Con questo Big Road è come se David Bromberg ci avesse invitato a salire su una macchina del tempo per catapultarci indietro negli anni a quei fantastici anni Settanta che hanno visto il polistrumentista di Philadelphia quale protagonista della scena musicale, purtroppo non coi giusti meriti. Ma questa è un’altra storia. La storia bella è questo nuovo album, inciso sempre per la Red House e prodotto da Larry Campbell che segue di 4 anni The Blues, The Whole Blues And Nothing But The Blues (Il Blues n. 137), altra prova particolarmente riuscita concentrata sulla black music.
Oggi – come ai vecchi tempi – invece il settantaquattrenne Bromberg ci mette al cospetto di un album che affronta un po’ tutte le sue grandi passioni, ovvero le musiche popolari statunitensi, siano esse di origina bianca quanto nera. E lo fa, come sempre, con arguzia, con la giusta scelta dei brani e – non ultimo – con i perfetti compagni di avventura, proprio come faceva un tempo, quando soleva avere al suo fianco strumentisti incredibili per creare un suono che sapesse rispettare la musica delle origini. Bromberg è un chitarrista sopraffino, dotato di un tocco unico. Uno di quelli che sono l’antitesi del ‘super tecnico’ che va di moda oggi, ma che proprio grazie alla sua non impeccabile perfezione riesce a dare alla sua musica quel valore che la eleva alla massima potenza, rendendola vera, sincera, umana. E, poi, quella voce che riconosci subito e che sa coccolarti come poche.
Big Road di Tommy Johnson, che apre le danze, è un blues con tanto di fiati dove i bravissimi Birch Johnson, Jon-Erik Kellso, Matt Koza e Bob Steward assieme alle tastiere di Dan Walker si affiancano ai ben collaudati Campbell, Nate Grover (mandolino, violino e chitarra), Mark Cosgrove (chitarra e mandolino) e alla sezione ritmica di Josh Kanusky (batteria) e Suavek Zaniesienko (basso). Con Lovin’ Of The Game entriamo in territorio country, quasi il treno della David Bromberg Band avesse deciso di fare una fermata alla stazione di Manassas. Bellissimo brano di Pat e Victoria Garvey con la pedal steel di Campbell in grande evidenza.
Ancora un blues, questa volta un bel lento a nome Just Because You Didn’t Answer (Thom Bishop) con bellissimi intrecci chitarristici, prima di ritornare in un saloon pieno zeppo di ballerini con tanto di Stetson sulla testa ad omaggiare 3 grandi della country music con George, Merle & Conway (Jones, Haggard & Twitty). Mary Jane è una delicata ballata acustica come solo il nostro sa fare, una perla arrivata dagli anni della Columbia University dei primi anni ‘60, mentre Standing In The Need Of Prayer è un magnifico gospel di quelli tutti in chiesa intorno ad un solo microfono e che l’arte faccia la sua parte.
The Hills Of Isle Au Haut di Gordon Bok è una bellissima folk ballad e apre il trittico che definirei clou di tutto l’album, infatti con la seguente Maiden’s Prayer, Blackberry Blossom, Katy Hill ci regala una vera perla di acoustic music, degna del miglior Bromberg e, a chiudere questo trittico, una strepitosa, lunghissima versione di Diamond Lil, che arriva da quel capolavoro che era Demon In Disguise del 1972. Si torna alla normalità con Who Will The Next Fool Be?, un bel blues scritto da Charlie Rich, ma che ebbe successo nella versione di Bobby Blue Bland e che gioca molto sull’uso dei fiati. Dal carcere ove era rinchiuso Leadbelly scrisse Take This Hammer, qui in versione bluegrass. Chiude Roll On John, un sentito omaggio al grande John Herald che gli aveva insegnato questo brano. Non aggiungerei altro se non un sentito consiglio all’acquisto. Per la cronaca esiste anche una versione con DVD.
Red House Records (USA) (Folk, Blues, Traditional Country, 2020)
Antonio Boschi, fonte Il Blues n. 137, 2016