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E’ una Nashville tirata a lustro quella che accoglie i fans per la 31ma edizione della Fan Fair: postazioni televisive, limousine che sfrecciano, pubblicità giganti dei nuovi CD e relativi artisti (spicca quella di Mark Chesnutt, un cartellone di circa 15x15m alla biforcazione tra Broadway e West End), camion di troupes tecniche e bus istoriati dei musicisti, lunga coda fin dalla notte (anche dalle ore 2) per accedere al Convention Center allestito con gli stand degli artisti, code anche per i numerosi parties dei Fan Clubs convocati nei locali (ce n’è una tutta intorno all’isolato del Wildhorse Saloon per il party di Chely Wright, un’altra per il museo di Charlie Daniels), una folla ‘multiforme’, pittoresca, di tutte le età, che invade la downtown, allestimenti speciali, tendoni e gazebo per ospitare le numerose attività collaterali, ragazzi che distribuiscono le pubblicità degli artisti, dei CD, dei negozi di dischi; cantanti, attori, cabarettisti, VIP vari che la gente riconosce per strada. E musica, tanta musica, che esce da ogni angolo, da ogni porta famosa (Tootsie’s, Robert’s Western World, Ernest Tubb Records, ecc.).

LA CMT ha allestito una mini arena con ingresso gratuito proprio sullo spiazzo antistante l’ingresso al fantascientifico nuovissimo Gaylord Center (sembra un enorme disco volante posato su una piattaforma con antenna) per le registrazioni di interviste e showcase dal vivo in occasione della premiazione dei Flameworthy Video Awards. Sfilano Trick Pony, Trace Adkins, Montgomery Gentry, Jamie O’Neal, tanto per cominciare.
Gli eventi collaterali sono un’infinità e lasciano solo l’imbarazzo della scelta: il concerto IFCO del martedì sera, i CMT Video Awards, la Late Night Jam di Marty Stuart & Friends del mercoledì sera, le varie edizioni speciali della Grand Ole Opry, il tiro con l’arco delle celebrità, la partita di softball dei musicisti, l’asta benefica di cimeli dei musicisti, la lettura di fiabe per bambini da parte degli artisti stessi (si alternano Craig Morgan, Cindy Thompson, Kelly Coffey,ecc.). Chissà se ho reso l’idea.

I numeri forniti dall’Ufficio Stampa possono ulteriormente aiutare: un pubblico pagante di 126.500, cifra aggregata per tutti i tipi di biglietti venduti.
“Sono felice che sia stato un successo – dice Ed Benson, Direttore della Country Music Association – In tempi in cui i biglietti per concerti non stravendono, siamo stati in grado di tenere ed anzi di aumentare leggermente la partecipazione. Grazie anche alle nuove attività collaterali, agli sponsor ed alla attiva partecipazione di tanti artisti che hanno reso la Fan Fair uno straordinario evento mondiale”.
In effetti, solo al Coliseum in quattro giorni ci sono stati 40 concerti mentre più di 70 sono stati quelli nel Parco sul fiume. Un totale di 445 artisti sono apparsi agli stand del Convention Center per firmare autografi, farsi fotografare con i fans e regalare gadgets.
Tra quelli con le code più lunghe Tracy Lawrence, Billy Ray Cyrus, Brad Paisley, Alabama, Jo Dee Messina, Pam Tillis, Lee Ann Womack, Rascal Flatts, Lonestar.
Ma al di là dei numeri, l’evento Fan Fair sta a rappresentare lo stato di salute dell’industria discografica di Music City. Un’industria che sostanzialmente tiene, nell’ambito della più generale flessione di mercato che interessa appunto tutti i generi, ma che è condizionata dall’ansia di fidelizzare il proprio pubblico e di conquistare sempre maggiori spazi tra le nuove generazioni mentre è consapevole di non poter allontanarsi troppo dalla storia e dalle tradizioni di famiglia per non perdere identità.

