C’è sempre stata una strana visione algebrica del blues: le dodici battute, i tre accordi, i quattro quarti di solito sono le fondamenta, ma in un modo o nell’altro le cifre fanno molta fatica a mantenere un certo rigore matematico. Già la musica è un fenomeno incontrollabile, poi il fattore umano, l’errore in sé, tende sempre a scombinare i risultati perché come diceva ‘Il mago dei numeri’ di Hans Magnus Enzensberger «a volte riesci a procedere solo per vie traverse, allungando il percorso, e altre non ci riesci per niente. Magari ti è venuta un’idea promettente ma non puoi dimostrare che va oltre. Oppure scopri che la tua ottima idea non era affatto ottima». Se qualcosa non sta al suo posto, è inutile cercare un ordine che non esiste: tanto vale adeguarsi e trovare quel ‘numero irragionevole’ (lo dice ancora il ‘mago’) che per incanto trasforma il caos in novità e in bellezza.
Non c’è niente, più del blues, che rispecchi questa alchimia: l’eccentricità è radicata nel suo spirito, almeno quanto è innata (se non proprio inconscia) la volontà di trasformare l’ingiustizia, il dolore, la fatica, la vita in meraviglia. Il processo, che era e resta magico, è andato via via levigandosi, come avviene nel corso del tempo per ogni fenomeno culturale, raggiungendo infine formati più o meno riconoscibili in uno standard in cui le dimensioni sono quelle, e quelle restano.
Tra tutti i bluesman, uno ha scombinato gli addendi e ha applicato la vitale creatività ai numeri, ed è Big Joe Williams, con la sua particolare vocazione alle chitarre a nove corde. Ad una lettura superficiale che una chitarra abbia nove corde può essere del tutto irrilevante: è vero che possono essere tre in più delle normali sei, ma è anche vero che basta prendere una chitarra a dodici e toglierne altrettante, un procedimento non particolarmente ingegnoso. E’ il particolare assemblaggio che fa la differenza perché se la matematica torna, quando si tratta di blues le somme sono imponderabili. Le corde (in più o in meno, alla fine è lo stesso) di Big Joe Williams hanno distinto uno suo stile che ha inciso non poco nel procreare il rock’n’roll dai germi primordiali del blues. E’ lì lo scarto perché il blues è fatto anche di esplorazioni, di variazioni empiriche, di tentativi di trovare un’identità (soprattutto quello) attraverso tutti i mezzi possibili. Questa passione per le soluzioni custom è cominciata ben presto, anche per evidente necessità: Big Joe Williams si è costruito da solo il suo primo strumento, una classica cigar box con una corda, ma il lato dispari del blues gli è rimasto incollato addosso, insieme a una naturale propensione per il bricolage.
Quando ha potuto mettere mano a una chitarra un po’ più solida, è stato istintivo personalizzarla secondo l’ispirazione, ma arrivare ad aggiungere tre corde è stato un percorso tortuoso, così come l’ha raccontato lo stesso Big Joe Williams, molto tempo fa: «Ho provato a mettere una settima corda, che è diventata il doppio Mi e per un po’ me ne sono dimenticato. Ma un giorno arriva un tizio, comincia a girarmi attorno e dopo un po’ ha cominciato a usare anche lui quella corda in più. Ho pensato: devo confonderlo e allora ho aggiunto il doppio Si. Lui ci è rimasto, ma alla fine mi ha copiato ancora, per cui mi sono detto: okay, adesso lo sistemo una volta per tutte e ho aggiunto un Re. Non poteva farcela e infatti non ha più confuso la sua chitarra con la mia». Se il mostro generato dall’invidia altrui, era uno strano ibrido, è poi lo stile di Big Joe Williams ad averla resa un tratto distintivo, un modello di riferimento, un suono inimitabile. Il numero di corde può cambiare (peraltro Big Joe Williams usava un po’ tutte le variazioni delle chitarre) ma poi è l’uso determinarne l’identità perché lo strumento è solo una parte, meccanica, tra l’altro. La chitarra usata in modo percussivo, come è poi stata portata agli eccessi da John Lee Hooker fino a Ani Di Franco, è stato il tuo tratto distintivo. Se lo si ascolta bene l’impressione è di sentire due musicisti e non tanto per l’abilità tecnica, perché Big Joe Williams è stato istinto più che altro, e non perché abbiamo fatto chissà quali patti mefistofelici, ma perché ha applicato semplici accorgimenti meccanici, una variazione sul metodo e sullo strumento che gli hanno offerto una maggiore gamma di possibilità ritmiche.
