From Spirituals To Swing cover album

Ci sono stati momenti nella storia in cui la musica ha avuto un valore sociale. Adesso tutti vogliono la musica, siamo circondati, affogati, assediati dalla musica in ogni momento, ma non ha alcun valore sociale. Ognuno è parcellizzato nel suo consumo, più o meno specializzato, e di intrattenimento, hobby, collezionismo si tratta. Volendo, anche importante a livello di formazione, di ricerca, di gusto personale, ma pur sempre distante, se non proprio astratto, dalla realtà. L’industria discografica ha avuto un ruolo specifico in questo con prodotti sempre più sofisticati e sempre meno efficaci, ma è utile ricordare che ci sono stati momenti in cui la musica non solo fotografava lo spirito dei tempi, lo spingeva avanti, spostava davvero il senso, la percezione, l’idea di un mondo e una realtà verso territori sconosciuti, magari (si spera sempre) migliori.

Uno di questi momenti (due, facendo i conti giusti) sono le serate alla Carnegie Hall chiamate From Spirituals To Swing alla vigilia di Natale del 1938 e del 1939 quando un cast straordinario inondò New York di blues e di swing. L’anfitrione delle serate era John Hammond (senior, vale la pena di specificare, almeno una volta) e la scintilla iniziale delle serate From Spirituals To Swing era rendere omaggio e ricordare Bessie Smith, scomparsa un anno prima. L’occupazione della Carnegie Hall ha già un valore più che simbolico. L’incrocio di New York dove ha sede è al centro di una serie di particolari crossroads e la stessa Carnegie Hall ha una storia complessa alle spalle. Tutto comincia durante un viaggio di nozze, nella primavera del 1887, quando a bordo del piroscafo di linea tra New York e Londra, Andrew Carnegie e la novella sposa Louise Whitfield incontrano Walter Damrosch. Premessa fondamentale: Andrew Carnegie è un industriale che, partendo dal nulla e seguendo lo sviluppo della rete ferroviaria americana e relativo indotto, ha moltiplicato le sue fortune.

Neanche la guerra civile riuscì a fermarlo: in qualità di assistente del Segretario di Stato, si occupò dei trasporti e delle comunicazioni, contribuendo a realizzare la rete del telegrafo. Un visionario iperattivo e convintissimo della concretezza della modernità del sogno americano rispetto alle antiquate realtà europee tanto da descriverlo, in uno dei suoi libri (trovò il tempo di scriverne parecchi), come la ‘democrazia trionfante’. A venticinque anni, invece, Walter Damrosch aveva appena concluso la sua seconda stagione come direttore della Symphony Society of New York dell’Oratorio Society of New York e stava viaggiando verso l’Europa per un’estate di studio. Lui, Carnegie e la moglie diventarono subito amici nella comune passione per la musica ed è lì in mezzo all’oceano che nasce l’idea di una nuova sala per concerti a New York. A dispetto dei luoghi comuni legati alle sue origini scozzesi, Andrew Carnegie si rivelerà un vero filantropo e tre dopo anni avviò la costruzione della Carnegie Hall con queste parole: «È stata costruita per restare nei secoli, e durante questi secoli è probabile che la storia di questa Hall si attorciglierà con la storia del nostro paese». Sarà proprio così nel tempo, visto che di volta in volta ospiterà Gustav Mahler, Leopold Stokowski, Vladimir Horowitz, Maria Callas, Liza Minnelli, Paul Robeson, Bob Dylan ma anche presidenti come Woodrow Wilson e Theodore Roosevelt e scrittori come Mark Twain e Booker T. Washington.

Tutto comincia il 13 maggio 1890 quando Louise Whitfield ora Mrs. Carnegie posa la prima pietra con l’ausilio di una cazzuola d’argento fornita in esclusiva da Tiffany & Co., quella che ancora oggi si definisce “la più esclusiva gioielleria del mondo”. Il dettaglio non è soltanto una curiosità, lo sfoggio di un vezzo o una spicciola notizia di gossip. È un particolare che evidenzia le radici altolocate e chic della Carnegie Hall, una possibile versione dell’american dream e anche della sua distanza dalla realtà.
Gli anni di From Spirituals To Swing sono gli stessi in cui John Steinbeck racconta la misera epopea della famiglia di Tom Joad nella polvere con Furore (Bompiani), dove scriveva: «la gente è il posto dove vive». L’importanza del luogo è fondamentale per capire quanto peserà la variopinta carovana di musicisti invitata da John Hammond: New York è il riflesso di una società carburata da una bella miscela di ambizione, ipocrisia e alcol (che non manca mai). I racconti di Dorothy Parker radunati in Eccoci Qui (Astoria) sono una validissima testimonianza dell’atmosfera di quegli anni e di quei quartieri. La citazione nasce dal fatto che la short story che apre le danze (e non solo in senso metaforico) di Eccoci Qui si chiama ‘Composizione in bianco e nero’ ed è, fatte le dovute proporzioni, una sorta di versione di From Spirituals To Swing solo che il proscenio non è quello della Carnegie Hall, ma le pareti di un ricco salotto. Il racconto narra l’incontro di un’eccitata signora con il bluesman e/o jazzista (una distinzione impalpabile, al momento) protagonista della serata. Si chiama Walter Williams e ha suonato Water Boy, canzone che andava per la maggiore nel periodo (la suonava anche Fats Waller). Sono solo una mezza dozzina di pagine, e ancora oggi viene studiato nelle università americane. Da una parte Tiffany & Co., dall’altra il blues (e il jazz): avrà avuto (anche) i suoi motivi economici, certo, John Hammond: per intenderci, per assistere ai concerti di From Spirituals To Swing si pagava il biglietto e non erano serate di beneficienza, ma prima di tutto è la forza dell’incontro. Lo stesso omaggio a Bessie Smith è un segno rilevante, proprio nel tempio della borghesia di NYC, del coraggio di John Hammond, che fu esplicito nel dichiarare la natura provocatoria di From Spirituals To Swing.

