Gerry: «Noi abbiamo incontrato Rory Gallagher in diversi momenti della nostra vita. Io ci ho suonato insieme dal ’71 al ’91, così ho imparato a suonare, ho imparato il mio stile. E per me suonare con Rory per vent’anni è stata una grande esperienza, e Rory Gallagher è un caro amico che ho perso. Penso che agli occhi dei giovani inglesi Rory venga poco considerato, per cui ci sono i soliti chitarristi famosi: Jeff Beck, Jimmy Page, Jimi Hendrix, e Rory era un fenomeno, ed è un po’ sotto stimato. Era un grande musicista, un grande amico, e qualcuno con cui è stato un grande piacere condividere tutti questi anni.»
Dennis: «Io penso che ci siano diversi punti di vista. Ma ci sono Jeff Beck, Jimmy Page, Eric Clapton, Jimi Hendrix…Rory Gallagher ora è probabilmente in questa Top Five. Sono cinque chitarristi, è una Top Five, e lui deve essere considerato tra i migliori cinque chitarristi. E poi lui era particolarmente originale, aveva un finger-style particolare, c’era il suo modo di suonare gli armonici, le sue origini celtiche. Così, ancora con Jeff Beck, Jimmy Page, Eric Clapton, Jimi Hendrix, Rory Gallagher possedeva quell’originalità – senza dubbio, senza alcun dubbio! – dalla quale sono partiti tutti quelli che l’hanno ascoltato. E’ là in alto coi grandi; e questa è la mia testimonianza.»
(Gerry Mc Avoy & Dennis Greaves, Nine Below Zero, Trescore In British Blues 2004)
C’è una via panoramica in Irlanda, che da West Cork arriva fin su nell’Irlanda del Nord: è la Wild Atlantic Way, che percorre la costa atlantica e offre incantevoli scorci dalla verde isoletta, sulle sponde oceaniche che guardano all’America. Chissà quante volte anche Rory Gallagher, fratello blues e figlio d’Irlanda, ha guardato da quegli scogli in quella direzione. Vero è che il chitarrista irlandese, nato nel 1948 su a Ballyshannon, nel Donegal, con quello sguardo oltremare comune al nostro Vecchio Mondo nel dopoguerra e già a Cork con la famiglia da bambino, ha tracciato una sua personale via musicale al blues nord atlantico europeo, affatto annoverabile nel canone ‘brit’ se non solo superficialmente, perché dalle inconfondibili radici ‘irish’: un occhio di riguardo alla sua terra tra lotte e speranza, e uno all’altra sponda oceanica settentrionale, quella americana, dove un linguaggio musicale ancor più ancestrale ha condensato assimilabili istanze di riscatto sociale, per altre genti e in un altro contesto.
Wild Atlantic Way…of Blues
Amore a prima vista, quello del giovane Rory per la musica al di là dell’oceano, la cui compagine afro era già stata mutuata nel rhythm & blues o nel rock’n’roll degli anni Cinquanta, con cui molti giovani anglosassoni vennero in contatto all’epoca, inizialmente attraverso le trasmissioni radio retaggio della Guerra Mondiale, poi con lo skiffle di pionieri come Lonnie Donegan o Alexis Corner, prima ancora di perorare definitivamente la causa di Muddy Waters o Big Bill Broonzy, come di Leadbelly o Woody Guthrie, attraverso Chuck Berry o Eddie Cochran, in riletture uniche nel suo genere. La sua però, sarà una passionalità che andrà ben oltre i canoni folkloristici della sua nazionalità, tra giocosità o amore per le birre scure, ballate celtiche e protesta, compenetrandosi di alcuni stilemi dall’idioma afroamericano in ciò che per anni ha contraddistinto le sue canzoni, tra parentesi di più duro e puro power rock agli albori coi Taste, fino al triste epilogo della sua vicenda musicale. In un certo qual modo, un feeling particolare, che resterà immutato e immanente a una buona fetta della sua parabola artistica, a sé stante da quell’ondata riduttivamente classificabile come British Invasion e per un’identità tutta sua, nonché per l’orgoglio di essere effettivamente distinguibile come l’altra faccia del blues nord atlantico europeo: quella più indomita ed originale, una ‘Wild Atlantic Way…of Blues’!
