Bob Dylan e la chitarra

Folk singer o poeta? Cantante di protesta o profeta? Portavoce della beat e post beat generation o ispiratore di intere generazioni?
Parlare di Bob Dylan è sempre delicato, difficile, a meno che non si voglia cadere nel retorico, nel già detto. Andy Warhol nei suoi diari ha scritto che la presunta sensibilità verso l’esterno di Dylan altro non era che l’espressione falsa e distorta di un ‘anfetaminico’ che ha sempre e soltanto riflettuto su se stesso. Se questo giudizio può sembrare troppo duro e spietato, allora si potrebbe leggere la biografia che Robert Shelton ha scritto su Dylan e forse le parole di Warhol, debitamente ripulite da un’acredine neanche troppo camuffata, acquisterebbero una loro veridicità. Oggi, nel 1990, è difficile credere ad un Dylan profeta o cantante di protesta, per troppi anni queste valutazioni approssimative hanno allontanato il cantautore e la sua musica da tutto ciò che nel tempo lui ha invece dimostrato, detto, suonato e voluto: Dylan spogliato infine da ruoli che non ha mai voluto, da responsabilità attribuitegli di ispiratore e portavoce, rimane semplicemente il più grande musicista espresso dalla scena statunitense nella seconda metà del ventesimo secolo, l’uomo che ha perfettamente coniugato vari termini come country, folk, rock, rhythm ‘n’ blues, blues, in un qualcosa di unico ed irripetibile.

Affrontare Dylan su un mensile tecnico e dichiaratamente mirato ad un settore specifico come è Chitarre potrà far rabbrividire molti chitarristi – sappiamo bene che lui non è uno strumentista che si esprime a livelli tecnici di rilievo, eppure in tutta la sua produzione la sua chitarra è sempre presente accanto a quella di chitarristi chiamati appositamente per aggiungere alle scarne costruzioni del cantautore quelli che potremo definire degli ‘abbellimenti’, perché comunque e sempre la musica di Dylan potrebbe manifestarsi ed esprimersi anche soltanto attraverso un semplice accompagnamento di chitarra acustica, come è accaduto nei suoi primi quattro album e per metà del quinto oltre a vari episodi rintracciabili in buona parte della sua produzione.
Quindi questo su Dylan sarà un articolo tecnico nei limiti in cui questo termine può essere accostato al musicista di Duluth, ma soprattutto sarà una rapida e completa (nei limiti del possibile) carrellata su quei musicisti che hanno collaborato con Dylan senza mai aggiungere niente alla sua musica. Questo va detto subito: anche quando Dylan si affiderà a gruppi o ad altri musicisti per arricchire le sue intuizioni musicali, manterrà sempre un totale controllo sullo sviluppo della sua musica: “Non so nemmeno che cosa dovrebbe fare esattamente un produttore. I produttori di solito stanno troppo fra i piedi. Vanno bene per venirti a prendere all’aereoporto, per assicurarsi che in albergo tutti i tuoi conti siano stati pagati. Se sono davvero dei buoni produttori, ti consiglieranno di fare certe canzoni che magari ti dicono qualcosa. Ma quelli con cui lavoro io non sono effettivamente dei produttori: danno ai dischi il giusto sound, ma fino ad ora non ne ho incontrato nessuno che ne sapesse più di me su quello che faccio”.

Con Dylan oltre ad un certo numero impressionante di session men molto noti ed alcuni chitarristi minori o sconosciuti, hanno suonato tra gli altri anche Mick Taylor, Ron Wood, Robbie Robertson, Mark Knopfler e Mike Bloomfield, eppure mai questi musicisti hanno ‘coperto’ o caratterizzato le incisioni di Dylan spostandole verso un universo più vicino al loro; anche Knopfler in Slow Train Corning, l’album di Dylan forse più ‘contaminato’ musicalmente, non è riuscito in realtà ad imporsi e quel sapore Dire Straits che hanno molte parti per chitarra, mantiene sempre ed ancora una precisa identità dylaniana – è come se Dylan riuscisse sempre a prendere dai suoi collaboratori il massimo delle potenzialità riuscendo comunque ad amministrarle in un delicatissimo equilibrio che gli permette di sfruttarle in una direzione precisa, inconfondibile, che si adatta perfettamente alla sua idea musicale.

La scelta di dedicare uno spazio a Dylan chitarrista ed ai suoi chitarristi è nata proprio da questa considerazione, perché amministrare e ‘guidare’ in trent’anni di musica un piccolo esercito di chitarristi, denuncia una estrema sensibilità verso questo strumento.
Parlando di Dylan è inutile tracciare una storia della sua formazione, ancora oggi Dylan parlando della propria musica dice che nasce dai soliti tre accordi, ed anche se molti dei suoi collaboratori non sono d’accordo con questa autovalutazione riduttiva è chiaro che una dettagliata cronistoria dello sviluppo chitarristico di Dylan è inutile, mentre è necessario citare un brano della biografia scritta da Shelton per capire il ruolo che la chitarra-simbolo ebbe nel giovanissimo Dylan: il Manuale Pratico Di Chitarra Spagnola di Manoloff fu la sua prima guida, ma ben presto il suo orecchio e le sue dita presero il sopravvento e riuscì ad impadronirsi di una posizione dopo l’altra: aveva trovato la scala e la chiave.
“…mandami la chiave e troverò la porta giusta dovessi passarci il resto della vita… ” (da Tarantula).

