare jazz se vuoi improvvisare”, diceva. La cosa mi rattristò, perché quella musica mi piaceva molto e penso ancora sia molto bella. Tuttora la suono ogni tanto per me stessa, mi diverto a suonare, anche se non sono poi molto dotata come pianista.
Da qui come sei arrivata a suonare rock? Hai messo insieme una band?
Ho sempre suonato dai quattro anni in avanti, col piano e poi ho suonato violoncello in un’orchestra, per cui stare su un palco era diventata una cosa familiare. Quando vidi il musical ‘Annie’, avrò avuto sei o sette anni, cantavo sempre una di quelle canzoni per mia mamma. A quattordici anni feci un’audizione per una scuola di arti, come cantante classica e violoncellista. Mi presero, ma detestavo quella scuola, avevamo corsi di inglese, matematica e storia al mattino mentre al pomeriggio ci si dedicava alla musica. Io non volevo studiare inglese, matematica…così al penultimo anno mi hanno buttato fuori. Però l’anno precedente avevo conosciuto il mio amico Ron, di cui ho parlato prima, lui mi ha incoraggiato a cantare nei club di Los Angeles. Ho cominciato allora a cantare la mia musica nei club, funzionava così: bisognava che ti procurassi una cassetta con incisa la base musicale, fosse un pezzo tuo o una cover, poi nel locale mettevano la base e tu ci cantavi sopra. Mi divertivo ma non ci ricavavo gran che, in più ero al verde perché avevo lasciato la scuola e non vivevo più a casa con mia madre.
Qualcuno mi parlò di South Central L.A., una zona piuttosto pericolosa della città, ma un buon posto per cantare, perché c’erano locali con una band, potevi dare alla band lo spartito del pezzo che volevi cantare e se al pubblico piaceva la tua interpretazione si mettevano in fila per darti un paio di dollari e dirti di cantarne un altro, così a volte ti ritrovavi con quaranta o cinquanta dollari dopo aver cantato un paio di pezzi. Alla fine della serata c’era una sorta di contest tra tutti quelli che avevano cantato, perciò potevi avere un altro centinaio di dollari. Ogni sera della settimana potevo cantare in due o tre posti diversi e riuscivo a vivere di quello, ho imparato molto in quel periodo su come stare su un palco, anche perché se al pubblico non piacevi, ti fischiavano pesantemente e quasi eri costretto ad andartene. Feci anche un’audizione per uno show televisivo tipo ‘American Idol’, ci andai giusto perché il mio migliore amico Ron mi sfidò a farlo, mi pagò cinquanta dollari.
Quando mi chiamarono per dirmi che ero stata presa, gli dissi persino di no, ero già contenta di aver vinto la scommessa col mio amico! Mi richiamarono, chiedendomi di incontrarli. Ci andai e mi dissero che se avessi preso parte allo show avrei potuto fare quello che volevo, scegliere un produttore per i miei pezzi. Perciò ero molto tentata e alla fine decisi di farlo. Con quello che era il mio manager dell’epoca andammo in Florida per tredici show e alla fine un po’ a sorpresa vinsi. C’era anche un premio in denaro e con quei soldi mi trasferii dalla topaia in cui abitavo, un semi-interrato pieno di scarafaggi, in un bell’appartamento, comprai nuovi mobili e feci riaccordare il mio pianoforte. In sei mesi spesi tutti i soldi dello show! Mio padre dovette darmi una mano con l’affitto, perché non avrei più potuto permettermelo. Cominciai allora ad andare a suonare per strada, prendevo una custodia per chitarra aperta e all’interno la gente passando lasciava qualche dollaro, stavo più che altro sulla Third Street Promenade.
Gli alti e bassi del mestiere di musicista. Fu lì però che incontrai l’uomo che è tuttora il mio manager, da vent’anni, David Wolff, la persona migliore del mondo, a parte mio marito. E’ rimasto anche durante i tempi difficili, so che posso contare su di lui in qualsiasi momento. Anche un paio d’ora fa mi sentivo insicura e stanca, allora l’ho chiamato, sebbene per lui fossero le tre di notte, ha risposto subito “Beth, ti senti bene?”, mi sono accorta di averlo svegliato ma non era seccato, solo preoccupato che fossi a posto, abbiamo parlato per un’ora.