Quattrocento birre e una chitarra ‘bruciata dal sole’
Iniziò tutto con una chitarra, quella Strato del ’61 rabberciata e quanto mai fedele, pagata tutti i risparmi nel 1963 e inseparabile compagna per decenni di palchi e battaglie. Quasi un totem, per il ragazzo di Cork innamorato del blues, che l’acquistò a quindici anni in un negozio il cui proprietario voleva liberarsene perché il colore (quel sunburnst red che l’usura cancellerà col tempo) non piaceva a nessuno. Rory, con le garanzie della madre, la comprerà a prezzo ribassato (100 sterline) cifra comunque importante dato che una pinta di birra (popolare unità di misura irlandese paragonabile al caffè espresso per gli italiani) ai tempi costava 25 centesimi. I difetti della verniciatura alla nitrocellulosa agiranno egregiamente sullo strumento, che invecchierà come il buon whiskey torbato diventando un’icona di stile, emblematica dell’uomo Gallagher come dell’artista. Un dualismo inscindibile, per la sua personalità tutta d’un pezzo, impermeabile a mode, perfezionismi, estetismi da palcoscenico o fasti d’epoca d’oro del rock tutta fiori e colori, pur definendo lui stesso un look al contempo semplice ed inconfondibile, blues’n’roll fino al midollo. Sarà l’uomo dei jeans e delle camice a quadri, simbolo grunge ante litteram tanto quanto un paio di malconce Converse All Star, inevitabilmente antesignane a quelle del più celebre Springsteen ai tempi di Asbury Park. Ma mentre le periferie del Jersey vedranno altri sviluppi, le strade di Gallagher saranno invece quelle di una Irlanda proletaria, divisa da un conflitto insanabile tra cattolici e protestanti (che gli U2 non mancheranno di denunciare) del quale Rory preferirà non parlarne troppo, più incline alla musica che alla politica. I fatti parleranno per lui, quando già coi Taste non mancherà di annoverare anche Belfast tra le tappe dei concerti, sì come ai tempi del più famoso Irish Tour ’74.
Fontana, Impact, Taste…e dintorni
Proprio agli Emerald Studio di Belfast nel ’66, in trio coi compagni Eric Kitteringham al basso e Norman Damery alla batteria, Rory registra quel Taste First uscito solo in scia al successo di Irish Tour: un primo assaggio del sound che nella città dei Them di Van Morrison non è affatto a disagio. Ma agli inizi della band l’esperienza on the road del giovane Gallagher è già iniziata qualche anno prima con la Fontana Showband, un ensemble orchestrale che è l’unico modo (agli albori di un fermento musicale non ancora maturo) per lavorare come musicista in giro per il paese. Il Marquee Club di Londra, dove ribolliva la scena blues inglese con Korner e Donegan, è una delle tappe della showband, che Gallagher non tarderà a ripercorrere una volta abbandonate le vicissitudini delle prime esperienze. L’anelito di libertà assaporato all’esecuzione di un repertorio di rhythm & blues, ritrovato poi anche con la parentesi degli Impact tra Amburgo e Regno Unito, non è però abbastanza per quel rodaggio che si riproporrà efficace solamente coi Taste. Solo con loro, nella capitale musicale tedesca nel ’67 (ad Amburgo c’erano stati anche i giovani Quarrymen/Beatles) si consolida la più salda convinzione delle potenzialità del trio. E se ai tempi c’erano i Cream di Eric Clapton o gli Experience di Hendrix che non temevano confronti, l’approccio sul campo di prova dei Taste con estenuanti jam tra rock-blues e psichedelia, pur lasciandoli all’ombra dei giganti, rivela uno stile ruvido, grezzo, acerbo, ma con geniali intuizioni. Con una line up rinnovatasi nel frattempo, anche il sopra citato ritorno al Marquee sarà pubblicato in seguito col materiale degli inizi nel disco dal titolo In The Beginning. Con John Wilson e Richard Mc Cracken (subentrati nel frattempo a Kitteringham e Damery) lo show del live In Concert vanterà tra gli spettatori anche John Lennon, che azzarderà: «… i Taste di Rory Gallagher sono l’unico gruppo in circolazione che valga la pena di andare a sentire».