La chitarra diventò per lui il bastone su cui appoggiarsi, l’arma, il simbolo di affermazione sociale, la coperta che da sicurezza, il frustino del cavaliere. A Hibbing c’è chi lo ricorda camminare su e giù per la strada, con la chitarra appesa alla spalla con una cinghia di cuoio; Chet Crippa racconta che Bob era sempre pronto a mettersi a suonare anche quando fuori faceva freddissimo. Man mano che Dylan cresceva, diventava anche più introverso e meno comunicativo. Tutte le sue attenzioni le dedicava alla chitarra, l’amica di cui poteva veramente fidarsi.
Il suo stile alla chitarra acustica è sicuramente personale: l’uso di accordature aperte (open RE, open SOL) e dell’accordatura MI-LA-RE-SOL-SI-RE, l’accompagnamento costruito su un continuo uso di fingerpicking e strumming, la costruzione di accordi non proprio inusuali ma particolari come il SOL, preso anche con il RE sulla seconda corda al terzo tasto, ed un senso del ritardo che infine decide l’intenzione musicale, possono essere delle specifiche dello stile di Dylan alla chitarra acustica, stile che ha ad esempio un estimatore in Keith Richards: “Penso che Bob dovrebbe smetterla di suonare con dei gruppi e fare unicamente quello che sa fare meglio, vale a dire cantare le sue canzoni accompagnandosi con la chitarra acustica. Questa è veramente una cosa che gli riesce alla perfezione. Il suo senso del tempo e la sua espressione sono qualcosa di assolutamente unico. Comunque Bob non è adatto a suonare a tempo, preferisce piuttosto quel senso del ritardo che costituisce poi l’elemento più apprezzabile della sua musica. Ogni volta che lo incontro gli dico: “Ciò di cui abbiamo bisogno da te, Bob, è più ‘blood on the truck’”. Per me quello è stato il suo ultimo buon album, l’ultimo album grandioso. Bob è un tipo molto nervoso, molto sensibile. In un certo modo quando si incontra con gente che lo ama da sempre come Mark Knopfler o Tom Petty, finisce per modificarli fino a trasformarli in tanti piccoli ‘Bob dylanini’, finiscono tutti per cantare come lui. Io amo la ‘solitudine’ del Dylan che suona accompagnandosi alla chitarra; lo considero un chitarrista acustico estremamente sottovalutato”.

Per chi volesse accostarsi alla dimensione acustica di Dylan, ci sono quattro LP che permettono di ascoltarlo con la chitarra praticamente da solo, perché soltanto in alcuni brani è accompagnato da un gruppo. In Bob Dylan (1962) le influenze folk sono evidenti, Fixin’ To Die, Highway 51 e Gospel Plow sono eseguite in accordatura aperta come anche In My Time Of Dyin’, ripresa da una vecchia incisione di Bukka White. In The Freewheelin’ Bob Dylan (1963) troviamo i primi classici come Blowin’ In The Wind, Master Of War, A Hard Rain’s A-Gonna Fall, Don’t Think Twice, lt’s All Right o I Shall Be Free; in Corrina, Corrina e Don’t Think Twice, lt’s All Right troviamo alla chitarra acustica anche Bruce Langhorne, che collaborerà più tardi con Eric Andersen, Joan Baez, Richard and Mimi Farina, Richie Havens e Buffy Sainte Marie; sempre in Corrina, Corrina stranamente c’è quel Howie Collins che aveva prestato la sua chitarra a gente come Benny Goodman, al trombettista Neal Hefty, al George Shearing Quintet e che negli anni sessanta suonerà anche per Barbra Streisand. Come Collins sia stato contattato, se la sua partecipazione sia stata casuale o voluta non si sa con certezza, ma conoscendo le scelte successive di Dylan è probabile che questa partecipazione sia stata del tutto casuale – del resto non si avverte in Corrina, Corrina il ‘peso’ di uno dei chitarristi che all’inizio degli anni ’60 vantava una serie di collaborazioni impressionante per quantità e per qualità.

In quegli anni Dylan incideva gli album in tempi veramente veloci: Bob Dylan era nato in tre session nel novembre del 1962 e già alla sua uscita aveva destato l’interesse della critica e soprattutto di Robert Shelton, che scrivendo di un brano come Highway 51  parlava di “una prima fusione perfettamente riuscita tra folk e rock”, pur essendo il pezzo chiaramente acustico.
Terzo album e forse il più importante musicalmente è senza dubbio The Time They Are A-Changin’ (1964); non ci sono note di copertina, ma in questo caso Dylan ha fatto tutto da solo ed il risultato è grandioso, l’album contiene una collezione di pezzi immortali che vanno dal brano che dá il titolo all’album a Boots Of Spanish Leather o The Lonesome Death Of Hattie Carrol. Una volta di più Dylan dichiarava il suo genio costruendo dei brani che vivevano una loro specifica autonomia anche nel semplice, o apparentemente semplice, incontro di voce e chitarra. Per troppi anni, e tutt’ora, parlando di Dylan si cerca di esaltare la sua sfera poetica di sicura e grande importanza, ma proprio perché si vuole parlare del Dylan chitarrista, vorrei sottolineare che la musica che accompagna i testi del cantautore è sempre semplicemente ‘bella’. Chiaramente si tratta di sottolineare le melodie, melodie che attraverso gli anni nelle versioni live sono state arricchite da arrangiamenti che ne hanno esaltato a volte la costruzione.