Da questa dicotomia negli intenti ha origine una certa schizofrenia che porta da una parte a promuovere un numero forse eccessivo di nuovi acts senza badare troppo ai requisiti estetici e stilistici (con la complicità della maggioranza delle radio), dall’altra a mantenere viva la tradizione sia con una scelta bilanciata dei nuovi talenti (Kevin Denney, Craig Morgan, Eric Heatherly, Blake Shelton, Brad Paisley, Darryl Worley, per dirne alcuni) sia con la costante celebrazione delle ‘radici’ (il bluegrass, lo swing, il rockabilly, l’honkytonk, ecc.) e degli artisti che custodiscono la chiave dell’eredità storica (George Jones, Willie Nelson, George Strait, Alan Jackson, Earl Scruggs, Ralph Stanley, ecc.).
Ai nuovi vanno le promozioni più sostenute: Little Big Town, Cindy Thompson, She Daisy, Andy Griggs, Jo Dee Messina, Ty Herndon, Chris Cagle; agli altri vanno comunque consistenti sostegni contrattuali anche perché, poffarbacco, i cosiddetti nuovi tradizionalisti, gli Alan Jackson e i George Strait VENDONO dischi e biglietti.
Come se non bastasse a confondere le strategie di Music Row, l’ambiente discografico ha appena assistito, piacevolmente attonito, all’inatteso successo del film O Brother Where Art Thou? e della relativa colonna sonora che ha contribuito a rinnovare un forte interesse nei generi storici, e si domanda cosa ciò possa significare in termini di business.

Dal punto di vista musicale, la schizofrenia di cui sopra si risolve con un certo intasamento del mercato con prodotti di medio-bassa qualità dal formato anonimo (pop, country rock, easy listening?) ma comunque allo stesso tempo con una altrettanto alta percentuale di prodotti di qualità medio-alta riscontrabili tra i vecchi e nuovi tradizionalisti. In attesa del nuovo Garth Brooks.
C’è poi una terra di mezzo in cui artisti affermati indulgono ai richiami del pop (la maggior parte delle donne) o dei volumi esagerati (Billy Ray Cyrus, Kenny Chesney), allo scimmiottamento degli standard più beceri del pop-rock: roteare di chitarre (Brooks & Dunn, Blackhawk), accenni di rap (Neal McCoy, Toby Keith). Sicuramente un Coliseum affollato invita ad ‘esagerare’ ma alcuni segni inquietanti permangono.
In questo panorama ambiguo i momenti esaltanti non sono comunque mancati e, anzi, è difficile elencarli tutti.
Su tutti, mi sento di mettere Alan Jackson che con uno dei concerti più lunghi e le canzoni portanti del suo ultimo disco (Drive, Where Were You) ha dimostrato di aver toccato livelli da grande star e sfodera ormai un carisma pari a quello di Willie Nelson, di George Strait, di George Jones.
Memorabili sono stati Tracy Byrd, Tracy Lawrence, Mark Chesnutt, Brad Paisley, Pam Tillis, David Ball con il suo Private Malone, Eddy Raven e il suo Louisiana sound, Brooks & Dunn (comunque), Earl Scruggs & famiglia malgrado l’età e la situazione non ideale per lui (il Coliseum), Diamond Rio, Kenny Chesney (comunque), Lee Roy Parnell con il suo southern blues di qualità, Keith Urban che dal vivo si rivela anche buon chitarrista; tra i texani (che hanno usufruito di uno spazio dedicato), Pat Green; e poi Connie Smith che ha dimostrato alle nuove leve cosa significa ‘avere un’anima country’, strepitosa.