The best Taste in town
La fama di Rory circola tra i nomi leggendari e quell’incisione datata 25 ottobre 1968 diviene il punto di partenza per una produzione ufficiale. Con questo, giunge la proposta per il set d’apertura al Farewell Concert dei Cream alla Royal Albert Hall (su invito dello stesso Clapton), quindi la tournée di supporto ai Blind Faith in Canada e Stati Uniti e l’uscita dell’omonimo album Taste del ’69 su etichetta Polydor. Tra i solchi del nuovo lavoro, l’incredibile Blister On The Moon (dalla struttura scura e insolita come un pezzo proto punk) e classici come Sugar Mama o Catfish in tiratissime versioni di blues distorto, duro come le registrazioni dal vivo di qualche tempo prima. A ribadire il carattere del combo ci sarà poi anche il concerto al Montreux Casinò (Live Taste) e al contempo, l’uscita del gioiellino Polydor On The Boards. Ma la definitiva consacrazione arriverà col gruppo in cartellone per il festival dell’Isola di Wight, testimonianza audio ufficiale sul disco At The Isle Of Wight, appunto: lì, la virtuosa What’s Goin’ On d’apertura (dal riff selvaggio e straordinario) e un chitarrista in evidenza, così come nella stessa documentazione video che sulle note di Sinner Boy sancirà un’epoca al suo capolinea.
L’eroe è solo
Sono alcuni dissapori manageriali e un coordinamento non troppo onesto delle faccende intorno ai Taste a dissuadere Gallagher dal proseguirne l’avventura, definitivamente consacrata alla storia col loro concerto d’addio là dove tutto era incominciato: Belfast 1970, Queens University e un passato con cui lo stesso Rory non vorrà più avere conti in sospeso.
Il resto è pagina bianca e nuova linfa dalle prove con alcuni musicisti del giro dei concerti: il bassista Gerry McAvoy e il batterista Wilgar Campbell i nuovi pard, ma onde evitare fraintendimenti la nuova formazione è senza mezzi termini la Rory Gallagher Band. Non a caso il nuovo album del ’71 sarà intitolato proprio Rory Gallagher e la ricerca sonora dell’artista, pur non rinnegando lo stile del vecchio power trio, si fa più estesa, raffinata e melodica, individuando in basso e batteria il giusto supporto per scelte estetiche differenti sotto la sua direzione, che giungeranno fino al jazz e alla passione dello stesso per John Coltrane. Nella track list figura ancora l’incalzante Sinner Boy dell’isola di Wight, con una rocciosa Laundromat a fare il verso alla vecchia Same Old Story dei Taste; ma di contro, insolite ballate rock blues come For The Last Time e l’originale intervento al sax tenore nella sperimentale Can’t Belive It’s True rendono davvero poliedrica la creatività dell’irlandese.
L’intento di Rory è quello di garantire in presa diretta la carica dirompente della dimensione dal vivo, e vi si avvicina ancor di più con Deuce, successivo e più elettrico lavoro in studio. Ma non si dovrà attendere poi molto per un altro attesissimo, vero e proprio live: la strascicata In Your Town, così come altre originalissime rese di cover divenute suoi cavalli di battaglia (febbrili come Messin’ With The Kid o Bullfrog Blues) compariranno nel decisivo Live! In Europe ’72, registrato durante le performances di un tour europeo a febbraio e marzo dello stesso anno, con un musicista al top della forma, dalla grande intensità espressiva e in uno stato di grazia (come lo immortala anche l’accesa foto di copertina del giornalista Mick Rock di Rolling Stone). Il volto del front man mostrerà qui anche il suo animo più visceralmente blues e acustico, dal sincerato omaggio a Pistol Slapper Blues di Blind Boy Fuller, all’urlata violenza al mandolino dell’indimenticabile Going To My Home Town. Il disco d’oro è dietro l’angolo e con una breve tournée trionfale negli States, Melody Maker fa di Rory Gallagher il musicista dell’anno. Quando chiederanno a Hendrix come si sentisse a essere il più grande chitarrista del mondo, lo stesso liquiderà la questione dicendo: «… non lo so, chiedetelo a Rory Gallagher (I don’t know man, you should ask an irish cat called Rory Gallagher)!.»