Quarto ed ultimo lavoro completamente acustico e suonato in proprio è quel Another Side Of Bob Dylan, che segna il confine tra il Dylan legato alla tradizione folk ed il Dylan che già sta meditando una svolta elettrica. L’album è onestamente difficile, cupo, ma forse malgrado queste caratteristiche e l’assenza di brani ‘classici’, eccetto It Ain’t Me Babe, il lavoro alla chitarra acustica raggiunge una sorta di semplice perfezione, e qui potremmo ribadire le parole di Keith Richards quando dice che Dylan è un chitarrista acustico estremamente sottovalutato. Nel 1965 la CBS pubblica Bringing It All Back Home, l’album dello scandalo, prima ancora del concerto dello scandalo al Festival di Newport. Dylan è cambiato, il rock è entrato prepotentemente nella sua musica; ma è poi vero? Da sempre si parla di un Dylan che va a recuperare Chuck Berry o il rhythm ‘n’ blues, ma in realtà quello che fa Dylan è semplicemente sfruttare le possibilità di un gruppo elettrico ed esprimersi in quello che troppo sbrigativamente è definito musica rock.

Indubbiamente il rock Dylan lo conosceva e bene: “Suonavo rock’n’roll tra i tredici e i quindici anni, ma dovetti abbandonare verso i sedici, perché non potevo continuare per quella strada, l’idolo del giorno era Frank Avalon o Fabian, o l’atletico gruppo superpulito, e se non eri un tipo così, non potevi farti amici”. Ma lui stesso non sapeva esattamente se quello che andava facendo in brani tipo Subterranean Homesick Blues o Outlaw Blues era rock o qualcos’altro, in realtà era la musica che aveva sempre fatto arrangiata e suonata con strumenti elettrici: “Non hanno importanza tutti i nomi che la gente inventa per la musica. Potrebbe essere chiamata ‘musica arsenico’ o forse ‘musica di Fedra’. Non credo che il termine folk-rock abbia qualcosa a che vedere con la musica. Folk music è un termine che io non posso usare. Folk music è un’accozzaglia di gente pazza. Penso che sia più esatto parlare di musica tradizionale”.

Per incidere questo album Dylan aveva chiamato un gruppo di musicisti che come al solito ruotavano in una stessa area musicale: alle chitarre troviamo John Paul Hammond, figlio di John Hammond Sr., che aveva scoperto Dylan e prodotto i suoi primi due album. John Paul Hammond, chitarrista ed armonicista, legherà il suo nome principalmente al progetto Triunvirate, assieme a Mike Bloomfield e Dr. John, e su questo album verrà affiancato da Bruce Langhorne, da Kenny Rankin, la cui carriera come solista sarà un disastro, e da Al Gorgoni, session man che collaborerà con Al Kooper, Melanie, Van Morrison e che aveva un passato di buon livello con partecipazioni a lavori di Randel Bramblett e dei Coasters; naturalmente Dylan dá il suo apporto suonando anche l’elettrica.

Nel 1967 Ellen Willis scriverà su Cheetah a proposito delle cosiddette svolte di Dylan: “Come compositore, come interprete, ma soprattutto come poeta lirico, Dylan ha fatto una vera e propria rivoluzione. Ha esteso l’idioma del folk all’interno di un linguaggio ricco e figurativo; ha rivitalizzato la visione folk rifiutando il sentimentalismo etnico e proletario, ma ha distrutto il folk puro, fondendolo con il pop”.
Dopo lo scandalo di Newport in cui Dylan si presentò con la Paul Butterfield Blues Band, imbracciando un Fender Stratocaster, viene pubblicato Highway 61 Revisited (1965), secondo ed ancor più elettrico capitolo del nuovo corso di Dylan. Lo stesso Dylan fa un grande lavoro all’elettrica aiutato da Mike Bloomfield e Charlie McCoy, armonicista e chitarrista che già aveva collaborato col cantautore. L’incontro tra Bloomfield e Dylan era ancora ricordato dal bluesman una diecina d’anni fa, quando intervistato per Guitar Player diceva: “Suonavo in un club a Chicago, avevo sentito il primo LP di Dylan e pensavo sinceramente che fosse semplicemente merda, e così quella sera glielo dissi e lui mi rispose: “Non sono un chitarrista, sono un poeta”. Così ci sedemmo e parlammo e suonammo per tutto un giorno. Diventammo anche amici. Poi se ne andò e non lo vidi più finché non mi chiamò e mi chiese se avessi voluto suonare su un disco con lui. Io sinceramente non sapevo che fosse così famoso a quel tempo e quando arrivai a Woodstock e vidi la situazione obiettivamente ricca, continuai a non rendermi conto di quello che stava succedendo. Imparai Like A Rolling Stone ed altri pezzi e realizzammo l’album Highway 61 Revisited o come diavolo si chiama, dopodiché suonammo a Newport ed in quella occasione iniziai a suonare la chitarra solista per Paul Butterfield”.

