Star del Texas

Già, la musica di Austin… Quasi tutti coloro che a vario titolo, seguono le vicende della musica d’oltreoceano, e tanto più i fans di country music, sanno che Austin è una delle più ricche, originali scene musicali d’America e quindi, con buona pace dei terzomondisti accaniti, del mondo, visto che tutta la musica che amiamo e con cui siamo cresciuti viene proprio da quelle sponde. Ma perché Austin è speciale, o almeno la sentiamo speciale? Perché, si dice che Austin è quello che era San Francisco negli anni ‘60? La prima risposta che mi viene in mente è: perché una di quelle rare alchimie tra casualità, storia e tradizione ha fatto sì che lì più che altrove si ritrovasse e si formasse un’ampia schiera di musicisti di varia provenienza, età e valore, poco o punto inseriti nell’ambiente discografico, e che si dedicassero alle loro musiche preferite con una certa libertà di scelta ed interpretazione.

Nel determinare buone condizioni di partenza hanno contato sicuramente clima e ambiente naturale: il caldo del Profondo Sud-Ovest indubbiamente facilita uno stile di vita rilassato e propenso alla creatività; sul versante poi dell’ambiente naturale, Austin è calata tra le lunghe colline ed i corsi d’acqua dell’hillcountry e la campagna che la avvolge da est. Chi si arrampica su Mount Bonnell vede solo i grattacieli di downtown, la torre dell’Università ed il Capitol sporgere dal verde. Le case, prevalentemente di legno, sono tutte sotto gli alberi ed il Colorado scorre tranquillo aggiungendo a questo quadro il suo colore. Come sottrarsi al fascino del posto, di quell’atmosfera ancora (per poco) da small town rilassata e semirurale, di un ambiente naturale che permette a volpi e tassi di popolare le vie, agli armadilli di razzolare (prudenti) nei parchi ed ai branchi di cervi di spingersi fino ai margini dell’abitato?

Ma il segreto principale della ricetta sta nell’Università: la più grande State University d’America con i suoi 90.000 studenti provenienti da tutto il mondo ha da sempre dato un tono, un indirizzo alternativo all’ambiente sociale tradizionalmente texano e strettamente legato alla cultura locale. Aggiungete a tutto ciò un ambiente economico favorevole alla sussistenza di una comunità artistica, un pizzico di atmosfera messicana per la vicinanza del border ed ecco fatto. Tutti conosciamo le storie dell’Armadillo World Headquarters, di Threadgill’s, degli outlaws degli anni ‘70, di Raul’s, di Antone’s, del Broken Spoke. Sta di fatto che una tendenza iniziata proprio nei primi anni ‘70 con la rivisitazione del country ha portato alla definizione di un modo di fare musica che attraversa tutti gli stili musicali delle radici e che, se pure ha (ancora) il country come primo referente, propone di volta in volta ed a seconda dei gusti dei protagonisti, una musica che, pure in presenza delle contaminazioni più recenti (southern rock, punk, grunge, etc.), pesca a piene mani nei generi tradizionali (blues, swing, rockabilly, tejano, folk, rock&roll) ma soprattutto pone l’enfasi sulla musica suonata, sudata sugli strumenti (avete presente Stevie Ray Vaughan?), cantata con l’anima, goduta per la capacità di riprodurre, pur sempre innovandoli, schemi e stili metabolizzati da sempre di sotto alla Mason-Dixon line.

Da nessun’altra parte del Grande Paese si riscontra meglio che ad Austin la tesi di Bill C. Malone secondo cui il cuore e la musica americana batte e resta nel Sud. Ecco, un po’ per tutte queste ragioni, il Texas, lo Stato più grande del Sud e di relativamente recente urbanizzazione, ed Austin in particolare, sono aree musicali particolarmente rilevanti e tanti musicisti e cantautori di valore prendono casa da quelle parti. O meglio, vi prendevano casa. Sì, perché purtroppo le cose stanno cambiando, proprio di questi tempi.

