Dave Van Ronk

Washingotn Square era il baluardo estremo di una cittadella chiamata Greenwich Village. Scendendo per MacDougal Street si incontrava il Folklore Center, bazar di Izzy Young, quartier generale dei folksingers che vi trovavano libri e dischi, strumenti musicali, impresari, scritture e appassionati affamati di gloria e novità. E poco più in giù c’era il Gaslight. Girato l’angolo di Bleecker Street, si affiancavano The Bitter End e The Other End, proprio in faccia al Cafè Au Go Go. Il Serdes Folk City di Mike Porco era più decentrato rispetto al fitto agglomerato di clubs, bar, coffeehouses, ristoranti e teatri. Ma tutto era raggiungibile in un battibaleno, in quell’autentico polmone culturale di New York City.
E’ giusto cominciare da Washington Square, parlando di Dave Van Ronk, perché qui egli imboccò la sua strada per Damasco, convertendosi al blues e al folk, da uomo di jazz che era, qualche anno prima che si illuminassero le luci del Village e di tutti i suoi leggendari shows. Era disceso da Brooklyn, dove era nato nel 1936. La testa piena di Dizzy Gillespie e Charlie Parker.

Amava il jazz tradizionale e aveva suonato il banjo tenore in piccole orchestre come The Brute Force Jazz Band o Eric Heystad’s Jazz Cardinals per cinque o sei anni. Frequentava il Jazz Record Center, Quarantasettesima Strada, dove i dischi di jazz erano mischiati a quelli di blues.
Ma l’interesse per quel tipo di musica si era affievolito verso la metà degli anni ’50 e sbarcare il lunario con le risicate tariffe sindacali non era una prospettiva incoraggiante per il suo futuro di musicista. Perché tale Dave aveva deciso di essere e per questa ragione la Richmond Hill High School era stata abbandonata per sempre. Washington Square era diventato un punto di raccolta di musicisti fino dalla fine della guerra. Al termine degli anni ’50 i folkies vi convergevano e davano luogo ai cosidetti ‘hootenannies’, esibizioni in libertà, nate soprattutto dal desiderio di divertirsi e offrirsi a pubblici occasionali. Il folk era per Dave un pianeta nuovo sul quale approdare, esaurita la spinta e la parabola della ‘beat generation’.

Certo, i beatniks odiavano la musica tradizionale, i suoni vellutati e gentili. A loro piacevano il cool jazz, il bee-bop, le droghe pesanti, come Van Ronk ebbe a dire. Ma l’attrazione per la musica dei padri e il blues dei neri era prepotente e il fermento attorno a Washington Square irresistibile come una calamita.
Da quelle parti, la domenica, si poteva incontrare il violinista Alan Block, Harry Belafonte o Pete Seeger. Giravano tipi diversi di musica e Dave come gli altri, tutto assorbiva. Tutti conoscevano ed erano fortemente influenzati dall’Anthology Of American Folk Music di Harry Smith, una bibbia antologica in vinile che Moses Asch aveva pubblicato per la Folkways, con esempi di cajun, blues, OTM e musica sacra che erano già usciti su 78 giri fra il 1920 e il 1943. Vi suonava gente come Uncle Dave Macon, Mississippi John Hurt, Blind Willie Johnson e Lemon Jefferson.

I frequentatori di Washington Square non avevano grandi possibilità di esibirsi in locali, ma c’era il Caricature, una piccola coffeehouse con una stanza sul retro, dove si poteva suonare, cantare, scambiare materiale.
E c’era il Playhouse di Sullivan Street dove i più fortunati potevano esibirsi per una ventina di minuti. Le stelle si chiamavano Paul Clayton e Logan English e i clubs con i loro fasti erano ancora da venire. Dave possedeva una voce sensuale, aspra, dai timbri potenti. Essa gli aveva guadagnato la possibilità di cantare in qualche gruppo. Riusciva ad esibirsi anche senza microfono e dimostrava di possedere grinta e temperamento fuori dal comune. Sulla chitarra, (per il banjo aveva maturato un rapporto odio-amore) diventata una compagna inseparabile, aveva scoperto la tecnica del finger-picking, con il pollice destro che teneva il tempo come avrebbe fatto la mano sinistra sul pianoforte e l’indice assieme alle altre dita ad impostare la melodia. Col finger-picking si poteva fare a meno di un gruppo.