Anche se i dischi di Dylan vendevano moltissimo ed il suo ‘mito’ cresceva ad ogni nuova apparizione live e ad ogni nuova incisione, i musicisti, sia dell’area folk che quelli rock, country e blues, non vedevano di buon occhio il menestrello di Duluth; Elvin Bishop, chitarrista di cui non è mai stata accertata la collaborazione con Dylan, ha detto cose di una certa pesantezza: “Non mi è mai piaciuto Dylan e non mi piace tutt’ora, anche se riesco ad apprezzare quando fa un pezzo con una buona melodia. Secondo me non sa cantare, ma capisco il perché altri lo abbiano scelto come portavoce; lui ha parlato dei problemi del sociale e di tutte quelle cose di cui io personalmente sono solo vagamente insoddisfatto, cose che spesso neanche mi riguardano. Io non ho una soluzione a questi grandi problemi e quindi non posso suggerire soluzioni a riguardo, e devo aggiungere che non ho mai sentito la necessità di avere qualcuno che parlasse per me”.

Dylan da parte sua non mancava di provocare alcuni suoi ‘colleghi’, come gli Stones, dicendo cose del tipo: “…Ok, loro avranno pure scritto Satisfaction, ma non sarebbero stati capaci di scrivere Blowin’ In The Wind“. Malgrado queste piccole scaramucce Dylan era diventato un personaggio internazionale, praticamente amato in tutto il mondo, ed alcune sue canzoni erano state tradotte e incise nelle lingue più impensate. Lontano dall’aver esaurito una vena creativa di impressionante continuità, nel maggio del 1966 Dylan pubblica Blonde On Blonde, l’album che chiude in modo sorprendente un periodo musicale iniziato con Bringing It All Back Home; il sound, come lo stesso Dylan dirà nel 1978 a Ron Rosembaum che lo intervistava per Playboy, aveva raggiunto in quell’album una forma molto vicina a ciò che stava cercando: “Ho quasi raggiunto la musica che immagino nell’album Blonde On Blonde: un suono sottile, mercuriale e selvaggio. Metallico e lucente, con tutto ciò che queste parole possono evocare. Quello è il mio vero suono. Non sono riuscito a raggiungerlo sempre. Sono arrivato ad una buona combinazione di chitarra, armonica ed organo, ma ora mi sento spinto verso le percussioni e… verso i ritmi dell’anima”.

Su Blonde On Blonde avevano suonato vari musicisti, di sicuro è di Bob Dylan l’assolo su Leopard-Skin Pill-Box Hat, mentre tutto il lavoro solista su I Want You è di Wayne Moss, chitarrista che si muoveva in un ambito rhythm & blues e che lavorerà con Al Kooper, con Alex Harvey e più tardi con Leo Kottke (come bassista) e Dennis Linde. Sempre su Blonde On Blonde riappare Charlie McCoy ed anche Jerry Kennedy, altro session man che legherà il suo nome a gente del calibro di Ray Charles, Al Kooper, Scotty Moore, Carl Perkins in My Kind Of Country, del 1974, Kris Kristofferson e Ringo Starr. Le note di copertina degli album di Dylan non sono mai state ricche di notizie riguardo ai musicisti che lo hanno accompagnato, su Blonde On Blonde comunque il basso era suonato da Henry Strzelecki, sicuramente c’è lo zampino di Al Kooper e di Joe South (che già aveva prestato la sua chitarra a Fats Domino, Roy Orbison, Aretha Franklin e Simon and Garfunkel), lo stesso Joe South che nel 1969 scriverà un hit come Games People Play.

Il sapore stesso del sound di un disco di Dylan può quasi essere catturato seguendo le indicazioni sui nomi che lo accompagnano. L’album che ebbe il difficile compito di scalzare Blonde On Blonde dalla memoria degli amanti di Dylan arrivò soltanto nel 1968 – nei due anni che lo separano da John Wesley Harding c’era infatti stato il famoso incidente di moto. Il nuovo LP nelle note di copertina parla già chiaramente: Bob Dylan voce, chitarra, armonica e piano, Charlie McCoy al basso, Kenny Buttrey alla batteria e Pete Drake alla steel guitar in I’ll Be Your Baby Tonight e Down Along The Cove.
“La steel guitar” – dirà Pete Drake – “non era accettata nella pop music, finché non suonai con gente del calibro di Elvis Presley e Joan Baez, ma i ‘ragazzi’ non l’accettarono comunque, finché non suonai con Bob Dylan; a quel punto suppongo si siano convinti che la steel guitar andava bene. Suonai in John Wesley Harding, Nashville Skyline e Self-Portrait. Bob Dylan mi aiutò molto: voglio dire che il fatto di ospitarmi nei suoi dischi favorì l’apertura nei confronti della steel guitar e da quel momento tutti vollero cominciare ad usarle”.
Dylan era cambiato profondamente e la musica lo testimoniava senza nessuna possibilità di dubbio; disco forse trascurato dai fans, John Wesley Harding conteneva una serie impressionante di ottimi brani, tra cui quel All Along The Watchtower che verrà ripreso da Jimi Hendrix in una versione notevole che però non si allontanava dall’originale, come molta critica sottolineerà. In realtà la chitarra di Dylan già aveva costruito quell’accompagnamento che Heridrix riprenderà arricchendolo naturalmente con quel suo chitarrismo dalle caratteristiche a volte geniali. Cosa rappresentava John Wesley Harding fu chiaramente scritto da Paul Nelson su Rolling Stone nel 1969 con parole che denunciavano una forma di rara intuizione: “In Harding Dylan sovrappose una visione di grande complessità intellettuale al caldo misticismo della musica della Southern Mountain, quasi come certi registi francesi, che hanno preso film americani di gangsters e gli hanno aggiunto strati della filosofia del XX secolo. È come se Jean Paul Sartre si mettesse a suonare un banjo. L’elemento folk ne guadagna una chimericità kafkiana, e la filosofia una semplicità lapidaria che la rende quasi invisibile e perciò facilmente assimilabile”.

