Wade Vincent Root

Wade Vincent Root è uno dei molti artisti del mondo della country music che possono essere scoperti solo approfondendo le proprie ricerche nel mondo delle etichette indipendenti o ancora dei dischi auto prodotti.
Nashville è piena di artisti di questo tipo che si trovano in città proprio per dare forma ai propri sogni e cercare di farsi conoscere il più possibile. Moltissimi hanno poche speranze di farcela, molti hanno buone e spesso ottime qualità ma per un motivo o per l’altro non arrivano a sfondare, pochi, pochissimi riescono ad ottenere un contratto con qualche casa discografica.
Wade Vincent Root nasce e cresce in Wisconsin dove coltiva da subito il sogno di intraprendere una carriera nel mondo della musica, quella musica di cui è appassionato, Merle Haggard, George Jones, Buck Owens e Tammy Wynette, canzoni spesso strappalacrime che rapiscono ed emozionano.
Trasferitosi a Nashville fa subito incontri importanti per la sua vita artistica, conosce prima Jim West produttore e steel guitarist di grande esperienza che introduce il giovane Root a Hank Cochran una leggenda vivente autore di molte delle canzoni che facevano sognare Wade in gioventù.
Nel 2001 esce il primo disco di Root intitolato Somewhere Under The Rainbow impreziosito dalla title track, un pezzo conosciuto al grande pubblico nella versione di Joe Diffie che nell’interpretazione di Root cambia sonorità non solo per l’alta voce baritonale del cantante ma soprattutto per l’arrangiamento pop con uso anche del sax. Il risultato complessivo è buono, forse un po’ freddo ma utile a far conoscere il nome di Root tra gli addetti ai lavori, nel disco è inserito anche un pezzo di Hank Cochran intitolato She’ll Be Back.
Un anno dopo viene pubblicato Our Bed Of Roses, il secondo album di Wade Vincent Root, senza dubbio migliore del primo soprattutto per la scelta dei pezzi più adatti alle sonorità del cantante.
Dal primo lavoro viene ripresa Somewhere Under The Rainbow che in questo album sembra meglio inserito e meno isolato. Sempre in primo piano le ballate lente come la title track Our Bed Of Roses, scritta da Keith Stegall e resa famosa dalla versione di George Jones, Leave Me A Picture Of You o la splendida Little Bits And Pieces altro omaggio di Hank Cochran.
Il disco ottiene buone recensioni anche oltreoceano, piacciono le capacità vocali di Root spesso accostate al nome di Vince Gill e soprattutto il suo gusto nello scegliere ballate dal sapore tradizionale in cui il pianto della steel è ancora protagonista. Da questi due lavori parte la carriera discografica di Wade Vincent Root che conosciamo meglio con questa intervista raccolta a Nashville appena fuori Music Row nel salotto di una villetta che è la casa\ufficio di Martha Moore che si occupa della promozione del cantante. Davanti ad un ottimo muffin ai mirtilli ed un succo d’arancia, questo è quello che mi ha raccontato.

RG- Il tuo ultimo album ha ottenuto dei buoni giudizi, come ti senti al riguardo?
WVR- Direi molto bene, sono contento del lavoro fatto finora soprattutto ora che le cose sembrano cominciare a girare nel senso giusto. Ho una bella squadra di persone che lavorano con me ed ogni giorno siamo più affiatati e uniti.
RG- Quali sono le tue influenze artistiche?
WVR- Ho iniziato a suonare la chitarra all’età di 10-12 anni, da ragazzino amavo soprattutto il rock’n’roll, poi crescendo mi sono appassionato alla country music, ho sempre amato quelle canzoni che avevano una storia da raccontare, con testi ispirati e belle parole come quelle di Merle Haggard o Hank Cochran per fare un paio di nomi. Anche oggi le canzoni che cerco devono avere queste caratteristiche, devono colpirmi per ciò che dicono perché poi io possa adattarle al mio stile.
RG- Nei tuoi primi due album, hai inserito pezzi che sono stati interpretati da star del calibro di George Jones e Joe Diffie, come ti sei confrontato con le loro versioni?
WVR- Ho sempre cercato di dare alle canzoni un mio stile personale. Parlando di Our Bed Of Roses, in pochi sanno che George Jones decise di inciderla ascoltando un demo che proprio io avevo registrato per quel pezzo. Fu Keith Stegall, l’autore del brano, a farlo ascoltare a Jones e quando mi dissero che aveva deciso di farlo ne fui molto orgoglioso. Dalle mie parti quando la canzone passa sulle radio locali, la presentano come quella che io ho dato a George Jones. Somewhere Under The Rainbow è una canzone che ho cambiato molto rispetto alla versione di Diffie, ho suonato spesso con uno degli autori della canzone e così ho potuto ascoltarla per anni in versione demo, ci abbiamo lavorato su e abbiamo deciso di inserire parti di sax e farne un brano più country pop.

