Lo abbiamo conosciuto in prima persona lo scorso dicembre, in occasione di un suo concerto milanese, ma la storia del cinquantenne Wilson Blount ci già aveva incuriositi. Forse proprio perché sembra la personificazione del detto “non è mai troppo tardi”; il suo percorso musicale ha preso il via, in modo quasi inaspettato, una volta scoperta una matura vocazione blues. Negli ultimi anni ha cominciato a farsi conoscere, soprattutto in Europa, dove è arrivato trent’anni fa come militare nell’esercito statunitense, finendo per stabilirsi in Germania.
Sappiamo che ti sei avvicinato al blues da adulto in Germania, ma che musica ascoltavi da giovane?
Da giovane, sarà stato più o meno sul finire degli anni Sessanta, non sapevo nemmeno cosa fosse il blues, al massimo conoscevo il gospel. Tutti i miei parenti infatti cantavano in chiesa e qualcuno suonava il piano, mio cugino Jimmy Blount era un bassista e batterista, è lui una delle mie influenze maggiori. Con mia sorella andavamo in chiesa a cantare canzoni gospel e una volta ci fecero cantare un duetto, però cantai così male che decisi di non cantare più in pubblico! Vent’anni dopo un mio amico mi ha portato ad un concerto di blues, e per qualche ragione alla fine mi sono ritrovato sul palco a cantare.
Come è nato il soprannome Big Daddy Wilson?
Mio padre si chiamava John Henry Wilson e in qualche modo volevo rendergli omaggio. Oltre a ciò, dopo la fine del mio periodo nell’esercito avevo messo su peso e allora alcuni amici avevano cominciato a chiamarmi Big Belly B. (non che la cosa mi piacesse, però devo ammettere che non suonava male), e così alla fine ho adottato lo pseudonimo Big Daddy Wilson.
Prima di dedicarti a progetti solisti hai fatto esperienza con gruppi diversi?
Ho cantato in un gruppo funk e soul, Colors, con il mio migliore amico Greg Copeland originario di Portsmith, Virginia. Poi ho fatto parte di una band di blues & roots acustico che si chiamava The Mississippi Grave Diggers, dove c’erano due ottimi musicisti ungheresi Olar Andor all’armonica e Greg Bell al violino, oltre al chitarrista tedesco Doc Fozz. Insieme abbiamo realizzato un CD Get On Your Knees And Pray e ci siamo divertiti. Con Fozz in seguito ho anche inciso diversi dischi in duo.
Sei passato dall’autoproduzione a dischi per etichette consolidate, Ruf e Dixiefrog, quale è la situazione migliore?
Dipende molto dalle condizioni, ma certamente il supporto di una casa discografica può essere importante. Il music business è un mondo difficile, e il blues non si può certo dire che sia musica mainstream, ecco perché dal mio punto di vista tutto l’aiuto che puoi avere è bene accetto. All’inizio non avevo il supporto di una etichetta e la cosa mi stava bene, poi il contatto con Thomas Ruf mi ha aperto alcune porte e ora forse ho trovato una situazione ideale con Dixiefrog e l’agenzia per i concerti francese Nueva Onda. Ognuno rema nella stessa direzione e questo fa sì che le cose funzionino al meglio.
Hai suonato con musicisti di origini differenti, per citarne alcuni: lo svedese Staffan Astner, Michael Van Merwyck, tedesco, l’italiano Roberto Morbioli; cosa li accomuna e cosa trovi in ognuno di loro.
Il blues è il loro linguaggio comune, anche se ovviamente ogni musicista è differente ed ha uno stile proprio, molto definito. E’ proprio questo che mi piace, il confronto con personalità e approcci differenti, in quanto penso sia un grande arricchimento per la musica.
Come raccontavi durante il concerto, hai avuto modo di suonare in North Carolina, ti senti parte di quella tradizione musicale, che da Blind Boy Fuller arriva a John Dee Holeman?
