Nato a Birmingham, Alabama, cresciuto a Pasadena, Texas (si considera comunque texano in tutto e per tutto), con periodi trascorsi a Los Angeles e Nashville, il cantante, chitarrista ed autore Dale Watson vive ora ad Austin, ma per identificare la sua musica, è necessario rifarsi a Bakersfield, California, nei suoi giorni di gloria quale patria di gente tipo Wynn Stewart. Buck Owens, Merle Haggard, Roy Nichols, Don Rich, Ralph Mooney e Tom Brumley, artefici del cosiddetto ‘Bakersfield Sound’. “Ho sempre amato il suono chitarristico ed i brani guitar-oriented”, dice Dale ed aggiunge “la gente in Texas li apprezza, forse perché anche Ray Price ha rappresentato un’influenza in questo senso. Credo che sia questo il motivo per cui mi sono trasferito a Los Angeles, per avvicinarmi al luogo dove ha avuto inizio questo movimento di Bakersfield, ma ora le cose sono cambiate. Ho dovuto venire ad Austin per ritrovare il Bakersfield Sound”.
Sul braccio sinistro Dale ha tatuato il ritratto del padre scomparso. Donald Joe Watson era un musicista country della zona di Chicago e nonostante i suoi figli siano stati allevati dalla madre a Pasadena, Texas, tutti hanno seguito le orme paterne (Don ha collaborato a comporre Poor Baby inclusa nel secondo CD Blessed Or Damned). Dale riceve la propria iniziazione all’età di 9 anni, allorquando uno dei fratelli maggiori decide di aver bisogno di un chitarrista ritmico col quale potersi esercitare alla solista; è così che Dale si unisce al loro gruppo di honky-tonk a 16 anni, quando il cantante se ne va.
“Guadagnavo $ 300 alla settimana appena finita la high school, riuscivamo a trovare ingaggi dappertutto, nonostante non fossi certo un prodigio,” rammenta ancora oggi con meraviglia Dale, al ricordo dei giorni del boom petrolifero ed aggiunge ridendo “vorrei poter guadagnare quelle cifre oggi”.
Fino a poco tempo fa il locale di Pasadena chiamato Swinging Doors, dove Dale suona ancora per la stessa gente che lo ingaggiava quando era un ragazzino, aveva ancora nel jukebox una copia del suo primo singolo, registrato da Gilley’s. “Dio mio, è terribile. Mi fa male sentire quella roba. L’ultima volta che sono stato là, ho visto con gioia che avevano sostituito il vecchio jukebox con uno nuovo che funziona a CD”.
Dopo un traballante esordio come solista, Dale comincia a farsi accompagnare da un gruppo chiamato ironicamente The Classic Country Band, che annoverava fra le sue fila un chitarrista blues, un bassista funky ed un batterista jazz – “l’unica volta che mi abbiano mai buttato fuori ad una serata” – e trascorre sette anni suonando a Pasadena. Nonostante i suoi fratelli gravitino ancora da quelle parti, Dale coglie al volo un invito da parte di Rosie Flores e va a Los Angeles, “Sono arrivato là la stessa settimana che lei si è trasferita ad Austin”. Dopo aver suonato per un po’ la chitarra per altra gente, Dale comincia a farsi conoscere in proprio, soprattutto suonando al Palomino, notissimo locale ubicato sul Lankershim Boulevard di North Hollywood, California, ma aggiunge con sarcasmo “L’unica ragione per la quale mi hanno accolto a braccia aperte a Los Angeles è il mio taglio di capelli: credevano che facessi del rockabilly”.
Finalmente Dale riesce a firmare un contratto per due singoli (che usciranno solo in copia promozionale, uno dei quali comprende su entrambi i lati You Pour It On And I Pour It Down, scritta dallo stesso Dale) ed un video con la Curb, l’unica etichetta ‘country’ della West Coast e si sente dire “All’ufficio promozione telefonica nessuno se la sente di scommettere sul tuo successo”.