La musica è stata un aiuto nei momenti più delicati? Una specie di terapia?
Oh si, la musica è un rifugio sicuro, una festa con Dio. Quando mi siedo al piano mi sento circondata da angeli, talmente a mio agio da svelare quel che dentro, se sono felice, confusa, impaurita, sola o piena di vergogna. La musica è il luogo dove parlare di tutto questo, ha un grande potere. Una volta ho sentito Buddy Guy dire che canti il blues perché hai il blues, ma quando lo canti il blues se ne va. Credo sia così, è una sorta di istinto, non è che si sceglie di respirare del resto. Eppure per quanto ami la musica, so che non riuscirei ad andare avanti se succedesse qualcosa a mio marito, è tutto per me.
Come è nata la collaborazione con Joe Bonamassa?
Non ci conoscevamo fino a qualche anno fa. Joe venne ad un piccolo concerto che tenni a Londra, in quell’occasione parlò con mio marito Scott e gli disse che avrebbe voluto fare un disco di cover soul con me. Io non lo incontrai. So che lui aveva sentito una mia canzone sul disco che si intitola 37 Days, la canzone gli piaceva e la trasmetteva ad uno show radiofonico che teneva ogni domenica sera.
Finalmente facemmo conoscenza in Olanda dopo un concerto, qualche mese dopo, Joe rilanciò l’idea del disco e gli dissi di sì, senza pensarci troppo. Non avrei immaginato che farlo mi avrebbe segnato in questo modo. Joe è una persona con un’etica del lavoro molto forte, come un artigiano che si impegna costantemente a modellare la propria arte. Poi mi ha colpito molto quanti progetti riesca ad affrontare quasi nello stesso momento, una sfida continua, non so come faccia.
Non posso parlare per lui ma credo che, come per Jeff Beck, sia molto legato alla chitarra e sappia dove vuole andare a parare; tuttavia quelli come loro penso abbiano bisogno in qualche modo di essere sempre in movimento, scrivere, comporre, incidere e fare concerti. Jimi Hendrix, per quanto mi hanno detto, era così, suonava persino nella sua stanza d’hotel. Lo stesso Vinnie Colaiuta, quando sono andata in tour con Jeff, se bussavi alla sua porta lo trovavi mentre suonava su un piccolo kit da batteria e anche quando andavamo a cena era lì che teneva il tempo e batteva su piccole bacchette! Ognuno ha talento a suo modo ma c’è anche chi lavora molto per affinarlo.
Come è stato cantare, nei due dischi con Bonamassa, pezzi dal repertorio di cantanti quali Billie Holiday, Nina Simone o Etta James?
Cantare una canzone associata ad artiste che ho idolatrato mette paura, ovviamente. Ma non l’ho presa in questo modo, altrimenti non ce l’avrei fatta. Mi sono focalizzata sulle canzoni stesse, pensando cosa avrebbero rappresentato se le avessi scritte io, quale sarebbe stata la storia. Chiaro che su Strange Fruit, si potrebbe pensare “quale dannata storia potresti mai avere che riguarda il linciaggio di afroamericani?”
In questo caso, il mio punto di vista è stato quello della compassione, verso la sorte atroce di queste persone, per fatti commessi nel mio paese, una pagina nera di storia americana. E’ una canzone che mi ha sempre colpito fin da bambina e che ho proposto io a Kevin Shirley. Per quanto scura e triste, credo ci sia molta luce in essa, c’è onestà, non lascia che la gente dimentichi. Mia sorella era contraria, non voleva assolutamente che la facessi. Ma molti non sanno che la canzone è stata scritta da un bianco e alla fine credo che conti la storia in sé, non tanto chi la racconta, se lo fa appunto con onestà e compassione.
Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 131, 2015