«Voglio scrivere un libro, ma non ho una buona calligrafia, faccio qualche errore di grammatica e ho bisogno che un giornalista o anche più semplicemente un amico trascriva quello che io racconto. Voglio scrivere un libro sulla mia vita, da quando sono nato orfano (mia madre è morta una settimana dopo avermi partorito, e mio padre è stato ucciso dal Ku Klux Klan cinque anni dopo), da quando sono cresciuto con mia nonna, dai miei giorni sulla strada per tutta l’America fino ad oggi, la mia famiglia, la mia casa a Long Island, i miei tre figli e la mia condizione di musicista. E voglio scrivere come vive un bluesman come me, come vengo trattato e quello che provo. Perché la gente ignora quello che succede dietro il palcoscenico: se salta un concerto, agli altri musicisti vengono offerte gigs o spettacoli televisivi, di me nessuno si preoccupa, mi lasciano da solo, a stento mi pagano un pranzo al ristorante. Avrei bisogno di un manager, di qualcuno che mi spingesse, che curasse i mei interessi e mi trovasse delle date senza peregrinare qua e là inutilmente. Ma il blues non tira, a parte Muddy Waters, B. B. King e qualcun altro, tutti gli altri musicisti tirano a campare e campano male. La differenza è che quando c’è un manager, le cose cambiano. E in meglio.
Muddy Waters era un mio vecchio amico. Quando arrivai a Chicago per la prima volta mi ospitò a casa sua per un sacco di tempo, mi fece entrare nella sua band e lavoravamo parecchio. Era il 1952. Ho incontrato di nuovo Muddy un paio di anni fa, sempre a Chicago. E’ stato freddo e frettoloso, non era più il Muddy Waters di una volta, quello che avevo conosciuto così bene e a cui volevo bene. Non gli ho chiesto nulla, solo mi sarebbe piaciuto magari fare un salto a casa sua e bere un bicchiere insieme e parlare dei vecchi tempi e dei vecchi amici. Invece mi ha fatto capire che non poteva, e che in casa c’erano i suoi familiari.
Johnny Shines invece è rimasto una persona dorabile, sempre pronto a fare qualcosa per te, ad ascoltarti e dare un consiglio. E stato uno dei miei veri maestri, per suonare la chitarra e per imparare a vivere.
Non ho mai usato il mio vero nome, Iverson Minter. A seconda dei posti, delle circostanze e dei miei desideri, mi sono fatto chiamare Rocky Fuller, Playboy Fuller, Guitar Red, Tennessee Red, Tennessee Slim, perfino Elmore James Junior, infine Louisiana Red. La mia donna, per prendermi in giro, qualche volta mi chiama Dirty Red. Così, per ridere. Ma anche tutti questi soprannomi non mi hanno mai portato fortuna. Cominciai a suonare che ero ancora un ragazzino, poi fui mandato in Corea, quindi tornai in America e ripresi a suonare. Ma era dura, terribilmente dura. Nel ’64 rinunciai, ero stanco e sfiduciato. Nel ’71 ho ricominciato, e da allora ho fatto concerti, ho partecipato a feste ed a festival, mi è stata anche concessa la possibilità di incidere qualche disco: vedevo un po’ di soldi all’inizio, poi più niente.
Questo è il Blues. Essere lontani da casa, sentirsi soli, non avere nessuno che badi ai tuoi affari, avere dentro un nodo alla gola e cantare, suonare. Urlare e sfogarsi per liberare questi blues e cacciarli via.
Ogni tanto mi viene la voglia di cambiare aria, convincere i miei figli a lasciare gli Stati Uniti e venire in Europa, dove ho conosciuto delle persone che mi vogliono bene, metter su una blues band e girare insieme. Forse esistono più possibilità qui in Europa e, chissà, magari anche in Italia, per suonare e guadagnarsi da vivere onestamente.»
Marco Pastonesi, fonte Il Blues n. 141, 2017