Egli aveva sempre ammirato ogni tipo di tastiera e nei confronti della chitarra aveva cercato un approccio quasi pianistico. Questa è la ragione per la quale slide e bottleneck non appartengono alla tecnica di Van Ronk.
La musica tradizionale americana era diventata per lui un forte polo di attrazione. Non solo Guthrie, Cisco Houston e Burl Ives, non solo melodie antiche come quella Sprig Of Thyme che aveva imparato dalla nonna, ma la musica dei neri ispida e sanguigna, la regina Bessie Smith, il magniloquente genio di Jelly Roll Morton, Blind Boy Fuller, Scrapper Blackwell, Snooks Eaglin e su tutti, più ancora del mistico Josh White, il Rev. Gary Davis, uno dei suoi eroi dichiarati. Dave ebbe modo di incontrarlo e di entrarvi in familiarità. Dal suo finger-picking ritmico, percussivo, egli mutuò moltissimo e passò ore davanti alla ribalta per approfondire la sua tecnica, senza ricevere comunque un insegnamento personale.
In ambito più squisitamente folk, Paul Clayton, uno dei balladeers più attivi lungo tutti gli anni ’50, folklorista insigne e raccoglitore di antiche melodie, fu un’influenza decisiva e successivamente lo sarebbe stato per Dylan. Da Clayton Van Ronk conobbe la splendida Duncan & Brady.

Forte di tutti gli stili che in Washington Square aveva assorbito come una spugna, Dave arrivò nel 1959 ad incidere il primo disco per la Lyrichord, con brani pescati dal catino della musica afro-americana. Sarà sempre più un interprete che un compositore. Nella sua pur vasta discografia sfileranno covers di tutti gli amori: dal ragtime, Scott Joplin, dalla citazione del comedian nero Bert Williams, ‘black-face del vaudeville show’, fino a Brownie McGhee, Guthrie, Dylan, Paxton e naturalmente, l’adorata Joni Mitchell.
La sua conversione al blues già incoraggiata da Odetta nel 1957 porterà a dischi di ottima fattura, sotto l’egida della specialista etichetta Folkways. Poi la triade che è considerata come l’apogeo della sua produzione: Folk-singer del 1963, In The Tradition e Inside Dave Van Ronk del 1964, tutti per la Prestige.
Si va dai blues viscerali dei primi due albums al ripiegamento lirico verso le radici della cultura popolare americana, le ballate. Da Hesitation Blues, da Kansas City Blues, a Sprig Of Thyme, a House Carpenter, a The Cruel Ship’s Captain. Van Ronk è ormai l’eminenza di quel Village che è cresciuto nel suo pullulare di locali come una città di cercatori d’oro. Ne è l’indisturbato e riverito leader, guida e guru.

Ha tirato su Dylan ospitandolo nel suo appartamento, gli ha organizzato tramite la moglie Terri, ingaggi per concerti e ha esercitato sul pupillo un’enorme influenza. Il rapporto tra i due artisti conoscerà momenti di alterna serenità, poiché Van Ronk non risparmierà recriminazioni sull’individualismo opportunistico dell’ingrato vate. Continui cambiamenti di etichetta, fondazioni di fugaci gruppi come i Ragtime Jug Stumpers insieme al produttore Sam Charters, partecipazione al Festival di Newport ed esibizioni distribuite in maniera non molto regolare caratterizzano i ‘sixties’ di Dave.
Il primo amore per il jazz non è perduto per sempre e talvolta affiora all’interno di un repertorio tanto più eclettico quanto più efficace. La sua voce potente, aggressiva, si arricchisce di irrepetibile espressione, il picking sulle corde è sempre più vigoroso e sofferto. Ma gli anni ’70 con l’edulcorarsi dei conflitti sociali e la nuova popolarità dei cantautori melodici, simbolo su tutti potrebbe essere un James Taylor, ridimensionano il suono del folksinger ‘puro’ e lasciano scendere una patina di fatale polvere sulla favola del Greenwich Village.

Dave Van Ronk, come molti altri, risente di questo mutar di vento e pur non eclissandosi, rarefa le sue apparizioni in pubblico. Continua a pubblicare dischi per etichette come Polydor, Cadet, Philo e nel 1974 è a fianco di Dylan e di un Phil Ochs alla fine, prima del suo insano gesto, per testimoniare sul palco la protesta contro il colpo di stato in Cile. Dave oggi è ancora sulla strada, la sua voce è diventata un lacerante grido dell’anima, si è fatta ghiaiosa, spezzata.
L’abbiamo ascoltata recentemente in Wanderin’/Nobody Knows When Ye’re Down And Out, brano di Lifelines ultimo disco dei riformati Peter Paul & Mary (1995), gruppo di cui Dave avrebbe potuto anche far parte secondo le intenzioni di Albert Grossman. Ascoltare quella voce ha risvegliato un brivido antico. Ma più che sulle pietre di Washington Square, più che nei fumosi locali del Village, mi piace pensare al vecchio Dave insieme all’amico e collega Geoff Muldaur a Wortham, Texas, chini sulla tomba di Lemon Jefferson. “See that my grave is kept clean” aveva raccomandato il glorioso bluesman e Geoff aveva pensato di eseguire quella volontà. E Dave rimpiangeva che quell’idea non fosse venuta a lui.

Francesco Caltagirone, fonte Out Of Time n. 14, 1996

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