Riprendiamo il discorso con Derek Trucks, in un ideale prosieguo dell’intervista apparsa nel nostro numero 138, con l’uscita del nuovo lavoro, il quarto in studio della Tedeschi Trucks Band, che in aprile tornerà in Europa, con due tappe italiane, Milano e Trieste. La conversazione con lui scorre piacevole e mai banale e pur nel breve tempo a nostra disposizione si ha ogni volta la percezione della sua eccezionalità, umana e musicale.
Come racconteresti Signs?
Credo sia un disco in cui sono confluite tanti elementi. Abbiamo cominciato a lavorarci poco dopo un periodo particolare, le morti di mio zio, Col. Bruce Hampton e Gregg Allman. Ci sono molti sentimenti personali che lo pervadono, di perdita sì ma credo anche di ‘luce alla fine del tunnel’. Non è stato un disco facile, ma è stata a suo modo un’elaborazione di quello che è successo, per poi riprendere la strada.
Il disco è dedicato a Col. Bruce Hampton, figura faro del southern rock, con cui hai suonato fin dall’ adolescenza. Tu e Susan eravate lì la sera della sua scomparsa, durante il concerto celebrativo per i suoi settant’anni.
E’ stata una cosa che davvero non avevo mai vissuto e spero di non rivivere. Il Colonello è stato un mentore per me, un carissimo amico che ha significato molto per tutta la nostra famiglia. Quella sera ad Atlanta era circondato da musicisti, amici cui era legato, ed erano tutti venuti a festeggiarlo. L’unica cosa che mi conforta è proprio questa, che se ne sia andato alla fine della festa in suo onore, facendo quello che amava.
The Ending, l’ultima canzone del disco, parla di quel giorno.
Ci siamo trovati io, Susan e Oliver Wood, abbiamo scritto il pezzo insieme, abbiamo buttato giù quindici o venti versi, pensando al Colonnello, alle tante storie che raccontava, al tempo trascorso insieme, è stato catartico. Abbiamo acceso un microfono e finito per inciderla ma non era qualcosa che pensavamo di includere nel disco, era giusto per tenere traccia di tutte le sensazioni che avevamo accumulato. Ma quando l’abbiamo riascoltata ci siamo accorti che toccava le nostre emozioni in modo profondo e senza filtri. Abbiamo anche pensato di inciderla di nuovo ma poi abbiamo capito che era quella la versione definitiva. Mi riporta ad un momento cui non vorrei tornare, ma al tempo stesso sono contento che abbiamo preso la decisione di metterla nel disco. Credo che il Colonnello lo meritasse. In un certo senso quando finisci di ascoltare il disco ci si ritrova a pensare a lui.
Quanti anni avevi quando hai cominciato a suonare con lui.
Undici o dodici al massimo. Mi ha cambiato la vita, era il tipo di persona che quando incontrava un giovane musicista o chiunque fosse ricettivo gli faceva scoprire, al momento giusto, musica che pensava fosse importante. Riusciva a capire quando eri pronto. Mi orientò su Son House, Bukka White, Sun Ra, John Coltrane…gli devo molto.
Ricordi una session, credo proprio attraverso Col. Bruce Hampton, con CeDell Davis, per il suo disco The Best Of su Fat Possum /Capricorn?
Oh certamente! Ci siamo conosciuti bene con CeDell e siamo rimasti in contatto nel corso degli anni. Abbiamo suonato con lui persino qualche tempo prima che morisse, ha aperto un nostro concerto qualche anno fa. Era un tipo straordinario, per me in qualche modo era l’incarnazione del vero blues. Aveva avuto una vita dura, la polio…e nelle sue condizioni molti non ce l’avrebbero fatta, si sarebbero arresi, figuriamoci poi suonare. Eppure lui lo faceva e in modo e a dir poco non convenzionale, ma incredibilmente diretto. Aver suonato con lui è una di quelle esperienze che non dimenticherò mai e per le quali mi ritengo fortunato. Il Colonello mi aveva parlato spesso di lui, mi diceva che era il chitarrista più particolare del mondo. E quando lo vidi la prima volta capii che aveva ragione! Anche uno come Ornette Coleman era stupito da lui. Quando suoni con qualcuno a volte ti chiedi, “cosa significa, cosa sta cercando di comunicare”, con CeDell invece no, era puro istinto e quando suonava sapeva esattamente cosa stesse facendo. Anche negli ultimi anni, sebbene non riuscisse più a suonare, cantava con tutto sé stesso. Ed era una bella persona, un tipo interessante, quando ti parlava ti guardava fisso negli occhi. Era davvero speciale e unico. Come del resto il Colonnello.
Per il nuovo album avete registrato su nastro, cosa ha comportato?
L’intero processo di registrazione, incidendo su nastro, è più lento ma il suono è molto migliore. Diciamo che questa modalità ha reso il gruppo più focalizzato sul momento, non ci sono paracaduti e ogni performance deve avere un significato. Ma il grosso degli accorgimenti necessari è stato soprattutto in fase preparatoria, con il nostro ingegnere del suono Bobby Tis e Jim Scott per mettere a punto il settaggio dei registratori. Poi una volta che la band è arrivata in realtà non ci ha messo molto per adattarsi, dopo aver risentito la prima canzone che abbiamo inciso tutti erano entusiasti. Il vinile poi suona ancora meglio.