Per il successivo Nashville Skyline (1969), il gruppo di musicisti cui Dylan si affidò rimase quello di John Wesley Harding, con l’aggiunta di Norman Blake e Charlie Daniels al basso per l’occasione; album discusso fino alla noia, questo Nashville Skyline, non era, come molti hanno voluto sottolineare con insistenza, una semplice collezione di buone canzoni, ma qualcosa di più, probabilmente con questo album Dylan aveva raggiunto il punto di massimo equilibrio nel suo tentativo di offrire un’immagine ad un epoca, attraverso scelte musicali solo apparentemente lontane tra loro. Nashville Skyline è stato troppo spesso considerato come un album country, in realtà era lo specchio di qualcos’altro, ma soprattutto dimostrava una vitalità creativa che probabilmente era giunta ad una sorta di apice insuperabile. E non è certo un caso che dopo questo LP Dylan per molti anni rimarrà come intrappolato in una dimensione musicale caotica, indefinita: sarà il periodo di album come Self Portraìt (1970), dove accanto a composizioni dello stesso Dylan e ad alcune versioni live il cantautore si ‘divertiva’ ad interpretare brani di altri autori. Dylan definì l’album come un ‘bootleg personale’, ma al di là di ogni considerazione, l’enorme sforzo produttivo non convinse e non convince tutt’ora.

All’interno della copertina soltanto un lungo elenco di musicisti e visto che le session furono fatte a New York e Nashville, è difficile collegare i vari brani ai musicisti che vi suonano; alle chitarre troviamo: Norman Blake, David Bromberg, Fred Carter (lo ritroveremo con Waylon Jennings, Kriss Kristofferson, Simon & Garfunkel, Levon Helm, Joan Baez, con la Paul Butterfield Blues Band, ma anche con Muddy Waters e Ronnie Hawkins), Charlie Cornelius (Al Kooper, Earl Scruggs, Graham Bell, Tracy Nelson), Charlie Daniels, Pete Drake, Robbie Robertson e probabilmente altri meno noti e conosciuti che fanno, appunto, parte di un semplice elenco di cinquanta nomi.

Dopo l’insuccesso di questo LP (Greil Marcus su Rolling Stone si limiterà a scrivere: “Cos’è ‘sta merda?”) Dylan torna in studio per incidere New Morning, con lui sono alle chitarre elettriche David Branberg (accreditato anche per le parti di dobro), Ron Cornelius, Al Kooper (in quanto polistrumentista Kooper nei dischi in cui ha collaborato con Dylan ha sempre suonato anche la chitarra) e Buzz Feiten, destinato ad essere uno dei session man più richiesti negli anni settanta e ottanta. Feiten collaborerà con Gregg Allman, Rickie Lee Jones (Rickie Lee Jones, Pirates), George Benson, Gary Wright, Kenny Loggins, Love, Randy Newman (Born Again), Stevie Wonder (Talkin’ Book, Songs In The Key Of Life), Felix Cavaliere, Paul Butterfield Blues Band ed un altro infinito numero di importanti musicisti. Nel 1982 Buzz Feiten tenterà anche la carta solista con un Ful! Moon – Featuring Neil Larsen & Buzz Feiten che non avrà nessun riscontro. Charlie Daniels su New Morning (1970) suonerà il basso, ma l’esperienza ‘positiva’ della collaborazione con Dylan su Nashville Skyline non si ripeterà: “Bob – dirà Daniels -voleva farmi suonare il basso su New Morning, e siccome non riuscivo a trovarmici in quel pezzo, cambiai il basso con la chitarra di David Bromberg. Questo cambio purtroppo non risultò essere quello che stavamo cercando. Avevo accontentato Dylan per quello che aveva voluto prima e l’avevo accontentato suonando il basso, ma questa volta non lo stavo soddisfacendo alla chitarra”. Da queste parole si capisce chiaramente che malgrado una certa facilità e forse casualità nello scegliere i collaboratori, Dylan mantiene sempre un controllo totale sui musicisti.

L’inizio degli anni ’70 non fu un grande periodo per Dylan, New Morning lo riportava sicuramente a livelli accettabili, ma niente di più. Lunghi periodi di inattività, interrotti soltanto dalla pubblicazione di un Bob Dylan ‘s Greatest Hits Volume II con sei brani inediti e dalla partecipazione al concerto per il Bangladesh voluto da George Harrison, portano Dylan direttamente al 1973 con una stupenda colonna sonora per il film Pat Garrett & Billy The Kid in cui avrà anche una parte non certo secondaria. Anche se ottima, la colonna sonora del film aveva ed ha un carattere preciso di commento, aiutato comunque da un grande numero di ottimi chitarristi come Bruce Langhorne, Roger McGuinn (ex Byrds) Terry Paul (Kris Kristofferson), Carol Hunter (Free Creek e Richie Havens) Dylan costruì una musica perfetta per le immagini volute da Sam Peckinpah ed un brano ormai classico come Knockin’ On Heaven’s Door. Come sua abitudine, Dylan suonò in tutti i pezzi dell’album con quello stile d’accompagnamento che, al di là di ogni giudizio tecnico, sicuramente segna indelebilmente ogni sua incisione.