Le delusioni?
I vecchietti: George Jones, anch’egli fuori luogo al Coliseum, come Earl Scruggs, e penosamente senza voce: un’amaro tramonto; Joe Stampley, sfiatato ed impegnato a pubblicizzare il suo ‘pargoletto’ Tony, il figlio che non vorreste mai avere; e i Derailers che sembravano a disagio ed emozionati, li ho sentiti molto più in forma sui palchi di casa.
Le piacevoli sorprese?
Rebecca Lynn Howard, che incanta il pubblico del Ryman per la voce e per un paio di duetti in stile tradizionale con il suo chitarrista alle harmonies; Billy Yates, già autore di fama, che esordisce come performer supertradizionalista con canzoni spiritose come Too Country (ci tiene ad affermarlo) e Daddy Had A Cardiac,Mama’s Got A Cadillac (!); Blake Shelton, già apprezzabile su disco ma migliore dal vivo (se la country music dà il meglio quando racconta storie di vita quotidiana, la conferma sono le sue Austin e Ol’Red); stesso discorso per i Trick Pony (comunque); Tammy Cochran, la Clark Family Experience per i virtuosismi strumentali e l’ardita, seppur rispettosa, interpretazione in chiave bluegrass-punk (!?) del classico blues Crossroads e dello standard bluegrass Can’t You Hear Me Calling (ho idea che il vecchio Bill Monroe avrebbe gradito, pur grattandosi la testa con qualche perplessità).

Gli episodi rilevanti?
Primo fra tutti il concerto notturno di Marty Stuart al Ryman: quasi quattro ore per una rivisitazione di altissima qualità degli stili che hanno fatto la storia della country music: l’inizio con i gospel dei Sullivans, poi una strepitosa string band modello Grand Ole Opry anni ’30, poi gli ospiti Montgomery Gentry, poi il cantautore Joe Nichols che rivisita molto gradevolmente Merle Haggard, poi Pam Tillis con l’omaggio a papà Mel e due delicate mountain songs acustiche, poi Travis Tritt, poi ancora i duetti acustici tra il padrone di casa e lo stesso Tritt, poi, quando il pubblico pensava di dover sfollare, la chiamata in scena di Connie Smith per un finale davvero con i brividi.

Un concerto semplicemente unico e inestimabile per essere stato costruito con un filo conduttore logico, gusto, qualità, ospiti d’eccezione ed un piacevole, pervasivo senso di appartenenza ed omaggio alla storia della country music e alla comunità che ne custodisce e ne tramanda lo spirito. Una presenza ed un voto pesante nel campo della continuità con il passato, quelli di Marty Stuart, un personaggio a garanzia che il Cerchio non verrà mai spezzato.
L’asta pubblica dei cimeli delle celebrità. Condotta da Martina McBride e da un team di battitori superprofessionisti, applausi, fischi, commenti, e momenti di vera tensione per i duelli ingaggiati a suon di dollari per la vendita benefica di articoli quali: un violino di Charlie Daniels ($ 3000), un paio di pantaloni di Kenny Chesney ($ 1800), un foglio con le liriche di The Cowboy In Me scritte di pugno di Tim McGraw ($ 1600). Si sono distinti una coppia di giapponesi ed un tale che prendeva ordini da un anonimo da New York via cellulare.
Insomma, la Fan Fair è un grande evento a cui ogni fan dovrebbe partecipare almeno una volta nella vita, proprio come, si diceva scherzando, i musulmani devono andare alla Mecca.
Ci si sente di entrare appieno in una dimensione, per noi fans italiani, finalmente reale, in una grande comunità con radici lontane, valori definiti ed una altrettanto definita identità, con solide basi e consolidata esistenza.
Non più soli dunque tra rappisti, etnomusicanti da terzo mondo, intellettuali jazzofili, cantautori stonati, boy bands de noantri, musiche tecnologiche senz’anima. E già questo è un sollievo.
Ci si accorge che per fare i cantanti prima di tutto bisogna sapere cantare, per suonare bene bisogna avere un grande bagaglio di esperienza, per fare i critici musicali bisogna conoscere TUTTA la musica americana.

Alla Fan Fair ci si sente come a Hollywood nella notte degli Oscar, si intuiscono i contorni commerciali del business, e soprattutto ci si fa un’idea della enorme varietà degli stili e delle influenze che caratterizzano la country music.
Cominciate a risparmiare i soldini per il vostro pellegrinaggio a Music City per il 2003 (5-8 Giugno). Ne vale la pena.

Fabrizio Salmoni, fonte Country Store n. 63, 2002

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