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Nel 1965 il celebre produttore di Nashville Chet Atkins decise di registrare il cantante country Eddy Arnold facendolo accompagnare da un’intera orchestra. Fu questo specifico episodio che segnò la nascita di ciò che presto sarebbe divenuto noto come ‘Nashville Sound’. La sostituzione del più tradizionale stile di violino con una sezione d’archi, la voce quasi sussurrata ed un uso intensivo della steel-guitar avevano reso così la musica più melliflua, più morbida e, in definitiva, più accettabile all’ascoltatore di città.

Questa formula, quasi completamente svuotata dei contenuti più primitivi ed agresti propri dell’hillbilly, ha praticamente dominato l’intera produzione country degli ultimi vent’anni.

Ci sono state alcune eccezioni, naturalmente, come il movimento degli ‘outlaws’ o il country-rock californiano, ma sono riuscite solo ad interferire senza intaccare più di tanto l’impero di Nashville. Difatti, mentre i primi sono rapidamente entrati quasi tutti a far parte della stessa scena di Nashville adeguandosi senza ritegno ai suoi dettami, il country-rock, col passare delle mode e la scomparsa o il cambio di direzione dei suoi gruppi storici, è entrato in una sorta di coma profondo ed irreversibile.

Inevitabilmente perciò la musica country, che per qualche tempo era riuscita ad accendere le passioni del pubblico giovanile, è tornata a far parte del bagaglio mentale e culturale di un certo tipo di ascoltatore perfettamente delineato in film come Convoy e Il Cavaliere Elettrico oppure, ma con molta ironia, in una esilarante scena di The Blues Brothers.

La situazione ha cominciato fortunatamente a migliorare negli ultimi tempi, grazie soprattutto all’arrivo di nuovi e più creativi artisti alla ricerca di una maggiore libertà espressiva che non dovesse per forza identificarsi con le ferree regole imposte da Nashville.

Un grosso contributo all’affermazione di questi personaggi è stato certamente dato dall’ondata del nuovo rock americano che, nel suo costante riciclaggio dei vari filoni musicali, è andato inevitabilmente a ripescare anche l’odiata e vituperata country music. Il fulcro di questa attività è stata ancora in parte la California ove si sono mossi Long Riders, Rank & File ed altri gruppi che, mescolando il furore punk coi suoni della tradizione rurale, hanno senz’altro destato un nuovo interesse verso la musica country preparando il terreno ad una nuova e più genuina tradizione di cantautori urbani.

E’ in questo stesso contesto infatti che un giovanotto del Kentucky, cresciuto con la musica di Hank Williams e Bill Monroe nelle orecchie, ha trovato lo spazio per emergere creandosi un seguito senza precedenti tanto fra il pubblico rock quanto fra quello tradizionalmente legato alla country music.

La musica di Dwight Yoakam non è affatto percorsa da molti watt (come nel caso dei gruppi citati prima) ma è riuscita comunque a far breccia presso un pubblico estremamente eterogeneo per via della sincerità e del totale rifiuto di ogni compromesso con cui è stata caparbiamente proposta; anche adesso che ha vinto un Grammy Award, Yoakam, pur avendo la possibilità di lavorare coi migliori musicisti di Nashville, preferisce continuare ad esibirsi dal vivo col suo fidato gruppo oppure da solo insieme a Pete Anderson, suo braccio destro.

Dwight Yoakam è giunto a Los Angeles dopo varie peregrinazioni attraverso gli U.S.A. (compresa una infruttuosa e deludente tappa a ‘Music City’) e ha debuttato con un EP autoprodotto chiamato Guitars, Cadillac, Etc. (Oak OR 2356) che lo vedeva nei panni del restauratore di una tradizione country che va direttamente al dopoguerra, quando il genere era ancora definito hillbilly e ben lungi dal trasformarsi in poco più che una sofisticata forma di pop.