Oltre a queste parole di incoraggiamento, poco dopo la morte di suo padre ed una settimana dopo aver firmato il contratto con il suo manager Mitch Cohen, Dale rimane coinvolto in un incidente automobilistico, nel quale si frattura gravemente la mano destra. “Ero convinto che per il resto della mia vita non avrei mai più suonato, caso mai avrei scritto delle canzoni e pensavo che Mitch avesse perso ogni interesse in me”. Al contrario Cohen, liquidando l’episodio come “un inconveniente secondario”, manda Dale da uno specialista della mano che gliela ricostruisce dicendogli “Mi pagherai più avanti, con comodo”. “Una vera e propria benedizione; fino ad oggi non abbiamo un contratto scritto ed ho dovuto insistere affinché si prendesse una percentuale sulle mie canzoni. Gli ho detto ‘Non sarò contento fino a quando non accetterai, anche se si dovesse trattare di semplici spiccioli’”.
Da Los Angeles, Dale se ne va a Nashville, dove un funzionario dell’Arista ascolta il suo demo-tape e commenta: “Questo sarebbe stato un successo 25 o 30 anni fa”. In ogni caso, con la moglie gravida, Dale è costretto a diventare un compositore a tempo pieno per una publishing house di Nashville e non ci meraviglia il fatto che ricordi “Stavo impazzendo”. Dopo alcuni mesi ancora a Los Angeles, i pensieri di Dale si rivolgono nuovamente a Austin, dove si era fatto conoscere quando Tom Lewis e Caspar Rawls lo avevano invitato a cantare al loro Buck Owens Birthday Tribute. “Avevo deciso: se dovevo concentrarmi sul mio progetto del gruppo, dovevo trasferirmi ad Austin, ma era il lavoro alla publishing house che mi consentiva di permettermi il lusso di tutti quei concerti che non ti danno da mangiare. Non potevo permettermi di vivere qui diversamente, perché non sono fatto per il lavoro sedentario. Dovevo dedicare il 100% della mia attenzione al mio futuro”.
E’ stato proprio ad Austin che Dale ha cominciato ad attirare l’attenzione in modo costruttivo. L’interesse suscitato in Inghilterra dai suoi demo tapes, lo ha convinto a farli gestire dalla Hightone Records, che all’epoca aveva pubblicato, fra gli altri, gli albums di Jimmie Dale Gilmore e di Rosie Flores. “Non credevo che si sarebbero interessati alla cosa, invece la loro prima reazione è stata quella di volere che registrassi nuovamente tutto il materiale, la qual cosa mi stava bene. Ho inciso il disco Cheatin’ Heart Attack con loro ed ho usato i miei ragazzi, il che rappresentava una delle condizioni che avevo posto, ma loro non hanno avuto obiezioni in proposito”.
Il disco viene quindi realizzato da Dale, coadiuvato dalla sua band di scena, i Lone Stare, che rispondono anagraficamente ai nomi di Dave Biller (chitarra elettrica ritmica e solista e chitarra acustica), Craig Pettigrew (contrabbasso) e Merel Bregante, già con Loggins & Messina (batteria). Dale si impegna alla chitarra acustica ed all’elettrica, sia solista che ritmica, oltre a cantare in modo divino. Fra gli ospiti, da segnalare i nomi di Jimmy Day, mitico steel guitar player texano, Gene Elders al fiddle e Floyd Domino al piano.
Il disco rimane uno degli esordi country più interessanti degli ultimi anni.
Si parte con List Of Reason, con un suono tipicamente, fortemente ed inconfondibilmente hard-core honky-tonk, con dosi abbondanti di steel e di chitarra elettrica solista, con toni quasi twangy, che si riveleranno in seguito essere una sorta di marchio di fabbrica del cosiddetto ‘Watson sound’: non certo sperimentale né innovativo, ma sicuramente accattivante, sincero e fresco.
Caught è uno shuffle che disquisisce imparzialmente sulla classica coppia clandestina che viene sorpresa dall’investigatore privato armato di macchina fotografica in una anonima camera di motel, con il letto sfatto (“.. the tangled sheets smell like sweet perfume/No matter who’s the fault: we’re caught!…”).
