Leggendo ogni numero di Country Store trovo molto interessanti le notizie riguardanti quegli strumenti che hanno fatto e che tuttora fanno la storia della musica che più ci piace, la country music. Allo stesso tempo però mi dispiaceva un pó il fatto che nessuno mai parlasse, anche in maniera sintetica una volta ogni tanto, della batteria, ed è forse per rispondermi un pó da solo che ho deciso di scrivere queste righe sull’argomento, senza però avere avuto inizialmente il coraggio di chiederne la pubblicazione. Questo coraggio mi è venuto ultimamente, da quando cioè è stata aggiunta la parola ‘Country’ alla denominazione dell’Associazione: se parlando di bluegrass si può tranquillamente sorvolare sullo strumento in questione, questo sicuramente non può essere fatto per la country music e non c’è niente di meglio che partire dalle origini – come per ogni nuova cosa di cui si vuole conoscere i tratti essenziali – per far conoscere un pó di più (ed un pó meglio) uno strumento tanto affascinante quanto troppo spesso mistificato.
L’idea mi è venuta leggendo un articolo scritto da Eddie Bayers su Modern Drummer (luglio ’93); per la cronaca, l’autore è probabilmente il session drummer più richiesto attualmente sulla scena nashvilliana, avendo vinto per tre anni consecutivi l’award della rivista Music Row come ‘Drummer of the Year’ (e per favore non pensate cose del tipo “per forza, non ce ne saranno altri, e a qualcuno bisogna pur darlo”, ecc.) e probabilmente non basterebbe un numero intero di Country Store per scrivere tutti i dischi ai quali ha preso parte, da Randy Travis a Tanya Tucker, da Alan Jackson a Trisha Yearwood a George Strait, ecc…
Scrive Eddie: “La country music inizia a svilupparsi con un apporto percussivo minimo; infatti molti artisti del primo periodo non erano abituati a ‘considerare’ il ruolo di un batterista in fase di registrazione. La prima apparizione della batteria in una produzione discografica country si può collocare agli inizi degli anni ’50 e consisteva essenzialmente nell’uso delle spazzole – di chiara origine jazz – che ‘disegnavano’ figure ritmiche sul rullante (produttori, tecnici del suono ed artisti probabilmente non erano ancora pronti per l’intero kit). Per darvi un’idea più concreta di quanto in quel periodo la batteria fosse tenuta in considerazione nell’ambito country, sappiate che per molti anni il famoso Grand Ole Opry non concesse mai il proprio palco ad alcun tipo di tamburo! (“bei tempi” dirà Silvio…). Col passare del tempo il teatro stesso modificò la propria rigida posizione accettando lo snare (rullante), presto affiancato dall’hi-hat e quindi, nel giro di pochi anni, dall’intero set (nella concezione moderna del termine).
Ma questa apertura allo strumento la dobbiamo agli artisti stessi, gente come Patsy Cline, Jim Reeves e Eddie Arnold, i quali finalmente compresero l’importanza della batteria all’interno delle composizioni e fecero sì che piano piano cominciasse a sparire la tenace idiosincrasia nei riguardi della medesima; essi infatti, iniziarono ad usare interi sets in sala di registrazione anche se ‘in a low-key way’, in modo cioè molto limitato. Quando ascoltiamo canzoni di quel periodo, Crazy di Patsy Cline per esempio, notiamo come la batteria non venga assolutamente evidenziata rispetto agli altri strumenti (confrontandola con le odierne registrazioni naturalmente), come se fosse più importante il fatto di ‘sentirla’ piuttosto che non quello di ‘ascoltarla’, affinché nulla andasse a discapito del feeling della musica.”
Non dimentichiamo che le ritmiche sulle quali ancora oggi la country music fonda le proprie composizioni (train beat, shuffle, western swing, cajun, ecc. ) sono nate e si sono sviluppate nel corso del tempo dall’incontro di numerose e diverse culture, ognuna ben distinta e radicata nel paese, e il punto di riferimento nonché la base di partenza era sempre la stessa, vedere quello che era stato fatto in precedenza e svilupparlo a seconda delle esigenze della musica da creare. Non hanno forse fatto così i batteristi, e più in generale i musicisti jazz? Non parliamo poi di quelli bluegrass!
“Molto di quello che noi oggi suoniamo” conclude Bayers “è direttamente collegato al drumming degli anni precedenti. Quello che noi oggi facciamo altro non è che innalzare il livello di ciò che è già stato fatto prima di oggi, migliorando la qualità del suono delle nostre esecuzioni grazie anche alle nuove tecnologie. Ma il suonare in sé rimane molto simile; ecco perché diventa importante tornare indietro ed ascoltare molto di ciò che i primi musicisti hanno fatto. L’integrità e l’intensità del feeling – siatene certi – rimane la stessa.”
Spero che queste poche righe possano aver stimolato qualcuno tra i lettori a volerne sapere di più; se volete approfondire l’argomento, o anche solo comunicare le vostre impressioni (positive o meno), scrivete alla rivista. Credo sia giunta anche per noi musicisti RUMOROSI l’ora di un nostro piccolo spazio su Country Store, …o no?
Stefano Alpa, fonte Country Store n. 31, 1996