Lo stile di Yoakam, anche se abbastanza moderno, è infatti tutt’altro che innovativo o rivoluzionario ma è riuscito comunque ad interessare una grossa casa discografica come la Warner Bros, a cui si deve la pubblicazione dell’ottimo album che porta lo stesso titolo dell’EP (Reprise 9.2537-1) ma contiene quattro canzoni in più rispetto all’esordio su vinile.

E’ proprio questo il punto focale della questione, e cioè che, dopo molti anni di completo disinteresse verso tutto ciò che non rientrasse negli stereotipi del genere, finalmente le maggiori compagnie discografiche hanno ripreso ad occuparsi di un suono country più autentico e genuino.

Come conseguenza del successo di Dwight Yoakam, ormai divenuto una star della musica country, le grandi etichette si sono così gettate a capofitto nella ricerca di altre figure degne di interesse; l’entusiasmo generato dall’arrivo di questi nuovi personaggi ha fatto persino pensare alla nascita di un nuovo movimento che qualcuno, molto affrettatamente, ha definito ‘cowpunk’ (termine che in realtà gli americani applicano generalmente ai gruppi del nuovo rock) e, sin troppo trionfalmente, ha spesso accreditato di virtù innovative che solo raramente, a mio avviso, si sono manifestate.

Resta però il fatto importante che, dietro Dwight Yoakam, esiste una schiera di volti nuovi intenzionati a comporre ed eseguire buona country music ma anche con in tasca un buon contratto discografico e la fortuna di riuscire a scalare piuttosto in fretta le classifiche specializzate di Billboard.

Fra i vari nomi emergenti un posto di riguardo lo occupa certamente Steve Earle, non solo perché salito alla ribalta quasi contemporaneamente a Yoakam, ma anche perché il suo stile si distingue fra tutti per essere il più moderno: Guitar Town (MCA 5713), suo primo lavoro ufficiale, è difatti un disco piuttosto attuale in cui gli strumenti elettrici (e persino il sintetizzatore) si sposano con le sonorità rurali creando un ibrido molto grintoso ed eccitante. Non esiste nulla di nuovo nel fondere questi diversi concetti, naturalmente, ma possiamo affermare che quanto Steve Earle sta facendo risponde ad una visione più aggiornata del vecchio country-rock (benché, fortunatamente, distante dall’esasperazione propria di Long Ryders e compagnia).

La MCA, ovvero l’etichetta che da tempo ha pressoché strappato lo scettro della country music al colosso RCA, è pure la compagnia che più si è resa attiva nella ricerca di nuovi talenti. Oltre a Steve Earle perciò il suo catalogo ultimamente si è arricchito, fra gli altri, di nomi non meno validi come quelli di Lyle Lovett e Nancy Griffith. Lovett è un grande amico di Robert Earl Keen Jr. (con cui ha pure scritto una bellissima canzone, This Old Porch, apparsa nelle rispettive prove d’esordio) e come lui ricorda non poco nello stile il magnifico Guy Clark; la differenza, però, è che mentre Keen è più vicino a certo folk urbano, la musica di Lovett è più densamente imbevuta nella tradizione country texana tanto da presentare persino qualche lieve accenno swing.

Lyle Lovett (MCA 5748), le cui note sono state redatte proprio da Guy Clark, è uno splendido biglietto da visita per il giovane artista texano e senz’altro uno degli album più freschi e geniali usciti lo scorso anno. Lovett ha una vena compositiva fertile e brillante, sia nei momenti più briosi che in quelli più rilassati, e, grazie ad una eccellente produzione, è riuscito a tenere tutti gli arrangiamenti lineari ed intelligenti. Un nome sicuramente da tenere d’occhio per il futuro!

Nancy Griffith invece non è propriamente un volto nuovo per gli appassionati. Protagonista di varie edizioni del festival di Kerrville, Nancy proviene dallo stesso giro country & folk texano che ospita abitualmente artisti come Earl Keen Jr. e Mike Williams e ha già all’attivo quattro album personali sui quali è bene indagare: i primi due hanno visto la luce proprio per l’etichetta di Williams, la Featherbed, mentre gli altri due sono usciti per la Philo e risultano leggermente più ambiziosi, grazie anche alla coproduzione dell’esperto Jim Rooney e alla presenza in studio di validissimi strumentisti.