Se si eccettua la colonna sonora e un’antologia di inediti, perlomeno scarsi, alla cui pubblicazione Dylan si oppose e che la CBS comunque distribuì con il semplice titolo Dylan, dal 1970 al 1974, e quindi per quattro anni, Dylan non pubblicò l’album atteso per così tanto tempo: il nuovo LP comunque deluse: Planet Waves (1974) non aveva la forza di John Wesley Harding o delle incisioni precedenti, né la precisa intuizione musicale di Nashvile Skyline. Se si eccettuano i Basement Tapes, questo è stato l’unico album in studio registrato con The Band. La collaborazione con Robbie Robertson risaliva ai tempi di Blonde On Blonde, subito dopo c’era stato l’incidente ed il momentaneo ritiro, e quindi i Basement Tapes con la Band al completo, ma non bisogna dimenticare che per gli altri album Dylan si era sempre avvalso di musicisti da studio.

Sicuramente Planet Waves, come il successivo doppio live Before The Flood (1974), sono gli album che più servono ad avvicinarsi al Dylan chitarrista perché nell’interscambio musicale con Robbie Robertson è abbastanza facile riconoscere lo stile di Dylan: “Alla chitarra Robbertson è un perfezionista della tecnica – ha scritto Shelton nella sua biografia di Dylan – mentre Dylan rimane essenzialmente un espressionista che usa la tecnica come mezzo e non come fine”. Quello che comunque si può evincere da Planet Waves e dall’energia del successivo live è una ritrovata creatività che esploderà in quello che a tutt’oggi è il capolavoro assoluto di Dylan: Blood On The Tracks (1975). Anche se l’album è perfetto in ogni dettaglio, manca ancora una volta la possibilità di decifrare la formazione che ha suonato con Dylan. Ad aggravare la solita confusione e scarsità di notizie c’è il fatto che Dylan pochi giorni prima di consegnare il master alla CBS (a cui era tornato dopo la deludente esperienza Asylum) incise, o meglio reincise, parte dei brani.

Le session iniziali furono fatte a New York, attorno a Dylan c’era il multistrumentista Eric Weissberg (banjo, chitarra, steel guitar, dobro) che aveva suonato per Jim Croce, Richie Havens e Billy Joel; c’era anche il notissimo Buddy Cage, uno dei più validi esperti di steel guitar nonché polistrumentista. Cage aveva sostituito Jerry Garcia nei New Riders Of The Purple Sage e aveva già collaborato con Ian & Silvia, David Bromberg e Tommy Graham, ma ad illustrare meglio il rapporto di Dylan con la sua musica ecco ancora le parole di Shelton: “Alla vigilia dell’uscita dell’album, Dylan fece una corsa a Minneapolis e, il venerdì 27 dicembre e il lunedì 30 dicembre, mise insieme qualche musicista, recuperato da suo fratello David: Bill Peterson al basso, Ken Odegard alla chitarra, Bill Berg alla batteria, Greg Inhoffer alla tastiera e Chris Weber alla chitarra dodici corde. Insieme incisero tutte le canzoni tranne tre. Quattro incisioni sembrano deviare dalle registrazioni effettuate a New York, sei da quelle di Minneapolis”.

Oltre ad essere il capolavoro di Dylan, e Blood On The Tracks è un album ricchissimo di intrecci di chitarra veramente notevoli e come sempre il demiurgo assoluto era lui, Bob Dylan. Come l’ispirazione abbia di nuovo abbagliato il menestrello di Duluth, lo dimostra verso la fine del 1975 lo show itinerante soprannominato Rolling Thunder Revue; con Dylan sono di nuovo vecchi amici in un carrozzone che gira gli States senza una formazione fissa: oltre a Joan Baez e Joni Mitchell troviamo alla chitarre Mick Ronson, glorioso strumentista con gli Spiders From Mars di David Bowie e successivamente con i Mot The Hoople dalle cui ceneri, agli inizi del 1975, nacque la Hunter-Ronson Band. Con Dylan l’astro di Ronson sembrò rinascere, ma per poco, perché ormai il chitarrista aveva scelto di occuparsi di produzioni e del lavoro di sala. La novità più importante di questa Rolling Thunder Revue rimane comunque la partecipazione di T Bone Burnette, Steven Soles e David Mansfield, tutti e tre chitarristi e tutti e tre destinati a confluire nella Alpha Band, un gruppo che lavorerà sulla musica tradizionale americana senza incontrare troppa fortuna.

è un periodo molto positivo per Dylan, l’avventura della Rolling Thunder Revue finisce con un fortunatissimo concerto newyorkese e dopo pochi mesi esce Desire (1975), album che dividerà la critica ma non il pubblico, che decreterà a questo LP un enorme successo. Le note di copertina parlano chiaro: tutte le chitarre sono di Dylan, ascoltandolo in Hurricane, Mozambique o in One More Cup Of Coffee si potrà una volta ancora capire perché Keith Richards parla di Dylan come di un chitarrista acustico sottovalutato. Ritmicamente il Dylan chitarrista ha una espressione personalissima, ma soprattutto coinvolgente: Steven Soles fa parte del gruppo che accompagna Dylan, ma soltanto per alcune parti vocali. Ritroveremo questo ottimo chitarrista ritmico con Dylan, ad esempio nell’ottimo Street Legal, ma ancora prima Dylan pubblicherà un live, Hard Rain (1976), dove le chitarre saranno quelle delle Thunder Revue; difficile come sempre isolare i singoli interventi, comunque è da sottolineare che David Mansfield è uno di quei musicisti adatti a vari ruoli ed infatti lo troviamo sia con Dylan che con altri musicisti e all’interno della stessa Alpha Band alle prese con la chitarra acustica, il dobro, la steel guitar, il mandolino ed altri strumenti a corde.