She Needs Her Mama è impreziosita da una performance vocale che molto si rifà al grande Merle Haggard e questa caratteristica Dale Watson se la porterà dietro in maniera decisiva fino ad oggi.
Il testo si rifà a situazioni presumibilmente autobiografiche, visto che l’argomento delle reazioni della figlia alla separazione dei genitori ( “…She needs her mama/ but mama don’t need her daddy…”) verrà ripresa più volte anche nei progetti a venire, fino a divenire una costante della sua opera compositiva.
Cambio repentino di registro per la seguente That’s The Day: shuffle in grande evidenza, con la steel che si anima di vita propria sotto le dita esperte di Jimmy Day, mentre la sezione ritmica è precisa come un orologio.
Il title-track risente decisamente del ‘boom-chicka-boom sound’ tipico del grande Johnny Cash, un’altra delle dichiarate influenze di Dale e la voce si adatta di conseguenza. Immediatezza e classe vanno a braccetto con quest’uomo dalla grande voce, anche se la sua stazza ricorda piuttosto un… compatto.
South Of Round Rock, Texas è uno dei motivi per cui questo disco rientra nella mia lista dei classici dieci CD da portarsi sull’isola deserta: western-swing alla grandissima, con tanto di fiddle e chitarra elettrica solista che lavorano di fino, sostenuti dalla solita sezione ritmica.
Tonite, All Day Long deve nuovamente molto alle prestazioni vocali del grande Merle. Tempo di valzer e testo triste, che ricorda con amarezza l’impossibilità di continuare un rapporto che avrebbe ancora molto da dare, se non mancasse la fiducia fra i due.
Merle Haggard viene tirato ancora in ballo – in modo esplicito, questa volta – per la divertente Nashville Rash, sorta di satira del mondo dello showbiz della capitale della musica country.
Analoga citazione anche per il suddetto Johnny Cash, con un riferimento al suo particolarissimo stile vocale e strumentale (si veda anche Tell ‘Em I Ain’t Here).
Riprendiamo la via dello shuffle con Wine, Wine, Wine e ci ritroviamo nell’honky-tonk hard-core country più puro e che decisamente preferisco.
Dischi di esordio come questo ne escono davvero pochi, tanto che al momento riesco a pensare solo al caso di Merle Haggard e di Randy Travis (il prosieguo della carriera è però tutt’altra cosa, caro Randy). Non vi scandalizzi il ripetuto accostamento al mostro sacro Merle Haggard: sono comvinto che Dale Watson sia destinato a diventare ‘the next big thing in country music’.
You Lie riprende il discorso della mancanza di fiducia fra i coniugi, anche se separati, con addirittura la citazione di una improbabile Liar’s Hall of Fame (i testi di Dale Watson meriterebbero uno studio approfondito, ma lo spazio è sempre tiranno).
Holes In The Wall è tanto Cashiana che neppure il vecchio Johnny riuscirebbe a farla tanto simile a se stessa. Arrangiamenti e facezie a parte, siamo di fronte ad un signor esempio di country music, con un signor compositore, un signor esecutore e c’è solo da sperare che anche chi deve valutare artisticamente i risultati di questo disco sia all’altezza della situazione.
Texas Boogie dice tutto già nel titolo: country-boogle tiratissimo, dal vivo è una forza della natura e resta uno dei miei brani preferiti del repertorio di Dale Watson; il problema è decidere quali sono i brani che non mi piacciono!
La conclusiva Don’t Be Angry è firmata da Stonewall Jackson ed è l’unica a non vedere il contributo compositivo del nostro. L’arrangiamento a shuffle la rende comunque logico prosieguo del discorso comune a tutti i brani dell’album, fino ad ottenere un amalgama estremamente omogeneo e gradevole.
In sintesi: un album eccellente, eccezionalmente bello, compatto ed omogeneo; trattandosi di un esordio, c’è di che gridare al miracolo. La stampa, la critica ed il pubblico accolgono calorosamente questo newcomer e Bruce Bromberg, eminenza grigia della Hightone Records e produttore del CD, è giustamente convinto di aver messo a segno un ottimo colpo.
