Ho sempre stimato e rispettato Dave Van Ronk (1936-2002) per le sue inesauribili possibilità vocali (ugola affinata da tabacco ed alcol), per la noncuranza e la naturalezza del suo fingerpicking, sempre comunque efficace ed inimitabile (è stato uno dei primi interpreti di interi brani storici ragtime trasposti su chitarra), per il suo contributo solo apparentemente modesto, se paragonato alle parabole ascendenti dei suoi amici e colleghi Bob Dylan, Tom Paxton, Joan Baez, Patrick Sky, Ramblin’ Jack Elliott, Phil Ochs, Guthrie Thomas, ecc ecc., alla scena folk nordamericana degli inizi.
Van Ronk è uno di quegli artisti urbani che, giunto puntuale ed addirittura in anticipo alla stazione del Greenwich Village, per qualche inspiegabile motivo ha perso la coincidenza col treno del folk revival degli anni Sessanta e per tutta la seconda parte della sua vita ha tentato di inseguirlo aggrappandosi magari al fanalino di coda. Ci ha lasciato una discografia enorme con uno stupefacente repertorio che in pratica contempla tutti i generi acustici e semiacustici squisitamente americani a partire dagli anni Venti e lo ha interpretato con una verve, una serietà, una preparazione ed una passione difficilmente eguagliabili. Se siete interessati cercate i suoi albums su Prestige, Folkways e Fantasy, ma soprattutto non fatevi scappare il gioiello Sunday Street del 1976, il suo testamento artistico, su etichetta Philo (ristampato in CD dalla Rounder).
Pierangelo Valenti, fonte Suono, 2012