RG- Parliamo del tuo ultimo lavoro Our Bed Of Roses, come hai affrontato questo tuo secondo lavoro?
WVR- Abbiamo cercato di dare al disco un sound piuttosto tradizionale, ho cercato canzoni che veramente mi piacessero e si adattassero al mio stile. Abbiamo ascoltato e provato in studio il materiale raccolto, ci siamo confrontati con le versioni dimostrative molte delle quali sembravano già perfette e difficilmente migliorabili. In molti casi ero preoccupato di come avrebbe reso la nostra versione ma devo dire che sono molto orgoglioso del risultato raggiunto.
RG- Quali le differenze tra il primo e questo secondo disco?
WVR- Our Bed Of Roses è quello che sento più mio. Il primo album mi è servito per affacciarmi sul mercato discografico, per farmi conoscere ma il materiale che potemmo utilizzare era limitato senza molta possibilità di scelta. Per questo ultimo lavoro abbiamo raccolto migliaia di canzoni, anche presso compagnie di pubblicazioni a cui prima non avremmo potuto accedere. Così ho potuto veramente scegliere quelle che mi piacevano e che meglio mi si adattavano. Per uno come me che resta un interprete puro e che non scrive i propri pezzi, poter avere una scelta più ampia è fondamentale.
RG- Come hai conosciuto il tuo produttore Jim West e come è nata la vostra collaborazione?
WVR- Conosco Jim ormai da dieci anni, quando lo incontrai per la prima volta fu magico, sembrava che fossimo due vecchi amici che si ritrovavano dopo molto tempo. Da subito divenne parte della mia squadra, suona la steel nella band e produce. Durante le lavorazioni per i dischi, mi ha sempre dimostrato grande disponibilità, non mi ha mai imposto scelte sue, abbiamo sempre discusso dei diversi punti di vista. Lui mi fa sentire a mio agio e mi da fiducia. Il nostro è un rapporto molto sincero e aperto, un ottimo lavoro di squadra.

RG- Nei tuoi album sono presenti molti stili musicali ma le ballate sono ricorrenti. E’ un caso?
WVR- No, niente affatto. Mi piace cimentarmi in qualche pezzo rockeggiante perché sono stato e sono un appassionato di rock, ma la ballata è il tipo di canzone che amo di più e che, credo, sia in grado di cantare meglio. Amo molto il suono del sassofono e mi piace inserirlo qua e la in qualche canzone. Quando ne parlai a West non fu molto entusiasta ma il risultato finale è piaciuto a tutti.
RG- Ho letto molte recensioni su di te e in quasi tutte la tua voce viene accostata al nome di Vince Gill, come vivi questo continuo paragone?
WVR- Non so cosa dire, tutto sommato sono contento di essere affiancato ad un grande come Gill, da un lato però credo che chiunque si proponga con vocalità baritonali e toni alti sia destinato inevitabilmente a subire lo stesso paragone. Si tratta di una moda molto diffusa tra i media, appena un nuovo artista entra a far parte dell’industria discografica, si cerca subito di trovare a chi assomiglia.
RG- A proposito di mode, cosa ne pensi della situazione attuale in cui si trova l’industria discografica country?
WVR- Credo sia necessario tornare a guardare alla tradizione, all’importanza delle canzoni, quelle hurtin’songs che hanno fatto la storia della country music. I dirigenti delle case discografiche lo sanno e piano piano mi sembra che si stia tentando di lavorare in tale direzione. Negli archivi delle compagnie di pubblicazioni di Nashville ci sono milioni di canzoni in stile tradizionale che non sono mai state incise, credo che riscoprire quel materiale sia un passo importante da compiere.

RG- Come nasce la tua amicizia e collaborazione con Hank Cochran?
WVR- E’ stato Jim West a presentarmelo. Lui e Hank si conoscono da più di trent’anni, insomma da una vita. Quando l’ho incontrato la prima volta rimasi quasi estasiato. Da allora siamo divenuti buoni amici, legati soprattutto dall’amore per la musica. Spesso mi ha invitato a casa sua dove abbiamo parlato e ascoltato molte della sue canzoni; quella casa è un vero e proprio museo, alle pareti, oltre ai numerosi riconoscimenti per le sue N.1 hit, sono appese foto di Hank con personaggi che sono leggende della musica. Per i miei due album ho potuto utilizzare due sue canzoni e ne sono molto orgoglioso.
RG- Che rapporto hai con il tuo pubblico?
WVR- C’è un fans club e ho anche un sito web che devo dire mi sta dando grandi soddisfazioni, arrivano molti messaggi che riguardano le canzoni e a cui cerco di rispondere, ma la cosa che mi ha colpito di più è che arrivano ordinazioni del disco da posti per cui il costo di spedizione è molto alto. Comunque mi piace il contatto col pubblico a sono molto attento alle loro reazioni.
RG- C’è un momento che ricordi con maggiore orgoglio della tua carriera?
WVR- Circa un anno fa ho fatto da opening act per Bryan White durante un concerto tenuto a poche miglia da casa mia, fu emozionante suonare di fronte ad un vasto pubblico tra cui erano presenti amici e familiari.
Un’altro momento che ricorderò sempre è la prima volta che ho ascoltato un mio brano alla radio, ero in macchina e dovetti fermarmi per l’emozione, una sensazione indescrivibile che ripaga di tutto il lavoro fatto per raggiungere quel risultato.
RG- Hai già progetti per l’immediato futuro?
WVR- Stiamo studiando la possibilità di organizzare una serie di date magari con altri artisti, o come supporto a qualche nome di spicco. Nel frattempo siamo già al lavoro per mettere insieme materiale per un nuovo album, in questo momento stiamo accumulando materiale da ascoltare in ogni ritaglio di tempo disponibile.

Roberto Galbiati, fonte Country Store n. 68, 2003

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