Serve però un anno abbondante di pazienza affinché il team Dale Watson -Bruce Bromberg metta a punto il follow-up di Cheatin’ Heart Attack.
Blessed Or Damned riprende il discorso esattamente dove si era interrotto con l’ultimo brano del primo CD ed è un seguito dannatamente accattivante. La formazione fissa che accompagna Dale in questo album è rimasta immutata, con la sola eccezione di Terry Westbrook che ha sostituito Merel Bregante alla batteria. Ritroviamo Floyd Domino alle tastiere, Scott Walls alla steel guitar e Gene Elders al fiddle, mentre fanno per la prima volta capolino i nomi blasonati di Lloyd Maines alla steel ed alla chitarra acustica e di Johnny Bush, ‘the Country Caruso’, a duettare con Dale nell’epica That’s What I Like About Texas.
Truckin’ Man non ha bisogno di spiegazioni elaborate circa il suo contenuto: musica diretta e con i piedi – naturalmente calzati da stivali Tony Lama o Justin, a scelta – ben saldi per terra. Grande lavoro di steel e chitarra elettrica per un roccioso country-sound che tanto deve anche alle sonorità care al vecchio Dave Dudley, re delle ‘truck driving songs’.
Si rallenta, ma non di molto, per lo scintillante shuffle di Honkiest Tonkiest Beer Joint (ma dove li trova questi titoli?), con atmosfere che non potrebbero essere più coinvolgenti nel tratteggiare il contesto e l’ambiente delle songs di Dale Watson.
Pausa meditativa per il title-track, che disquisisce approfonditamente su quanti tentano la carta di affrontare una vita artistica, rischiando sulla propria pelle un’intera esistenza, le sorti di un affetto o di un’intera famiglia, con esiti quanto mai incerti ed aleatori. L’ombra vocale di Merle Haggard è fortemente presente nel corso di tutta la canzone, soprattutto nella strofa che recita “…there’s a troubadour in a beer joint/and he’s singin’ to empty chairs and his empty cans/no it ain’t hard to figure out/who’s blessed or damned…”.
Secondo l’abitudine ormai consolidata, il brano seguente risulta completamente diverso: up-tempo gradevolissimo dunque per Cowboy Lloyd Cross, dotata di un drumming incalzante e di un grande lavoro di steel guitar e pianoforte. Dale canta con voce decisa e sicura, con un piglio che farebbe invidia a tanti performers ben più affermati di questo smilzo personaggio.
A Real Country Song si adatta perfettamente all’analisi che, a suo tempo, aveva frettolosamente formulato l’oscuro funzionario dell’Arista Records, circa il fatto che lo script di Dale fosse marcatamente datato. Abbiamo a che fare con i ricordi radiofonici dell’infanzia di Dale, con l’orecchio incollato allo speaker del vecchio apparecchio di casa, intento a ricevere il segnale della stazione WSM di Nashville, che trasmetteva il famoso programma Grand Ole Opry, quindi della stazione KIKK direttamente dal Texas. Un’invocazione di Dale indirizzata al disc-jockey in questione, affinché programmi una canzone che sia davvero country, con suggerimenti che vanno da (Merle) Haggard a George Jones, da Loretta (Lynn) a Conway (Twitty), senza dimenticare Bob Wills. Musicalmente la struttura è estremamente lineare, con accenni di shuffle qua e là; in estrema sintesi: eccezionale.
Arriviamo così allo swing partorito a quattro mani dagli Watson Brothers (Dale e Don) nella struttura fortemente country di Poor Baby, brano al quale Dale è talmente legato da farsi tatuare titolo ed accordi sulle braccia, che mostra sempre con orgoglio.
It’s Over Again ci rituffa nelle atmosfere tristi della separazione fra due genitori e delle conseguenze che si ripercuotono sulla bambina, mentre Fly Away ci proietta nel country-gospel più ottimistico e scoppiettante, con ottima chitarra elettrica, batteria e steel, il tutto condito da supporti vocali femminili azzeccati.