Stevens Soles oltre a far parte della Alpha Band collaborerà con Kinky Friedman come chitarrista, ma più spesso sarà sfruttato per parti vocali da T Bone Burnette, Gene Clarke e Don McLeen. T Bone Burnette tra i tre è quello che avrà maggiore fortuna sia come autore che come produttore.
Malgrado il periodo sia uno dei più prolifici per Dylan, il divorzio dalla moglie Sara verrà vissuto in modo devastante e Street Legal (1978) sembra esprimere appieno lo stato d’animo del cantautore; il sapore dell’album è rock con venature rhythm & blues e soul e quindi non sorprende l’apparizione di un nuovo chitarrista, quel Bill Cross che oltre ad essere il leader della Delta Cross Band aveva suonato per Robert Gordon, per gli Iron City Houserockers ed anche per Link Wray. A Bill Cross è attribuito il ruolo di solista, mentre alla ritmica troviamo Steven Soles e lo stesso Dylan. Dal tour che segue la pubblicazione di Street Legal la CBS costringe Dylan a pubblicare per il solo mercato nipponico un Live At Budokan (1979) in cui al gruppo che aveva seguito le session per Street Legal si aggiunge David Mansfield al dobro, alla steel guitar e all’acustica, ad ulteriore conferma del particolare ruolo che poteva occupare e che occuperà con musicisti come John Cougar Mellencamp, Roger McGuinn, T Bone Burnette, Kinky Friedman, Eric Andersen, Chip Taylor e Tommy West.

“L’album al Budokan era stato pensato solo per il Giappone” – dirà Dylan – “Mi hanno costretto a fare un album dal vivo per il Giappone. Suonavo con lo stesso gruppo che avevo usato per Street Legal ed eravamo appena entrati in sintonia quando loro hanno registrato l’album. Non l’ho mai considerato in nessun modo rappresentativo né del mio genere o del mio gruppo né del mio spettacolo dal vivo”.
Nella stessa intervista, rilasciata a Rolling Stone nel 1984 Dylan parlerà del gruppo di Street Legal dicendo che è stato il suo miglior gruppo e che probabilmente non sarebbe più riuscito a mettere su una band come quella. Con fare profetico parlando con Jonathan Cott di Rolling Stone, Dylan diceva già nel 1978: “Vedo gli anni ’70 come un periodo di ricostruzione dopo gli anni ’60, ecco tutto. Questo perché si dice – “Beh, che barba! Non succede niente…” Questo perchè le ferite si stanno chiudendo. Entro gli anni ’80 chiunque avrà fatto una qualunque cosa avrà già messo le carte in tavola. Negli anni ’80… non si potrà rientrare nel gioco”.

Per lui gli anni ’80 si apriranno con uno Slow Train Coming pubblicato verso la fine del 1979: indubbiamente è l’album di una ulteriore ‘svolta’, stavolta è Mark Knopfler a produrre e suonare per Dylan, ma come accennato all’inizio di questa lunghissima carrellata tra i chitarristi di Dylan, anche se questo LP ha un sapore Dire Straits, ci si accorge attraverso vari ascolti che una volta di più è stato Dylan a piegare gli altri musicisti alle sue necessità ed intuizioni.
Questo LP è un’altra ghiotta occasione per affrontare il Dylan chitarrista perché tutte le chitarre sono sue e di Knopfler che, ricordando questa esperienza, dirà: “Bob è un genio assoluto, ma musicalmente credo che sia estremamente basilare, la musica tende ad essere il veicolo per la sua poesia”.

Dylan è sempre stato uno dei grandi musicisti rock più prolifici, forse la qualità di alcune sue incisioni potrà essere considerata debole, ma sempre la sua voce, le sue melodie, e perché no, la sua chitarra, hanno dato vita ad una musica delle emozioni. Negli anni ’80 Dylan ha inciso nove album di cui due dal vivo, ha pubblicato una essenziale antologia di brani inediti o di alternate track, come Biograph (1985); attorno a lui si sono mossi moltissimi chitarristi e c’è da dire che gli anni ’80 segnano il momento in cui Dylan con più frequenza si affida a nomi di un certo rilievo.
Gli anni ’80 si aprono ufficialmente con quello che dovrebbe essere il secondo capitolo di una trilogia che potremo definire ‘cristiana’. Saved (1980) vede accanto a Dylan il solo Fred Tackett, altro ‘turnista’ storico americano che ha un lunghissimo carnet di partecipazioni: Greg Allman, Long John Baldrey, Jackson Browne, Eric Carmen, Lowell George, Rickie Lee Jones, Little Feat (lo troviamo in Little Feat, Dixie Chicken, Time Loves A Hero, Down On The Farm, Hoy Hoy), Kenny Loggins, Carly Simon, Rod Stewart (in Atlantic Crossing, A Night On The Town, Blondes Have More Fun) e tanti altri personaggi minori.