E’ stato molto bello tornare nel mio Stato d’origine, a casa, dopo tutti questi anni ed essere accolto e accettato così calorosamente. So che la tradizione del blues lì è molto radicata, ed arrivare ad esserne parte sarebbe un onore. Certamente sento una connessione con essa e la mia musica, anche perché in molti dei miei pezzi parlo della mia storia e delle mie origini.
Cosa ti lega e Eric Bibb, visto che avete collaborato in un tuo disco precedente e c’è un suo brano in I’m Your Man.
Per me è una sorta di mentore, un grande musicista e un punto di riferimento musicale sin da quando ho conosciuto la sua musica anni fa. Sono contento che sia diventato mio amico. Ci sono molte connessioni, anche Staffan Astner e i musicisti svedesi che suonano sul disco li ho conosciuti per suo tramite. Gli avevo chiesto un aiuto per il primo CD che ho realizzato per la Ruf e così è stato: è venuto ed ha suonato in due brani. Mi piace anche il messaggio che a volte convogliano i suoi brani, un po’ come il titolo del mio disco “love is the key”.
Come vedi il mondo del blues, per quanto hai avuto modo di conoscere in questi anni?
Mi sembra ci sia, a livello globale, un gruppo di persone accomunate dall’amore per il blues che cercano di tenere viva questa musica. Non è una questione di nazionalità, razza, religione, nulla di tutto questo, per me vale il detto “blues is a feeling”, dobbiamo dunque suonare tenendo ben presente questo. Il blues per me rappresenta storia, verità, bellezza, resistenza, non so se sono un bluesman, mi ritengo semplicemente un uomo che cerca di suonare blues perchè ama questa forma d’arte, con grande rispetto verso i bluesmen del passato, i veri pionieri di questa musica. Nel mio viaggio con il blues ho avuto la fortuna di suonare in molti posti e di incontrare persone che mi hanno ispirato; tra tutti i posti dove ho suonato ricordo in particolare la Nuova Zelanda.
Sul palco suoni prevalentemente le percussioni, una scelta poco comune, come mai?
La batteria è stato il mio primo amore, per cui, non avendone una, utilizzavo le mani percuotendo libri, stoviglie e piatti e qualunque cosa avevo intorno! Mio cugino mi ha insegnato diverse modalità di battere e la tecnica di base per le mani. Mi piace il ritmo che dà la batteria, perciò è stato naturale percuotere qualcosa mentre canto. Ho aggiunto di recente al mio set di percussioni un cajon, mi sembra che funzioni molto bene in acustico.
In Baby’s Coming Home Again sull’ultimo tuo disco suoni un diddley bow.
La prima canzone in assoluto che ho scritto l’ho suonata con una chitarra ad una sola corda, ma il diddley bow è stato per me una scoperta recente, perché risale a tre o quattro anni fa quando ho suonato al festival di Cognac e ne ho visto uno. Ho pensato che faceva proprio al caso mio e così su I’m Your Man ho scritto un pezzo per questo strumento.
Hai anche ripreso canzoni già presenti in dischi precedenti.
Sì, in quanto si tratta di canzoni a cui sono legato, pietre angolari della mia carriera in un certo senso; volevo che avessero un nuovo arrangiamento, più complesso, nella versione originale erano in duo acustico, ero curioso di vederle in una nuova veste. Ora che sono più conosciuto, queste canzoni potranno essere apprezzate da un pubblico più ampio.
Stai lavorando ad un nuovo disco? Nel caso con chi ti piacerebbe collaborare?
All’inizio del 2014 registreremo un nuovo album, sempre con la collaborazione di Staffan Astner. Ci sono molti altri musicisti coi quali vorrei suonare, ma per il momento è presto per fare nomi, di sicuro continuerò a suonare con musicisti di varia estrazione e provenienza.
(Intervista realizzata a Milano il 17 dicembre 2013)
Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 126, 2014