An irish cat called Rory Gallagher
E’ proprio in questo frangente che la popolarità di Rory diviene esplosiva e instancabile la sua presenza scenica. L’occasione cede il passo a un cambio di line up che vedrà Wilgar Campbell abbandonare l’intensa vita on the road a favore di Rod de’Ath (l’ex batterista dei Killing Floor, scomparso lo scorso agosto, n.d.r.) mentre all’inseparabile Gerry Mc Avoy si aggiungerà il tocco pianistico di Lou Martin, per quella svolta sonora alla base del sound più articolato di questi anni. Oltre agli album ufficiali (che l’anno dopo la celebre tournée europea sono addirittura due, Tattoo e Blueprint del 1973) non passerà molto prima che l’energica resa concertistica di Gallagher verrà nuovamente ritratta nelle immagini dell’ Irish Tour ’74 dal regista Tony Palmer, da cui anche il doppio album di questo famoso ritorno a casa e l’attuale pubblicazione completa del tour in sette CD più il film, che ci ha consentito di tornare ancora sulle sue tracce. Per Rory sono tempi d’oro, le collaborazioni si infittiscono e dei tempi è la stessa ‘ospitata’ con l’idolo di una vita, niente meno che Mr. McKinley Morganfield in persona nelle Muddy Waters London Session (1971) ad aggiungersi con orgoglio alla sua produzione personale, o quella con l’istrionico Jerry Lee Lewis del ’73, mentre sarà dal vivo con Albert King al Montreux Jazz Festival nel ’75.
La fama del chitarrista convince anche gli Stones a chiamarlo per sostituire l’uscita di Mick Taylor dalla band, ma dopo alcune registrazioni olandesi, è Rory medesimo a lasciare l’ingaggio: la sua tempra si mostra come sempre indomita e poco incline ai compromessi e il cliché di gregario gli va stretto, convinto a vivere la musica nella sua più profonda e sincera carica umana, umile e onesta, più vicina agli eroi del blues piuttosto che nei condizionamenti di mercato e dello showbiz. Un nuovo contratto con la Chrisalis condurrà perciò ad Against The Grain del ’75, e le occasioni lo indurranno di nuovo a scelte impegnative come quella di poter subentrare a Ritchie Blackmore nei Deep Purple, quando Roger Glover (bassista di questi ultimi) gli produrrà il bellissimo Calling Card del ’76. In quest’ultima fatica, la formula sonora ottenuta dimostra un sincero affiatamento dei componenti, nelle due facce dello stile ‘gallagheriano’ tra grinta elettrica ben dosata e senza sbavature (Do You Read Me, Country Mile, Secret Agent) e una vena per delle ballate imprescindibili dagli echi della sua isola lontana (I’ll Admit You’re Gone, Edged In Blue). Di questi anni anche le BBC Sessions, con versioni delle songs in vena di esecuzione (Calling Card, What In The World, Country Mile, I Got My Mojo Workin’ o Cruise On Out) in apprezzabilissime versioni alternative, e una facciata live alle incisioni della radio davvero al fulmicotone, nelle celebri sale londinesi come l’Hippodrome, l’Hammersmith Odeon, il Paris Theatre o al Venue di Leicester. Dalla straordinaria partecipazione alla trasmissione tedesca Rock Palast, seguita da milioni di spettatori, invece l’interessante e recente DVD che snocciola nel dettaglio tre concerti tra il ’76 e la produzione degli anni successivi, il ’77 e il ’79, con un Gallagher espansivo ed in piena presenza esaustiva, sino alla jam ubriaca col cantante scozzese Frankie Miller su di un rock’n’roll medley profusamente elargito ai presenti.