Come avete lavorato in fase di scrittura? Cosa è cambiato rispetto al primo album della band, Revelator?
Credo che col passare del tempo abbiamo interiorizzato, come gruppo, tutti i momenti della lavorazione di un disco. Fa eccezione Doyle (Bramhall II ndt) che è un nostro amico e quasi un membro aggiunto, per cui è naturale che ad ogni disco passiamo qualche giorno insieme ed io, lui e Sue scriviamo qualche pezzo. Ha finito anche il suo ultimo disco nel nostro studio. Mike ha sempre delle grandi idee e Sue ha scritto un paio di canzoni molto belle, ad esempio When Will I Begin. All’inizio erano due canzoni distinte che abbiamo arrangiate come un unico pezzo e credo che il risultato sia davvero all’altezza. Forse è tra i momenti che preferisco dell’intero disco.
Avete inciso altro materiale che poi non è finito sul disco?
Ne abbiamo incise in totale diciassette o diciotto e poi abbiamo scelto quali includere, riducendole a undici. Ce ne sono almeno un paio che ci piacevano molto e che magari continuiamo a suonare dal vivo e tuttavia non hanno trovato posto sull’album. Sono scelte difficili e a volte le più ovvie non sono quelle giuste, ma credo che queste canzoni abbiano un equilibrio tra elementi sociali e personali. Da un lato che ne sono alcune come All The World, che riguardano cose che succedono ovunque, non si riferiscono ad una situazione specifica ma toccano situazioni diverse. Altre invece scavano in emozioni molto personali.
Nel corso dell’intervista precedente avevi parlato del contributo del bassista Tim Lefebvre, ora chi lo sostituirà?
Da inizio dicembre, quando abbiamo saputo che Tim avrebbe lasciato la band, ci siamo guardati intorno, abbiamo invitato qualcuno a provare nel nostro studio e alla fine abbiamo scelto Brandon Boone, che è in tour con noi adesso. E’ un ragazzo giovane, ha solo ventiquattro anni, però già quando era al liceo suonava con Col. Bruce Hampton. Il primo giorno che è venuto si è capito subito che c’era del potenziale che meritava di essere esplorato. Tim è stato grande e con lui la band è cresciuta molto, il basso è un ruolo chiave nel gruppo. Ma nonostante sia con noi da poche settimane con Brandon si è creata una bella chimica con tutti, forse perché viene da esperienze simili. Di certo ha buone orecchie e qualità tecniche, ma in una big band come la nostra è importante che chi arriva si integri e quando vedi tanti sorrisi intorno e ancora tante strade aperte, è senz’altro un buon segno. E’ una fase che avevamo già attraversato in passato quando Oteil (Burbridge ndt) lasciò il gruppo, prima di stabilizzarci con Tim abbiamo avuto diversi bassisti ospiti, alcuni di grandissimo valore come George Porter Jr, tra l’altro persona fantastica e musicista leggendario. Questa volta forse siamo stati fortunati e abbiamo trovato fin da subito quello giusto.
Lo scorso anno se ne sono andati artisti come Aretha Franklin, Otis Rush o Clarence Fountain…che tipo di riflessione ti induce?
In primo luogo, penso che non ci saranno più artisti così, è impossibile rimpiazzarli…non ci sarà un’altra Aretha, un altro B.B. o un altro CeDell. Guarda alle loro vite, da dove sono venuti, le condizioni in cui sono cresciuti e che li hanno resi ciò che erano, ora non ci sono più. Il mondo è cambiato. Penso che sia importante onorare la loro musica nel modo più onesto, andare sul palco ogni sera con questo in mente. Magari c’è una ragazzina nel pubblico che ti vede e le viene voglia di cantare e suonare. Sai una delle ragioni per cui c’erano così tanti grandi musicisti un tempo è questo tipo di ispirazione, vedevano suonare qualcuno dal vivo e volevano essere come loro. Ed è una responsabilità che una band come la nostra sente molto, quella di portare avanti anche una piccola parte della torcia e passare un po’ della sua luce agli altri.
Con sinistra sincronia, il 15 febbraio scorso in coincidenza con l’uscita di Signs, un altro lutto ha colpito la grande famiglia orbitante attorno a Derek e Susan, se ne è andato Kofi Burbridge. Tastierista e flautista dal talento luminoso e multiforme, fratello maggiore di Oteil (bassista con gli Allman Brothers), Kofi entrò a far parte della Derek Trucks Band nel 1999 ed è stato un perno insostituibile della Tedeschi Trucks Band, responsabile di molti arrangiamenti su disco come dal vivo. Al di là della sua unicità come musicista, il vuoto umano che la sua scomparsa lascia, resterà per tutti quelli vicini al gruppo, crediamo, incolmabile, anche se, come hanno scritto Derek e Susan, “Kofi farà sempre parte di noi”.
Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 146, 2019