In tutti questi lavori comunque la Griffith ha espresso una forte personalità artistica ed un talento impareggiabile, sia come autrice che come interprete del lavoro di altri autori conterranei (Richard Dobson, Tom Russell, ecc.) a cui forse il suo recente successo potrebbe portare un po’ di fortuna. Nancy difatti ha recentemente firmato per la MCA debuttando con Lone Star State Of Mind (MCA 5927) che finalmente le ha aperto le porte ad un pubblico più vasto, come del resto ella merita.

Questa nuova situazione tuttavia non ha affatto compromesso le caratteristiche proprie del personaggio, dotato di un approccio che potrebbe far pensare ad una Emmylou Harris con maggiore classe e capacità; come ha scritto Billboard a proposito dell’ultimo disco di Nancy: “La voce della Griffith ha l’improvvisa intensità di un elettroshock; ancora più arrestanti sono le vivide e meditatamente provocanti liriche e la delicata produzione che le consegna”.

Vi sono altri artisti che, dopo un passato più o meno oscuro, sono stati scoperti dalla grande industria discografica divenendo protagonisti della nuova scena country; fra questi ricordiamo con piacere i Whites, gli strepitosi New Grass Revival (ora con la Capitol), i Riders In The Sky, John Hartford (ma nel suo caso è meglio parlare di riscoperta avendo già inciso a suo tempo con la RCA e la Warner Bros.) ma soprattutto Vince Gill e Marty Stuart. Quest’ultimo forse entra più forzatamente in questa rassegna in quanto il suo pur pregevole Marty Stuart (Columbia B6C 40302) è in effetti un album di rock ‘n’ roll con qualche puntata verso il country e il rockabilly.

Stuart però ha un passato come cantautore con due LP interessanti (editi da Rounder e Sugar Hill) ma pressoché ignorati dal pubblico e non nasconde affatto le sue radici agresti. Come autore forse non è particolarmente prolifico (tre soli sono i titoli suoi presenti nell’ultimo album, due scritti col produttore Curtis Allen ed uno col compianto Steve Goodman) ma la sua scelta delle canzoni è felice e varia passando da Steve Forbert a David Mallet, sino a riprendere un classico della Band come The Shape I’m In. Un ritorno comunque molto gradito quello di Stuart con un LP dal suono asciutto e quadrato.

Vince Gill invece proviene dai circuiti country-bluegrass californiani e può vantare, fra le altre cose, apparizioni nei Pure Praire League e negli Here Today, il supergruppo guidato da David Grisman. Abbandonata ogni velleità collettiva, Gill ora opera come solista e fa parte del catalogo RCA con cui nell’85 ha realizzato il suo primo album The Things That Matter, che contiene molte buone canzoni composte dallo stesso artista, da solo oppure con l’aiuto di vecchi amici come Rodney Crowell e sua moglie Rosanne Cash.

C’è un altro personaggio che, dopo una lunga carriera spesa in svariati bluegrass ensemble, si è convertito ad una forma molto personale di country music che tiene conto tanto delle sue radici quanto di certo rock, swing ed altro ancora. I! suo nome è Ricky Skaggs ed è fuori discussione che il suo esempio sia valso non poco a stimolare la stessa Nashville ove egli ha trovato ottima accoglienza ancor prima di tutti i nomi su cui stiamo disquisendo. Avendo già parlato diffusamente di lui sul N. 17 di Hi, Folks! mi pare inutile aggiungere altro.

Più interessante è semmai dire delle Judds, madre e figlia, (anche se a vederle nelle foto dei loro dischi si direbbero sorelle) le cui particolari armonie vocali le fan quasi sembrare una sorta di Mc Garrigles in versione country (come qualcuno ha giustamente fatto notare).