San Francisco A/R
La copiosa produzione negli anni Settanta per Gallagher & soci si rivela la migliore per qualità e quantità, e il musicista irlandese si attesta come una macchina da palco, incredibilmente attivo in quei momenti che vedono addirittura emergere soltanto nello scorso 2011 il risultato di una parentesi dalle più note gesta professionali europee ai tempi: come in uno scarto temporale, dal giro dei concerti si concretizzava allora l’occasione di una nuova avventura americana, stavolta per incidere direttamente in loco col noto produttore di Dylan, Janis Joplin o della Band, Elliott Mazer, da cui (come da copione per ogni celebre chitarrista … ) l’immancabile album fantasma. Ma non si tratta della solita ‘favola’ commerciale postuma, bensì di un effettivo progetto a cui la band collaborò davvero, volando a San Francisco nel novembre 1977 per registrare un disco tormentato, che non vide mai la luce. Quello che conosciamo noi oggi come Notes From San Francisco infatti, è il risultato delle registrazioni in studio a un passo dall’essere pubblicate, ma che il cambio di rotta del front man irlandese per via di alcune incomprensioni con Mazer portò definitivamente a un drastico dietro front, sciogliendo persino la ormai rodata formazione di Blueprint e … tornando a casa.
La recente uscita (come già nelle BBC Sessions) abbina al disco di studio, a cui Rory ripensò solo ultimamente (ma che non fece in tempo a remixare) un secondo dal vivo, sintesi di un rientro americano del 1979, con cinque serate dall’incredibile trasporto emotivo all’Old Waldorf della metropoli californiana: quasi la risposta postuma alle passate tensioni da studio, col meglio che il fratello manager di Rory, Donal, sia riuscito a mettere insieme da un paio di show per sera. Tracce che non appaiono nei più noti e celebrati live di allora, ma registrate da un ‘mobile trucks‘ (quindi dalla buona qualità di base) perché Rory voleva trasmetterli alla radio. Nella summa compilativa di quest’avventura sul Pacifico, i pezzi che solo Rory sapeva trasformare così sul palco, e che data la situazione, si condensano in performance incendiarie, tra Follow Me, Do You Read Me, Calling Card e le immancabili Bullfrog Blues e Shadow Play, o la più originale Sea Cruise. Una track list staccata dal sound del combo di cui sopra, che risente ancor di più dell’influenza hard rock di fine ’70 e del ritorno in trio, con Ted McKenna alla batteria, gli album Photo Finish e il duro Top Priority alle spalle e l’altra faccia della medaglia della tournée mondiale di Stage Struck tra il novembre del ’79 e luglio del 1980, nuovo live ufficiale di allora e del quale la parentesi concertistica americana in Notes From San Francisco ne riprende lo stesso spirito.
For the last time
Col decennio successivo però, gli anni Ottanta imbellettati dal music business e dalla vacuità del pop, Rory comincia a farsi da parte, diradando gli appuntamenti discografici e camminando sull’altro lato della strada del rock. Si accentuano alcuni problemi con l’alcol e gli antidepressivi, in un fai da te che cerca negli psicofarmaci l’antidoto ad alcune fobie, su tutte la paura di volare. Il suo blues, scarno ed essenziale, cerca altre soluzioni più vicine a sonorità ad effetto, in una metamorfosi dagli spigolosi contorni ‘hard & heavy’, cercando al contempo di essere al passo coi tempi, ma con un istinto conservativo che ne farà inevitabilmente quello di un emarginato, outsider e indipendente per sua stessa natura.
Nel 1982 è la volta di Jinx, i cui suoni ruvidamente studiati esprimono una commistione di acuminati riff di rock’n’roll (Big Guns, Bourbon, The Devil Made Me Do It) ed elementi impaludati in un più esplicito blueseggiare Deltaico e slide come Ride On Red, Ride On. Il ritorno al trio vede intanto l’introduzione del drummin’ corposo di Brendan O’Neill, per quei suoni molto più classicamente rock, cinque anni dopo a matrice anche del successivo album Defender. L’intervento di Mark Feltham all’armonica nella cover di Sonny Boy Williamson II Don’t Start Me Talkin’ volge lo sguardo alla nascente promessa del blues inglese Nine Below Zero per un degno supporto full band, ma sarà in apertura del lavoro che Kickback City mostra il violento ritorno di Gallagher su disco con un pezzo di rottura, e un alternarsi di chitarre dall’impronta meno vintage, tra rock’n’roll e blues chicagoano.