It’s All Behind Us Now, firmata da tre quarti della band, risente (oltre che dell’ombra di ‘The man in black’) di una ‘nuova’ influenza, sia a livello compositivo, che esecutivo, la quale si evidenzierà maggiormente in seguito: Waylon Jennings.
Arriva così anche il duetto con il grande Johnny Bush, per una song che potrebbe essere il manifesto sonoro di Dale Watson, vostro, mio e di centinaia di altri ammiratori dello stato della Stella Solitaria: That’s What I Like About Texas. Composta a quattro mani dallo stesso Dale e dal grande Chris Wall, si rivela uno shuffle-swing eccezionale, con abbondanza di citazioni geografico-musicall texane: andatevele a scoprire ascoltando in prima persona.
Rallentamento prevedibile di ritmo per Everyone Knew But Me, amara riflessione sulla realtà dei fatti, nota a tutti meno che all’interessato. Ancora una volta l’argomento della fiducia mal riposta riaffiora nelle composizioni di Dale Watson. “Non lasciamoci andare troppo alla malinconia…” sembra suggerire Dale proponendoci di seguito questa Sweet Jessie Brown che molto deve al classico Gentle On My Mind, con quel suo andamento dolcemente country-folk. Grande voce e grande song (ma non ne sbaglia neppure una?). Country-boogie rallentato in stile anni ’50 invece per Truckstop In La Grange. Dal vivo il brano risulta eccellente, con i riferimenti prettamente ‘camionistici’ che sono disseminati nell’arco di tutto il brano. Dale è in grande forma alla solista elettrica ed il breve a-solo centrale è un pezzo notevole.
L’album si chiude, dopo ben tredici brani, con una ballata acustica dal titolo Shortcut To The Streets Of Gold. Grande atmosfera Christian-oriented e voce stupenda.
Questo secondo album, oltre a confermare l’eccellente caratura del personaggio, abbondantemente superiore alla media, sottolinea la personalità della proposta artistica di Dale Watson e ci fa ben sperare per il futuro.
Arriviamo così ai giorni nostri: verso la metà del Maggio 1997 esce il terzo album di Dale, che si intitola I Hate These Songs. E’ ancora l’etichetta Hightone a dare al nostro piccolo/grande eroe la fiducia ed i mezzi per realizzare forse il più bello – almeno fino ad oggi – dei suoi dischi. Registrato, come il precedente, al Pedernales Studios di Spicewood, Texas, di proprietà di tale Willie Nelson, con i suoi fidi Lone Stars, nelle persone di Redd Volkaert (chitarra solista elettrica ed acustica), Preston Rumbaugh (contrabbasso), Dennis Vanderhoof (batteria ed harmony vocals) e Ricky Davis (steel guitar), con Lloyd Maines (chitarra acustica, steel e Lloydobro), Gene Elders (fiddle), Floyd Domino (tastiere) e Marty Muse ed Herb Steiner (pedal steel) nei panni di ospiti, anche questo CD rientra nella fatidica lista di quelli da portare sull’isola deserta. Un’ariosa ballata con bella steel in apertura e grande voce ci prende per mano e ci invita ad entrare in un bar che ha conosciuto tempi migliori, il Jack’s Truck Stop & Cafè.
Wine Don’t Lie non è andata oltre i due secondi di ascolto la prima volta che l’ho sentita: a quel punto stavo già togliendo il CD dal lettore sul quale l’amico rivenditore l’aveva appena poggiato per farmi dare… ‘un orecchio’ al prodotto in questione. Uno shuffle come se ne sentono pochi, con la voce che rammenta moltissimo il grande Merle. Uno dei tanti punti di forza dell’album.
Hair Of The Dog è invece più vicina a certe sonorità tipiche della produzione di Waylon Jennings, sia per le soluzioni vocali, che per quelle strumentali (soprattutto per la batteria e per la ritmica molto secca).
Il title-track è una recitazione che richiama ancora le ballate più introspettive del solito Haggard.
