Ogni anno a Chicago prende vita il più grande evento musicale del mondo. Mezzo milione di persone vengono da ogni parte d’America per assistere al Chicago Blues Festival che quest’anno ha festeggiato il suo decennale.
La chiamano la ‘windy city’, la città ventosa. Non per via delle sfuriate di Eolo (peraltro frequenti e freddissime, ve lo posso garantire) ma per il fatto che (dicono) i suoi abitanti amano vantarsi delle proprie imprese.
Chicago, d’altronde, è anche conosciuta per essere la città dei record. Qui c’è infatti il grattacielo più alto del mondo (la Sears Tower) qui è stato inaugurato il primo Mc Donald, qui Enrico Fermi ha iniziato i suoi esperimenti sull’atomo, qui c’è O’ Hare, il più trafficato aeroporto internazionale, qui gioca Michael Jordan, il più grande giocatore di basket di tutti i tempi, e via di seguito. Perlomeno ci può confortare il fatto che pensare che il nome derivi da una parola indiana che significa più o meno “puzza di cipolla selvatica” (non il massimo in quanto ad aroma) non dovrebbe essere motivo d’orgoglio per i pur vanesi abitanti della terza metropoli americana.
Ma, in fondo in fondo, sai quanto gliene può fregare: qui, ogni anno da 10 anni, si svolge il Chicago Blues Festival, il più imponente (poteva essere altrimenti?) evento musicale del pianeta. Mezzo milione di persone (l’ingresso è gratuito) transitano durante i tre giorni della manifestazione davanti ai tre palchi collocati all’interno del Grant Park, il verde spazio che si colloca tra i grattacieli della ‘downtown’ e le rive del lago Michigan, per respirare le magiche atmosfere della musica “dalle dodici battute” e per sentire e vedere i grandi maestri di quella che è stata per lungo tempo la principale forma di ‘black culture’.
Chicago è il blues e il blues è, soprattutto, Chicago: un connubio assolutamente riconosciuto e riconoscibile negli States e nel mondo. Basta ancora oggi girare per il ‘southside’ della città, in quella che una volta era una ricca zona residenziale che oggi le speculazioni edilizie hanno trasformato in uno dei più vasti ghetti neri d’America, per rendersene conto. Lì ci sono ancora ricordi indelebili di ciò che era il blues: posti come il Palm Tavern, una volta uno dei più prestigiosi locali musicali americani, oggi ridotto a qualcosa che assomiglia ad un puzzolente ristorante di infima categoria, il Delta Fish Market’, il mercato del pesce, dove al sabato mattina sul palchetto sistemato al centro del piazzale si succedono musicisti più o meno occasionali che danno vita a jam-session trascinanti.
C’è il mercatino di Maxell Street (immortalato da John Landis nel cult-movie The Blues Brothers) dove si trovano, tra mille articoli di ogni genere, anche alcune rarità discografiche. E, soprattutto, ci sono quella che chiamano The House Of Blues, l’abitazione dove vivevano Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Willie Dixon e altre leggende della ‘windy city’, la Muddy Waters Drive (con i suoi stupendi murales) e alcuni dei più interessanti blues club come il Rosa’s e il Checkerboard Lounge.
Qui gli abitanti sono solo neri e anche il bianco con la classica faccia del turista italiano un po’ pirla non viene visto volentieri. Soprattutto se si ferma a fare fotografie o peggio (vedi il mio caso) se è lì per realizzare un reportage televisivo. Tanto vale accontentarsi di attrazioni più accessibili come l’Hard Rock Café (in quello di Chicago ci trovate la Telecaster di Albert Collins, il cappello di Willie Dixon e molti poster originali di Muddy Waters, tanto per stare in tema blues), visitare il locale Tower Records (la più importante catena americana di negozi di dischi, libri e video) con una fornitissima sezione blues e jazz o andare a sentire musica live al Blue Chicago, al B.L.U.E.S., al Kingston Mines e al Buddy Guy’s Legends.
Nella settimana che precede il Blues Festival l’attività dei club è potenziata e c’è la possibilità di godersi in anteprima, e a pochi metri di distanza, le performance degli artisti che nel week-end calcheranno le assi del Petrillo Music Shell, il palco principale della manifestazione.