Piccola parentesi su Bessie Smith, doverosa. La storia, in particolare quella della sua tragica e crudele morte, è nota. Vale la pena riscoprire come la racconta un testimone dell’epoca, Mezz Mezzrow, clarinettista, uomo di mondo e a sua volta scrittore (Ecco I Blues, la sua autobiografia, un tempo pubblicata da Longanesi e ormai introvabile, è fantastica). Ecco la sua versione, come riportata da Jackie Kay in Bessie Smith (Playground), altro piccolo, agilissimo e dettagliato volume dedicato alla grande cantante: «Avete sentito cos’è successo a quella splendida donna piena di vita? Sapete com’è morta? Quel giorno del 1937? La sua macchina rimase coinvolta in un incidente automobilistico giù nel Mississippi, lo Stato Omicida, e l’impatto le tranciò quasi di netto il braccio. La portarono in un ospedale, ma pare proprio che lì non ci fosse posto per lei, a quella gente non importava nulla di una donna nera. La macchina si mise di nuovo sulla strada, mentre il sangue di Bessie Smith gocciolava sui tappetini. Alla fine venne ricoverata in un altro ospedale, in cui probabilmente erano daltonici, ma a quel punto aveva perso così tanto sangue che non era più possibile operarla e dopo qualche ora morì». E’ qualcosa che va oltre il risarcimento culturale: da lì è anche un’apertura che andava presentandoe che coinvolgeva alcuni degli spunti più innovativi e spericolati di quel particolare frangente storico.

Per capirci, far suonare Charlie Christian alla Carnegie Hall è come se Jimi Hendrix avesse messo piede alla Scala, trent’anni dopo. Ora. Sterling Brown nell’introdurre l’edizione di From Spirituals To Swing del 1939, giusto prima che cominci con Gospel Train del Golden Gate Quartet, lo chiama «un passo rivoluzionario» ed è proprio quello che è successo, perché convogliare le energie di Sonny Terry, Ida Cox, Meade Lux Lewis e accostarli a Benny Goodman, la stella del momento, per una volta li ha resi uomini e donne non più ‘invisibili’. Inoltre non si trattava soltanto di un appuntamento tra artisti e pubblico fin lì divisi dal folle perché di un colore diverso e riuniti sotto l’egida della musica. O meglio del blues perché, Carnegie Hall, New York e tutto quello che è nella notte della vigilia di Natale si sono presi il gospel e gli spiritual e anche Paging The Devil, Honky Tonk Train Blues, Honeysuckle Rose, Lowdown Dirty Shame, Rock Me e più di tutti Boogie Woogie (non proprio canzoni natalizie). Ci sono anche i contatti scintillanti tra forme musicali che si stanno evolvendo in modo rapido ed esponenziale: sono le spontanee collaborazioni tra Albert Ammons e Big Bill Broonzy o i Kansas City Five con Lester Young ed è quella foto di Sister Rosetta Tharpe con Count Basie. L’unico, immenso rammarico riguarda Robert Johnson, che doveva essere la sorpresa (che sorpresa!) della serata, in quanto incarnava non solo il country blues, ma anche, nonostante nessuno allora lo sapesse, il blues a venire. Gli agenti della Vocalion incaricati da John Hammond di rintracciarlo e convocarlo riuscirono nel loro intento, prenotandolo per la serata del 23 dicembre 1938, ma poche settimane dopo morì.

Ecco, ascoltando From Spirituals To Swing si ha la sensazione che stava succedendo qualcosa di importante o, per usare parole migliori, che tutte le persone coinvolte da John Hammond alla jam session del concerto della vigilia di Natale del 1939 avessero «la sensazione di aver fatto qualcosa di compiuto», come avrebbe scritto Dorothy Parker. Molti anni dopo, da un sotterraneo non lontano dalla Carnegie Hall, William Burroughs scriverà che «la musica è in grado di evocare una situazione del passato, in modo molto più accurato rispetto, per esempio, a un sottofondo neutro fatto solo di parole». Le registrazioni di From Spirituals To Swing (il long playing sarebbe stato inventato dieci anni dopo) circolarono su acetati, poi una prima volta su vinile e su compact disc e infine, per fortuna, racchiuse in uno splendido cofanetto degno di rappresentare un vero e proprio evento storico. Quello che evocano queste apparizioni sul lussuoso palco della Carnegie Hall è ancora un futuro inesplorato, quando qualcuno con grazia, con stile, con gusto raffinato e con le proprietà di That Rhythm Man, gli accenti del blues e dello swing, espropria una fortezza e i muri vengono giù.

Marco Denti, fonte Il Blues n. 126, 2014

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