Bob Dylan

Lo so che dopo mi odierete ma devo dirlo, la storia ha bisogno di verità non di leggende: Dylan Zimmerman Robert (Bob Dylan) è definitivamente antipatico, assolutamente scortese, irreversibilmente puzzolente.
Prima di citarmi in giudizio state almeno a sentire perché.
Aperta parentesi: ho sempre odiato quelli che esprimendo un giudizio su qualcosa o qualcuno continuano a ripetere “per me”, “secondo me”, “questa è la mia opinione”: è lapalissiano che se stai parlando tu, se il tuo cervello è dentro la tua testa, quando ti esprimi si spera che ciò che dici faccia parte di un tuo pensiero, di chi se no? Chiusa parentesi. Nel caso specifico, purtroppo, anch’io sono costretto ad odiare me stesso e ricorrere al classico “per me”, al tragico “secondo me”, al demenziale “questa è la mia opinione” e, oltretutto ad aggiungere una ulteriore penosa giustificazione: “lo dico per esperienza”.

Cronaca: 1984, Bob Dylan allo Stadio di S. Siro, grande concerto, grandi emozioni, brividi per tutti. Zard, nel senso di Davide, promette di portarmi il “maestro” in casa. Non ci crede nessuno, ma quando, verso l’una di notte, scorgo dietro la porta a vetri dell’ingresso la sua sagoma inconfondibile, la vista mi si annebbia, sbando di lato, giro la maniglia con mano improvvisamente sudata.

Alla classica frase di convenienza tipo “sono felice di averti qui” lui risponde con un grugnito sordo. Entra, si piazza seduto davanti ai dischi della mia modesta collezione, mi chiede di tirargli fuori gli Everly Brothers e fa segno, con l’unghia lunga listata a lutto dell’indice, di procedere all’ascolto tramite il mio vecchio Thorens. Obbedisco. Da quel momento non muove le chiappe neanche per un istante, non rivolge verbo ad alcuno, su varie sollecitazioni di normale amministrazione come “vuoi un piatto di spaghetti o una pizza?”, “vieni di là che c’è un juke-box con vecchi 45 giri!”, “bevi qualcosa?” non reagisce se non con uno sguardo bicolore noia-disprezzo.

Alla fine, ma proprio alla fine accetta un caffè. Solo con gli occhi, di tanto in tanto, fa un giro del soggiorno: scruta i titoli dei libri, si sofferma sui pochi quadri, sfiora gli sguardi ammirati o in estasi dei presenti (manco fossimo a Lourdes con la Madonna apparsa in tutto il suo splendore), ritorna sulle strette coste colorate degli LP.

Non gli si può stare vicino, puzza come se non avesse fatto una doccia da quando ha deciso di passare alla chitarra elettrica e sono trascorsi un bel po’ di anni. Non sorride mai, non fiata, non si capisce se si rompe le balle, se si sta rilassando, se odia o sopporta la situazione, insomma: un disastro. L’odore del mito resta impregnato nell’imbottitura della sedia per almeno un paio di giorni, poi dato che non va via decidiamo di porre rimedio interpellando il tappezziere, al quale, comunque, chiediamo di aggiungere sulla spalliera una piccola targhetta con su scritto: “Qui si è seduto Bob Dylan”.

Passano alcuni anni. Bob Dylan torna a Milano, dal vivo all’Arena. Zard mi propone un dopo concerto. Organizzai al momento una cena in una casa ricca di un ricco editore milanese. Verso la solita una di notte lui arriva. E’ vestito come l’altra volta e non si è mai neppure lavato dall’altra volta. Al suo passaggio gli invitati si aprono come le acque del Mar Rosso, si piazza direttamente a tavola, a capo tavola, fa un cenno per far capire che lui ha fame quindi che si dia inizio alle portate.

Stavolta tutto si svolge in maniera molto più irritante: non apre bocca se non per infilarsi porzioni esagerate di cibo, grugnisce saltuariamente qualcosa che solo il suo manager interpreta, se qualcuno gli rivolge la parola, continuando a masticare lo fissa come se gli avesse chiesto un prestito, arrivati alla frutta mi scappa di chiedergli se desidera qualcosa e mi risponde secco: “un taxi”!

Per me è fin troppo, mi trattengo dal mandarlo a cagare, anche perché come potrebbe mai un povero fan come me mandare a cagare un genio come lui? Eppure sfioro l’incidente diplomatico. La padrona di casa se ne accorge e con estrema gentilezza, prima che ‘Mr. Tambourine Man’ si allontani definitivamente dalla nostra vista e dal nostro oltraggiato olfatto, gli fa persino omaggio di una splendida stampa antica, che viene immediatamente agguantata senza cenno di ringraziamento alcuno.
Solo qualche settimana fa mi è capitato di leggere: “non voglio mai incontrare chi mi adora, loro sanno tutto di me e io non so niente di loro. Loro sono cresciuti con me. lo sono un estraneo”.
Bastava saperlo prima

Alberto Tonti, fonte Hi, Folks! n. 56, 1992

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