Wyonna e Naomi hanno sinora realizzato una manciata di album fra cui lo straordinario Rockin’ With The Rythm (RCA AHL1-7042), certamente uno dei dischi più sorprendenti e frizzanti fra quelli prodotti a Nashville negli ultimi anni. Niente sovraproduzioni, niente archi, nessuna sdolcinatura ma solo un pugno di ottime canzoni riprese da autori piuttosto eterogenei (fra i quali l’inglese Paul Kennerley) e presentate in una veste stringata ma al contempo accattivante e di gusto. Oltre ad avere ben tre LP in classifica contemporaneamente, le Judds sono uno degli act su cui la stampa specializzata americana sta consumando più inchiostro (strano come nessuno si sia accorto di loro, da noi).

La loro controparte maschile potrebbe venire indicata negli O’Kanes, al secolo Jamie O’Hara e Kieran Kane. Pure loro non sono proprio dei novellini (il primo ha composto brani per diversi artisti, comprese le stesse Judds, mentre il secondo ha inciso un album a proprio nome per la Elektra) ma sono alla prima esperienza in coppia su vinile.

The O’Kanes (Columbia B6C 404-59) è davvero un’opera superba, orientata com’è verso suoni acustici e dolci e gradevoli ballate in prevalenza; il loro stile è quasi sempre amichevole e rilassato ma non mancano accenni più vibranti e persino qualche riferimento al bluegrass e agli Everly Brothers. Non c’è ombra di dubbio che il loro, insieme a quello di Lyle Lovett, sia l’esordio più positivo che ci si poteva attendere.

Non si può proprio dire lo stesso per Randy Travis, un altro giovane artista residente a Nashville il cui debutto su plastica nera, come ostentato da un inserto pubblicitario, ha già venduto oltre un milione di copie. E’ facile capire perché, visto che di tutto il mazzo presentato finora, Travis è l’artista che più si avvicina agli stereotipi di Nashville nonché quello che, a mio parere, dotato di minor personalità.

La sua voce è infatti sin troppo gentile così come l’atmosfera generale di Storms Of Life (Warner Brothers 1-25435) è sin troppo melensa e melliflua; neppure il contributo di musicisti di valore come Mark O’Connor e Jerry Douglas è riuscito a sollevare la qualità di un prodotto decisamente più ordinario rispetto alla media degli altri nuovi talenti.

Tutti questi artisti nominati sino ad ora sono solo alcuni dei nomi nuovi che la scena country va proponendo e, più precisamente, riguardano solo quelli che sono approdati ad una grossa etichetta.

La lista delle figure emergenti dovrebbe comunque essere più lunga e comprendere personaggi come Eddy Lawrence o David Mallet che purtroppo non hanno avuto la stessa fortuna commerciale incidendo per etichette minori o addirittura autoproducendo i propri sforzi.

Molti altri interessanti musicisti, quasi tutti appartenenti alla stessa scena californiana che ha partorito Dwight Yoakam, sono inoltre apparsi in due compilazioni intitolate rispettivamente A Town South Of Bakersfield (Enigma 2059-1) e Don’t Shoot (Zippo ZONG 009); è probabile che di qualcuno di loro sentiremo presto parlare più diffusamente.

Ci sono poi ancora vecchi leoni del country-rock che sono riusciti a ritrovare lo smalto dei giorni migliori, come Chris Hillman ed Emmylou Harris, oppure altri come Neil Young e Dan Fogelberg le cui recenti prove hanno degnamente riscoperto l’aroma della migliore tradizione country e bluegrass (l’allusione è ovviamente rivolta a Old Ways e High Country Snows, entrambi già recensiti su questa rivista).

Se ‘i nuovi tradizionalisti’ della country music hanno avuto qualcosa a cui ispirarsi, certamente è stato merito anche di queste sparute voci il cui operato è stato spesso significativo pure negli adulterati anni ‘70.

C’è anche un caso più particolare, quello di T. Bone Burnette il quale, col suo recente omonimo album (MCA 5809) ha sicuramente prodotto uno dei migliori dischi country dell’anno. Insomma chi pretendeva qualcosa in più dei soliti Merle Haggard, Willie Nelson e Ronnie Milsap, ha finalmente trovato pane per i propri denti.

Massimo Ferro, fonte Hi, Folks! n. 23, 1987

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