Si sprecano le citazioni relative ai grandi classici che hanno fatto la storia della musica country; ne ricordiamo alcune: Silver Wings, Oh Lonesome Me, Crazy, Four Walls, He Stopped Lovin’ Her Today, Funny How Time Slips Away (corredata dell’inconfondibile intro di chitarra solista), Born To Lose, Am I Losing You... Un altro piccolo grande capolavoro.
That’s Pride Dale ce l’ha dedicata espressamente nel corso del concerto di Bad Ischl, piacevolmente sorpreso dalle nostre citazioni del testo del brano (“…I love real country music, I love Texas and I love my mama….). La song in questione ha un piglio completamente diverso da quella precedente: zampettante up-tempo con la batteria che sdoppia il ritmo, mentre la chitarra elettrica e la steel duettano all’ultimo sangue: da ascoltare a ripetizione.
I Won’t Say Goodbye ricorda ancora Waylon per la ritmica decisa della batteria e del basso, che scandiscono gli amari ricordi del tempo passato insieme e che il nostro uomo non ha evidentemente ancora cancellato. Sull’onda di una chitarra malinconicamente ‘twangy’, riaffiora per l’ennesima volta la preoccupazione per l’effetto della separazione sulla figlia ancora piccola (“…we can live our lives together/we can live our lives apart/we can raise our little angel/or we can break her little heart…”), da qui il convincimento della autobiograficità del racconto.
L’anima texana di Dale torna a prendere il sopravvento con la swingata Leave Me Alone, con la infaticabile steel guitar del ritrovato Herb Steiner che contrappunta la voce. Un altro centro garantito.
No, non è Merle Haggard a duettare con Dale in I Think Of You: è lo stesso titolare che si cimenta in una ballata delicatamente adagiata su di una languida steel che reagisce ubbidiente al tocco sapiente di Ricky Davis.
Take A Look At Your Neighbor rappresenta liricamente un inno all’ottimismo più esplicito ed all’altruismo più disinteressato, mentre l’ambientazione musicale è prettamente swing, con il solito eccellente lavoro di steel (sempre Ricky).
Country-blues autobiografico sul solito argomento famigliare per Life Is Messy: “…we’re proud parents of a beautiful baby girl/she’s the only thing connecting our two worlds/Now you’ll go your way and I’ll go mine/we meet in the middle when it’s baby’s time/It just ain’t right, it ain’t the way it ought to be/life is messy and livin’ it’s killing me…”.
Che dire poi a proposito di Ball & Chain (“She thinks her home is like a prison/and can almost see her walls closin’ in /and every day she feels has been wasted/all the things in life that might have been…/Just a girl, young and dreamin’/until I came along/now the years passed and two kids later/she stili blames me her dreams are gone/ ‘Cause I’m the man who loves that woman/who hates the very thought of me/and I’ve become someone unwanted/and always haunting: ball & chain…”) senza correre il rischio di ripetersi, sia a livello musicale – Haggard non potrebbe farla meglio – che a livello di contenuti – la rottura irreparabile fra marito e moglie.
Decisa virata di rotta verso lidi messicani con Count On You, con l’acustica solista in mano al nuovo acquisto dei Lone Stars, Redd Volkaertl.
Ci si avvicina al termine del disco (contiene ben quattordici brani) e lo shuffle di Pity Party ci piace moltissimo, supportato dalla steel guitar, che riempie gli intervalli del cantato.
Omaggio quasi sfacciato a Johnny Cash per il brano di chiusura. Hey Driver è la copia-carbone di Hey Porter, con lo stesso ‘Boom-chicka-boom sound’ e lo stesso tono di voce. La performance non risulta però irrispettosa, anzi denota la profonda considerazione e stima che Dale Watson nutre per il grande ‘Man in Black’ e per quanti hanno tracciato la pista che oggi è seguita da tanti giovani artisti country di belle speranze. Il suono del clacson di un vecchio ‘eighteen-wheeler’ e la voce gracchiante del CB concludono in modo decisamente ‘stradaiolo’ questo eccellente album e confermano – ma non ce n’era alcun bisogno – che il cielo texano è più luminoso da quando in giro ci sono Dale Watson & His Lone Stars.
Dino Della Casa, fonte Country Store n. 38, 1997