L’opening track e una passione di Gallagher per la letteratura noir & hard boiled sono intanto il recente pretesto per l’altra attuale uscita postuma, Kickback City appunto, a dire il vero curiosa dal punto di vista culturale, ma poco per i contenuti. In tre CD, ancora una volta il ‘lato’ studio, con una specie di raccolta tematica dai dischi delle canzoni ispirate alle atmosfere dei suoi romanzi preferiti (Dashiell Hammett o Raimond Chandler, per esempio); il ‘live’ con altre infiammate takes ‘criminali’ raccolte dai palchi; e il terzo, con la narrazione della novella a tema The Lie Factory dello scrittore Ian Rankin, illustrata da graphic novel. Operazione di dubbio gusto, certo, ma di rimando a quel penultimo disco, prima che il discreto Fresh Evidence del ’91, stavolta più vicino ai suoni swamp e Louisiana, rimanga invero l’ultimo lavoro e il testamento discografico ufficiale di un intramontabile bluesman celtico.
Rory Gallagher, 1948 – 1995
L’epilogo della vicenda non conosce mistero e laconico è lo stesso fratello Donal nel raccontare quanto Rory si fosse abbandonato un po’ a sé stesso e ad inguaribili eccessi alcolici, soprattutto negli ultimi tempi, trascinandosi verso la fine. Tuttavia, l’animo impassibile del musicista lo vede ancora frequentemente on stage, senza disdegnare inviti o collaborazioni e nemmeno quell’ultima tournée europea che lo vedrà pure al Pistoia Blues nel 1994. La stessa che, nel gennaio del ’95, dovrà interrompersi per un malore del nostro su di un palco olandese, con conseguente ricovero ospedaliero a Londra e definitiva uscita dalle scene. Il 14 giugno, per infezione sopraggiunta ad un’infelice operazione, Rory se ne andrà per sempre.
The story so far
Già a ottobre dello stesso anno una summa del meglio della sua carriera gli viene tributata negli USA con la raccolta A Blue Day For The Blues, mentre il ricordo di colleghi e musicisti si accavalla tuttora, tra concerti e interviste e un festival a lui dedicato a Ballyshanon, come da una madre orgogliosa, nella sua beneamata Irlanda. E Rory Gallagher, figlio d’Irlanda, non sfugge così al ricordo di chi non ha potuto far altro che scoprire quanti e quali frutti la sua lezione, mutuata dall’incontro di radici blues con un insolito folklore non soltanto nordamericano, abbia potuto produrre, a partire da una concezione musicale che è stata anche la sua stessa filosofia di vita. Nella sua città natale il teatro è stato ribattezzato Rory Gallagher Theatre, e a lui è stata eretta lì una statua in bronzo, alla memoria. Ma pure a Cork, una scultura designa un Rory Gallagher Place e una targa commemorativa lo ricorda a Belfast, così come mezzo busto e sagoma di chitarra in Temple Bar, a Dublino. E a otto anni dalla sua scomparsa, anche l’originale compilation Wheels Whitin’Wheels ci restituisce ancora un Gallagher inedito, stavolta con alcune registrazioni acustiche che ci regalano il suo riconoscimento definitivo a quella musica popolare che lui, con altri musicisti (dai connazionali Dubliners a Lonnie Donegan, fino alla collaborazione col chitarrista flamenco Juan Martin) ha sempre amato. Il materiale dell’artista, amministrato con cura da Donal e da suo figlio, che ne ha raccolto il testimone, garantisce oggi la monumentale riedizione di Irish Tour ’74 nei negozi in questi giorni, a cui è dedicata la presente retrospettiva. Durante la stesura di queste pagine scopriamo poi un’edizione paperback inglese dell’opera del 2012, ‘Rory Gallagher. His Life And Times’, presentata a settembre dal veterano dell’industria discografica irlandese Marcus Connaughton. Accogliendone alcuni interessanti riferimenti ‘filologici’ e l’accurata ricerca dell’autore, auspichiamo in un’edizione italiana per una biografia definitiva e ufficiale di un artista internazionale, genuino e vero, sincero e puro, in tutto il mondo forse mai conosciuto e apprezzato abbastanza come nella sua verde isola lassù, nell’Atlantico settentrionale.
Matteo Fratti, fonte Il Blues n. 129, 2014