Per la musica di Austin, le note dolenti vengono battute sul piano del ritorno commerciale, scarso perché il contenuto è eclettico, non chiaramente definibile come ‘genere’, perché troppo legato alla tradizione e perché non presenta i requisiti ‘innovativi’ del pop globale. E’ un contenuto che viene giudicato meno vendibile per valutazioni che mettono in secondo piano la qualità della musica e del musicista rispetto ai canoni dell’estetica prevalente sui mercati internazionali. Simile problema viene oggi dibattuto negli ambienti del cosiddetto roots rock o alt. country o Americana (o come altro lo si voglia chiamare): gli ostacoli per una diffusione ampia del grande patrimonio di creatività che si è accumulato negli ultimi dieci anni a partire dalla profonda provincia americana e che sembra prendere spunto una volta di più dalle radici della tradizione sono (proporzionalmente) il predominio su market e media dell’establishment di Nashville ed il pop/spazzatura da MTV (quello che ci tormenta anche qui) attribuito alle grandi corporations della discografia le cui sedi sono le odiate Los Angeles e New York.

Ma, difficile a credersi, per la musica di Austin. il nemico più attuale è paradossalmente lo sviluppo economico. Il 1999 è stato un anno duro. E’ morto Doug Sahm, un musicista-simbolo dell’eclettismo e della vivacità della musica di Austin, ed è stato come un brutto presagio per tutto quanto si riconosceva nei valori e nei tempi che rappresentava. E’ stato sfrattato The Austin Rehearsal Complex, una struttura di sale prova e studi di registrazione. Sono andati ‘out of business’ diversi negozi indipendenti di CD nuovi e usati di prima generazione, tra cui il mio preferito Duval Discs (!). Antone’s è andato ad un passo dalla chiusura per una multa colossale per eccesso di capienza in un’occasione. Ha chiuso l’Hang’em High Saloon per fare posto ad una megasala di biliardi. E’ fallita alla partenza la Sire Records, etichetta dei Derailers, Don Walser e Damnations. Diversi locali storici, come Liberty Lunch, Bates Motel, Steamboat ed Electric Lounge hanno chiuso i battenti, non per mancanza di clienti ma anzi, paradossalmente per l’aumento della popolazione. Infatti, in presenza di uno sviluppo senza precedenti (cento nuovi abitanti il giorno) per l’impetuoso irrompere dell’industria del software, gli affitti e i costi di gestione sono andati alle stelle imponendo la legge del business ad un ambiente (gestori e musicisti) che sopravvivevano accettando i reciproci limiti di domanda e offerta. I depositi fiscali sulle licenze alcoliche hanno fatto il resto causando il fallimento di diversi club.

Ora la musica costa di più ad Austin perché tutto è più caro e c’è da sperare che la situazione non peggiori. Se vent’anni fa una band prendeva un ingaggio di 250-300$ al giorno, oggi per i musicisti quella remunerazione è rimasta uguale mentre tutti i costi sono aumentati. Quella che era una città ‘a misura di musicista’ oggi rischia la disaffezione. Già diversi musicisti si sono spostati nei paesini dell’hillcountry, a Kyle, a Buda. C’è un’amministrazione comunale che vuole rinnovare il centro-città, che allo stesso tempo tiene all’immagine di ‘Live Music Capital’ ma che non sembra considerare l’importanza, il fascino e la storia di certi punti di riferimento. Si riproduce insomma l’eterna contrapposizione tra sviluppo economico e tradizioni locali. Bisognerà vedere se verrà trovato il punto ottimale per la sintesi tra tali elementi.

In positivo c’è da dire che se alcuni club sono stati chiusi, altri ne sono nati: si parla di riaprire Liberty Lunch vicino a Stubb’s; ha aperto il Texas Music Saloon in parallelo all’esordio dell’omonimo magazine (consigliabile); c’è stata la rivelazione Lloyd Maines come produttore di talenti e la Cold Spring come etichetta indipendente; sono stati inaugurati i Bubble Studios dove hanno trovato subito rifugio gli esuli dell’ARC tra cui le già note college bands Lil’ Cap’n Travis, SXIP, Kathy Zeigler, Breeders, etc., si sono fatti avanti nuovi nomi come Vallejo Brothers, Goudle, Barkers, Mingo Fishtrap, Fastball (che hanno già avuto un momento dl successo da classifica nel 1997 con il CD All The Pain Money Can Buy), Lucinda Williams, Cory Morrow, Owen Temple, Ed Burleson, Roger Wallace e Jim Stringer. Austin City Limits compie 25 anni e sembra aver trovato le risorse per continuare. Ma in realtà, oggi come oggi nessuno sa prevedere il futuro.

Fabrizio Salmoni, fonte Country Store n. 52, 2000

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