Non è un caso che, partendo dall’influenza primaria di Charlie Patton, Big Joe Williams sia diventano un cardine indispensabile nell’evoluzione naturale del blues verso il rock’n’roll. Senza dubbio sono altri gli interpreti più altisonanti e conosciuti, anche più spiritati, volendo, ma Big Joe Williams con la sua strampalata chitarra ha aggiunto tutto uno spunto divergente, un accento particolarissimo, e riconoscibile. Basta pensare a Baby Please Don’t Go, incisa nel 1935: anche se alcuni ricercatori dubitano della paternità, non si può dire che non sia una ‘sua’ canzone perché poi, ripresa da Muddy Waters o da bluesman come Lightnin’ Hopkins e Big Bill Broonzy e infine trasformata in un fenomeno mondiale dalla versione di Van Morrison con i Them è diventata una delle canzoni più conosciute worldwide, proprio uno strumento di quella rivoluzione linguistica che si è portato dietro il rock’n’roll. Nello stesso modo si potrebbe dire di Crawling King Snake o di She Left Me A Mule To Ride e di canzoni legate all’immediatezza degli eventi storici come Low Down Dirty Shame e Watergate Blues (su cui andrebbe scritta tutta un’intera storia) o ancora di tutto il suo songbook, che comprende almeno un paio di centinaia di canzoni. Anche perché l’attitudine da bricoleur l’ha portato a non deprimersi, neanche quando l’attenzione verso il blues rurale andava scemando ed è così che ha collezionato una lunga trafila di etichette discografiche incidendo in lungo e in largo per gli Stati Uniti: oltre che ad applicare i suoi patchwork alla chitarra, ha messo insieme un puzzle di label che l’hanno seguito per tutta la carriera con una collezione non indifferente di incisioni.
L’altro elemento è la strada, visto che ha viaggiato senza sosta, partendo così: «Io viaggiavo sulle strade, sui treni merci, sui carri, e ogni tanto rubavo un cavallo e viaggiavo con quello. Il solo modo di lavorare per me era aspettare la fine di un periodo di lavoro, per essere lì il giorno della paga e suonare». La vocazione di musicista, gambler e riottoso vagabondo non gli ha impedito di osservare e cantare la dimensione lancinante delle povertà americane, generate dai guasti di un’economia che non ha niente di umano (agli inizi del secolo scorso, così come oggi): «Andavano là e mettevano su delle case di carta, proprio vicino al fiume. Il governo glielo permetteva, durante la Depressione, e il giorno dopo, no? C’era già un bordello, e il giorno dopo ancora una distilleria di whiskey, e poi, no? Delle case vere, in muratura. Non riuscivi a trattenerli». Dagli esordi con la Birmingham Jug Band per tutta la durata della sua esistenza (ha vissuto in pratica tutto il ventesimo secolo), Big Joe Williams non ha mai smesso di viaggiare anche se in I’Ve Been Wrong But’ll Be Right (un titolo molto ‘matematico’, in effetti) cantava di tornare a Crawford, Mississippi, dove era nato, il suo vagabondare lo porterà non solo a lasciare la sua influenza a St. Louis o Chicago ma anche a costruirsi tutta una serie di tappe in cui a vario titolo incontrerà, tra gli altri, Sonny Boy Williamson (il primo), Robert Nighthawk, Peetie Wheatstraw, Willie Dixon,Victoria Spivey (giusto per citarne alcuni, ma l’elenco allinea gran parte della storia del blues), per non dire, infine, di Bob Dylan in persona, che di lui ha detto: «E’ il più grande dei vecchi bluesmen». Bob Dylan c’è sempre e l’incrocio tra le due eminenze è ormai leggendario.
Big Joe Williams sosteneva di aver incontrato Bob Dylan persino nel 1941 ed è un po’ improbabile, visto che Robert Allen Zimmerman in quell’anno vedeva la luce per la prima volta. Forse Big Joe Williams confondeva un po’ le date (in effetti, si sono trovati e hanno persino suonato insieme, ma vent’anni dopo, cantando Sitting On Top Of The World e Wichita), ma si sa che in questa storia i numeri tendono ad essere un po’ sfuggenti, come, del resto, è stata la sua liaison con Dylan. Più concreto, continuo e fertile è stato il suo legame con Mike Bloomfield, il chitarrista di Highway 61 Revisited e raffinato cultore del blues che così riassumeva le sue peripezie con Big Joe Williams: «Il mondo di (Big) Joe (Williams) non era il mio mondo, ma la sua musica, sì. E’ stata la mia vita, avrei voluto fosse la mia vita. Così suonarci è stato tutto quello che ho potuto fare, e l’ho fatto al meglio di quello che ero capace. E’ la musica che ho suonato, so da dove veniva, e non c’è modo che lo dimentichi».
Per uno di quei casi del destino, Mike Bloomfield (che gli ha dedicato un piccolo libro, Me And Big Joe) è scomparso poco più di un anno prima, nel 1981, di Big Joe Williams che è morto a Macon, Georgia il 17 dicembre dell’anno dopo, ultima tappa di un ‘travelin’ man’ infaticabile e iperattivo. Anche più avanti nella carriera e nella vita, Big Joe Williams ha continuato a comprare delle ‘perfectly good guitar’ per dirlo con John Hiatt, ovvero delle chitarre a basso costo che poi decostruiva e ricostruiva a suo modo, aggiungendogli quelle tre corde in più e amplificandole, quando l’elettricità non è stata più una bizzarria, ma è diventata normale (anche per Dylan). Se la chitarra a dodici corde era usata in modo normale, le corde doppie intonate un’ottava sopra, nel dettaglio la H1260 Sovereign della Harmony a nove corde invece la usava con tre corde accordate all’unisono, per ottenere quell’effetto più potente, soprattutto dal punto di vista ritmico. Per motivi tutti suoi, Big Joe Williams chiamava la sua ‘little macchine’, il ‘basso a dieci corde’. Sorprende fino ad un certo punto: è il blues, non la matematica, i conti tornano sempre.
Marco Denti, fonte Il Blues n. 130, 2015