«Gary dal vivo (Milano, 23 maggio 2014, n.d.a.) ha dimostrato tutta la consistenza del suo rock / blues cosa che sul suo disco in studio più recente Blak And Blue riesce ad emergere soltanto a tratti». (Matteo Bossi).
Dopo aver condiviso in pieno le parole di Matteo, ci permetterete perlomeno quel pizzico di curiosità necessario ad indurci all’ascolto del doppio album dal vivo del texano Gary Clark Jr. dal titolo, eccezionalmente ovvio ma di sicuro effetto al pari della splendida foto di copertina in controluce, Live (Warner Bros / HWUL 9362-49335). Frutto della ‘lunga marcia’ di avvicinamento alla notorietà intrapresa da Gary tra il ’93 ed il ’94 sui palchi di mezzo mondo, sia a fianco di star del calibro dei Rolling Stones ed Eric Clapton, che sui palchi di numerosi festival, le 15 tracce presenti ci consentono di delineare al meglio il percorso evolutivo e le influenze che agitano il trentenne cantante e chitarrista di Austin.
I soliti maligni prezzolati potrebbero subito obiettare che ben 10 dei brani presenti facevano bella mostra di sé nel CD di esordio citato in apertura…ma siccome crediamo sia troppo facile ed ingiusto nei suoi riguardi accusarlo di ‘copia e incolla’, ribattiamo affermando che era impossibile per un artista, e crediamo Gary sapesse del rischio che correva, possedere un repertorio talmente vasto da permettergli di realizzare, come seconda opera solista, due compact dal vivo in cui fossero azzerate o ridotte al minimo le riproposizioni, se non rifugiandosi quale unica alternativa in quella di affidarsi alla solita ridondanza di patetiche cover salvatutto.
Ma a parte questa considerazione, che al contrario ci stimola maggiormente a captare quali differenze potrebbero esistere tra l’essere in studio o sul palco, dobbiamo dire subito che la band ci è parsa estremamente omogenea, e complimentarci con Clark per l’abile mossa di affidare spesso il primo assolo (lo ha fatto in 6 brani) al suo secondo chitarrista King Zapata, indice questo di una oculata gestione delle risorse umane a disposizione.
Volendo tracciare una diagnosi complessiva su questo disco, prima di scendere nei particolari, lo potremmo definire un ‘robusto esempio di rock / blues’. Robusto perché non ci sono, o quasi, spazi liberi per pensare ad altro. Rock / blues perché, pur essendo il primo quello che domina (e questo non può essere sempre un male a priori), la scelta di introdurre tre blues song doc ha creato una frattura, positiva e ben augurante per il leader, nel pericoloso monolitismo di cui avrebbe potuto soffrire l’opera nel suo insieme.
Ed è ovviamente da questi esempi che prendiamo spunto. Il primo è Catfish Blues (erroneamente attribuito a Muddy Waters come autore anziché a Robert Petway), che dopo un intro strumentale di un paio di minuti da parte di Jr. si apre alla voce potente ma priva di forzature dello stesso leader…e dal quel momento è blues, nonostante sia venato da Jimi Hendrix che lo tira per il collo sino al termine dei 7 minuti. Il discorso muta completamente quando si tratta di Three O’ Clock Blues di B. B. King e If Trouble Was Money di Albert Collins, che vengono sottoposti a due diversi trattamenti pur essendo entrambi degli slow. Per ‘l’orologio’ il rispetto è assoluto, ed il blues si prende ciò che è suo senza strafare; per ‘il denaro’ invece l’abbeverata alla fonte della giovinezza, a cui Gary lo sottopone, riesce con grande abilità sin quasi alla fine (gustosissimo l’incrocio chitarristico tra Zapata e Clark) e solo un sopra la righe finale del leader ne mina la completa riuscita.
Tra i ‘meno blues’ (abbiamo usato l’avverbio ‘meno’ anziché la negazione ‘non’ in quanto il Blues è il filo conduttore dell’intera parata live, pur essendo differenziato solo il ‘peso’ della sua presenza), però brillano per la genialità del tessuto sonoro che li sostiene e che sembra sempre in grado di tramutarli in piccole icone qualitative, brillano Next Door Neighbor Blues, When My Trains Pull In, Ain’t Messin ‘Round, Blak And Blu, Bright Lights, che parimenti soffrono (sarà a causa di essere sul palco e di voler a tutti i costi colpire il pubblico?) di quelle note in più negli assolo delle chitarre di cui non si sentiva proprio la mancanza. Una citazione a sé per l’hendrixiana Numb con tanto di slide assassina e distorsore, per la ballad in falsetto Please Come Home, il medley sacrilego ma profondamente riuscito tra l’Hendrix di Third Stone From The Sun ed il Little Johnny Taylor di If You Love Like You Say, sino alla conclusiva When The Sun Goes Down di Leroy Carr, altro classico riletto per sola voca, chitarra e armonica.
Volendo concludere posiamo dire che Gary Clark Jr. ha personalità, creatività compositiva (9 brani portano la sua firma ed uno in coabitazione, a riprova che del sangue blue(s) circola abbondantemente nelle sue vene) ed esecutiva, la voce duttile a cui unisce il chitarrismo anarcoide ed a volte eccessivo, ma che gli perdoniamo perché la strada tra il perfezionismo e l’emozione è lastricata di ostacoli insidiosi il più delle volte insiti in noi stessi. Insomma un personaggio ribelle ed eclettico che sfugge, per ora, ad ogni incasellamento.
«Non possediamo facoltà divinatorie, difficile dire se i media americani abbiano ragione ad etichettarlo come ‘il futuro del blues’, di certo sentiremo parlare a lungo di Gary Clark Jr.» (Matteo Bossi)
Marino Grandi, fonte Il Blues n. 129, 2014