Segue nell’81 Shot Of Love, uno scivolone che chiude la trilogia: accanto a Dylan ancora Fred Tackett in compagnia di un certo Steve Ripley che ho ritrovato solo in 8 di J.J. Cale e di Denny Kortchamar, chitarrista di James Taylor e collaboratore di Carol King, Linda Ronstandt, Crosby & Nash, Ringo Starr, Keith Moon, Jackson Browne, Bill Wyman, Warren Zevon. Sul pezzo Heart Of Mine infine troviamo Ron Wood che non ha certo bisogno di presentazioni.
Nel 1983 esce Infidels, ed ecco un Dylan alle prese con due chitarristi del calibro di Mark Knopfler e Mick Taylor: il risultato musicalmente è ottimo grazie anche all’affiatatissima coppia Sly Dunbar e Robbie Shakespeare. La collaborazione con Taylor continuerà sul live Real Live (1984) dove, a detta di Dylan, un brano come Tangled Up In Blue raggiunge finalmente la sua forma definitiva dopo undici anni dall’originale versione apparsa su Blood On The Tracks.
Con Empire Burlesque (1985), forse il migliore album di Dylan negli anni ’80, inizia una breve ma intensa collaborazione con Tom Petty ed il suo chitarrista Mike Campbell. Fino ad ora si è parlato del Dylan ferreo controllore e demiurgo dello studio, ma grazie ad alcune dichiarazioni di Campbell si può capire ancora meglio il rapporto tra Dylan e i suoi musicisti. “Bob non è molto preciso su ciò che vuole, comunque proprio a livello del tratto somatico tu riesci a capire se quello che sta venendo fuori lo soddisfa o meno. La maggior parte delle volte Bob inizia semplicemente a suonare e gli altri lo seguono; raramente suona un pezzo nella stessa maniera in cui l’ha già suonato e così non ha senso provare molto a lungo, perché sicuramente lui cambierà qualcosa. Devi semplicemente suonare, comunque vada”.

Dimensione difficile quella vissuta dai musicisti che accompagnano in concerto Dylan, certo, un conto sono le dichiarazioni ‘ufficiali’, ma si sa (e non solo per sentito dire) che Dylan non vuole avere un rapporto troppo stretto con i suoi musicisti, che spesso sul palco improvvisa la scaletta dei brani, che non è molto rigoroso, e questo sempre secondo Campbell ha un suo fascino: “Suonare con Bob è la cosa migliore che sia mai capitata al nostro gruppo. In un certo senso Bob molte volte è assai vago riguardo a quello che vuole da te, ma il solo fatto di stargli accanto ti fa assorbire un incredibile feeling e quindi ti ispira. Una delle cose migliori che abbiamo imparato suonando con Bob è stata quella di risolvere le situazioni al volo. Molte volte quando suoni con lui non sai neanche in che maniera abbia intenzione di fare quel dato pezzo. Potresti avere un pezzo che so… con diciotto accordi ed impararlo in MI, e poi magari una volta sul palco Bob potrebbe dirti: “Ok, facciamolo in SI… pronti, via”. La cosa più bella di tutto questo è il fatto che devi affidarti all’istinto; anche se puoi trovarti fuori tempo o avere difficoltà nel ricordarti gli accordi visto che all’improvviso hai cambiato tonalità; dopo un pó ti abitui a questa condizione ed entri nell’ordine di idee che ti porta a pensare che tutto funzionerà”.

Anche recentemente Dylan, scherzando sul suo chitarrismo. ha detto che tutti i suoi assoli sono double-string e che comunque la chitarra solista non è proprio la sua… cosa. Per quanto riguarda invece la costruzione ritmico-armonica ecco ancora Mike Campbell: “Lavorare con Dylan non ha cambiato il mio approccio tecnico alla chitarra, ma da un punto di vista stilistico è stato estremamente stimolante. Con Bob ho imparato molto soltanto guardandolo suonare: lui è una fonte quasi inesauribile di sorprese, conosce posizioni che non avrei mai immaginato ed ha un modo davvero interessante di affrontare ritmicamente un pezzo”.
In Empire Burlesque, accanto a Mike Campbell c’erano Mick Taylor, Ted Perlman, Ron Wood, Sid McGinnis (Peter Gabriel, Dire Straits, Carly Simon, Melissa Manchester, Steve Forbert, Stephen Bishop), Al Kooper (chitarra ritmica), Stuart Kimball e Ira Ingber.
Nell’86 Dylan pubblica un debole Knocked Out Loaded con gli amici chitarristi degli ultimi tempi: T Bone Burnette, Jack Sherman, Ron Wood, Al Perkins (steel guitar), Mike Campbell, Ira Ingber, Tom Petty, Dave Stewart degli Eurythmics.

La storia di Dylan attraverso i suoi chitarristi sta finendo, nel 1988 esce un album di cui potevamo fare a meno, quel Down In The Groove che ripescava probabilmente dalle ultime session di Dylan ed infatti troviamo Danny Kortchmar, Mark Knopfler, Steve Jones, Eric Clapton e Ron Wood al basso. Dopo un Dylan & Dead (1989) che ripropone alcune ‘tracce’ di un breve tour fatto con i Grateful Dead, nell’89 esce Oh Mercy un grande ritorno che forse per diventare un classico avrà bisogno di essere riascoltato nel tempo; prodotto da Daniel Lanois, l’album ospita chitarristi poco conosciuti o addirittura sconosciuti: Mason Ruffner, Brian Stoltz e Paul Synegal oltre naturalmente a Daniel Lanois che suona anche il dobro.

Giuseppe Barbieri, fonte Chitarre n. 49, 1990

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