Il programma del Blues Festival 1993, pur celebrando il decimo anniversario, non presentava nomi di grande popolarità. Come al solito, gli organizzatori hanno preferito dare spazio alle glorie cittadine e con le eccezioni del californiano Elvin Bishop, del texano Johnny Copeland, degli ottimi Staples e del grande Johnny Otis, hanno celebrato alcune ‘leggende (per ora) viventi’ della città.
La sfilata degli ‘ottuagenari D.O.C.’ è iniziata con Homesick James e Yank Rachell (168 anni in due!!), proseguita con Pinetop Perkins e Sunnyland Slim e conclusa con la commovente cerimonia dedicata a Jimmy Walker che compiva 88 anni il 30 maggio, l’ultima sera del festival. Al vecchio pianista, in precarie condizioni di salute (si è presentato su una sedia a rotelle e con una coperta sulle gambe), è stata portata sul palco una torta con le candeline di rito prima di lasciargli lo spazio per una breve ma intensa performance musicale.
Da non dimenticare infine il gruppo che, tutti i giorni, aveva l’onore e l’onere di aprire la manifestazione: la band rurale del Mississippi guidata dal vecchio Othar Turner che proponeva con il suo flauto di canna e le percussioni di figli e nipoti la suggestione della musica nera d’inizio secolo.
I concerti che si sono tenuti sul palco principale sono stati ovviamente i più felici dal punto di vista spettacolare. A cominciare dal leggendario Junior Wells, un po’ troppo gigione ma certamente dotato di un carisma eccezionale, per finire con gli Staples Singers, guidati da Pops Staples, che si sono rivelati la band migliore e più sofisticata dell’intero lotto. Il loro mix di blues, soul e gospel e soprattutto la straordinaria abilità vocale hanno emozionato la platea del Chicago Blues Festival e hanno chiuso alla grande i concerti di domenica sera.
Penalizzato dal brutto tempo (freddo e pioggia quasi ininterrotti per tre giorni) il Festival ha potuto vivere il suo momento più caldo nella serata di sabato animata dalla big band di Johnny Otis (straordinario il suo spettacolo) e dal concerto di Johnny Copeland che si è rivelato interprete eccellente e versatile.
Lo stesso dicasi per Elvin Bishop, chitarrista bianco già al fianco di Paul Butterfield, che con il suo rock blues ha catturato l’attenzione dei presenti. Tra le chicche, da segnalare la trascinante West Coast Harp Review che presentava tre armonicisti di valore, William Clark, Curtis Salgado e Mark Hummell, la ottima Ice Blue Band (dall’Islanda) che ha accompagnato Chicago Beau e Pinetop Perkins, i chitarristi Honeboy Edwards e Jerry Ricks. Insomma ce n’è stato un po’ per tutti i gusti, come spesso accade in questi megafestival americani.
L’organizzazione, coordinata da Barry Dolins, si è, al solito, rivelata all’altezza della situazione. D’altra parte il Chicago Blues Festival è un evento gestito direttamente dal Comune con la collaborazione di numerosi sponsor privati che consentono di coprire i 600 milioni di lire necessari per mettere in piedi la gigantesca macchina organizzativa. E l’investimento, giustamente, paga: la città di Chicago ne ricava infatti un ottimo ritorno di immagine e aggiunge con il suo Blues Festival una ulteriore perla alla già ricca collana di record.
Fabio Treves, il bluesman nostrano presente al Festival di quest’anno e tra i promotori qualche anno fa del gemellaggio tra Milano e Chicago, ha commentato: “Chicago è la capitale del blues ed è perfettamente logico che i suoi amministratori abbiano deciso di investire per creare qui, nella ‘windy city’, il più grande blues festival del mondo. Sarebbe bello che si aprissero le porte di Chicago anche alle più interessanti realtà blues che provengono dall’Europa e da tutto il mondo per dare anche un tocco di internazionalità a questa rassegna prestigiosa”.
Ma già gli organizzatori sono al lavoro per la prossima edizione con l’obiettivo comunque di proseguire la tradizione ma di creare sempre nuovi spunti di interesse per rendere più appetibile il Festival. Il periodo è sempre più o meno lo stesso: un week-end tra fine maggio e inizio giugno; i collegamenti con Chicago dall’Italia sono buoni (l’Alitalia ha un volo diretto tutti i giorni da Roma): se fossi in voi ci farei un pensierino.
Ezio Guaitamacchi, fonte Hi, Folks! n. 60, 1993