Autoharp Revival

Dal 15 al 18 settembre 1983 a Winfield, Kansas, nell’ambito del Walnut Valley Festival, si è svolto il 3° Campionato Internazionale di Autoharp. Questo avvenimento la dice lunga sulla nuova popolarità che questo strano strumento multicorde sta vivendo negli ultimi tempi.
Direttamente imparentato con l’austriaco zither, esso fu brevettato 102 anni fa da Charles Zimmermann, commerciante tedesco di strumenti musicali trapiantato a Filadelfia.
Ufficialmente portata al successo dalla Carter Family, l’autoharp è sempre stata associata come strumento ‘facile da suonare ma impossibile da accordare’ utilizzato dagli educatori musicali americani per fare apprendere semplici melodie ai loro allievi.
Composta da 36 corde da arpeggiare con la mano destra e da 12 a 21 accordi da formare premendo semplicemente un tasto con la mano sinistra, essa da in pochi minuti la possibilità di accompagnare egregiamente molte canzoni.

Ma quali sono i motivi che hanno provocato il revival dell’autoharp? A mio parere questa riscoperta si deve essenzialmente a 3 fattori:
1) il lavoro di ricerca, principalmente svolto da Mike Seeger, teso alla valorizzazione di grandi ‘autoharpisti’ del passato come ‘Pop’ Stoneman e soprattutto John ‘Kilby’ Snow;
2) la rivoluzione tecnico/musicale e ‘fisica’ dello strumento compiuta da Bryan Bowers, il più affermato suonatore di autoharp dei nostri giorni;
3) la creazione di una rivista, The Autoharpoholic, interamente dedicata all’auto-harp, che è diventata un punto di riferimento costante per i musicisti di tutto il mondo.
Le tre circostanze hanno equamente contribuito alla rinascita di uno strumento che rischiava di giacere ‘scordato’ (in tutti i sensi) e impolverato nelle soffitte o appeso ai muri di molte case americane.
Il nuovo interesse che si è creato attorno all’autoharp, oltre ad accrescere il numero degli appassionati e dei praticanti e a riavvicinare vecchi fans dello strumento, ha dato anche vita ad una discreta produzione discografica. Recentemente, ad esempio, sono usciti, quasi contemporaneamente 4 lavori pressoché interamente dedicati all’autoharp.

Autoharpin, (Kicking Mule KO-228, 1982) di Bonnie Phipps, è un album che evidenzia le indubbie qualità tecniche di questa maestrina di Denver, Colorado. Seconda nel 1981, Bonnie è stata vincitrice dell’edizione 1982 dell’International Autoharp Championship svoltosi a Winfield, Kansas, con l’organizzazione della rivista The Autoharpoholic e della Ditta Oscar Schmidt. Il brano che le ha dato la vittoria è presente nell’album e addirittura ne apre la prima facciata in medley con Swallowtaill Jig. Si tratta di Staten Island Hornpipe, uno dei momenti migliori. In tutti i 12 pezzi dell’LP, Bonnie è accompagnata da Mark Schroeder (cello), Karl Dise (pennywhistle, concertina) e Mike Scap (chitarra). Devo subito precisare che la band, formata tra l’altro da ottimi musicisti, influenza notevolmente la sonorità globale dell’album e che l’autoharp non assume mai il ruolo egemonico alternando la leadership, di volta in volta, con gli strumenti precedentemente elencati. Bonnie Phipps utilizza spesso l’accordatura diatonica, sperimentata per primo da Bryan Bowers, che conferisce allo strumento sonorità del tutto particolari
La musica, sebbene particolarmente curata negli arrangiamenti e molto ben suonata, risulta alla fine un tantino disomogenea e spesso poco incisiva. L’album è comunque nel complesso interessante soprattutto per le inusitate soluzioni che propone e per l’abilità tecnica dei singoli musicisti. Attendiamo con fiducia una seconda prova.

Christman On The Autoharp (Amarillo ARLP 82-1, 1982) di Lindsay Haisley. Nato nel 1941 a San Antonio, Texas, Lindsay ha vissuto, per sua stessa ammissione, praticamente ovunque negli States. Le principali ispirazioni per questo album, interamente strumentale, sono state le riunioni familiari che si svolgono nella notte di Natale, contraddistinte da cori e canzoni, per lo più a fondo religioso. In questo suo secondo lavoro solista, Hasley mostra tutta la sua abilità tecnica e il suo approccio estremamente personale allo strumento (una 21 accordi in accordatura cromatica).
Lindsay Haisley ha in sé una forte componente rock e ci tiene a far sapere che si diverte moltissimo a suonare l’autoharp elettrificata in bands di rock & roll: “Ha la ritmica di un washboard con in più la possibilità di accompagnare con gli accordi” ammette divertito.
Le cose che riesce a fare, grazie anche all’ausilio di moderne tecnologie (phaser, flanger, ecc.) lasciano spesso a bocca aperta; ma anche in questo caso la componente musicale alla fine risulta indebolita e, più del precedente, questo album è particolarmente rivolto agli ‘autoharpomani’.

Autoharp Melodies di Ron Wall. Come il precedente, questo lavoro, per il momento disponibile solo in cassetta, è totalmente dedicato all’autoharp. Siamo nuovamente di fronte ad uno stilista di indubbie qualità e ad un innovatore per ciò che concerne la tecnica dello strumento. Ron Wall ha infatti introdotto la tecnica degli ‘open chords’, che consente, grazie ad una maggiore accuratezza nel pizzicare le corde con la mano destra, di evitare i molteplici cambi di accordi lasciando le barre alzate il più spesso possibile.
Questa nuova tecnica, applicabile solo alle accordature diatoniche, prende spunto dallo stile rozzo ma tremendamente efficace di Kilby Snow. Il risultato è una cascata di note, molto fluida ed estremamente affascinante. Inoltre in tal modo è possibile suonare i fiddletunes a velocità sostenute. A mio parere il raggiungimento di questo obiettivo finisce per penalizzare la musicalità dello strumento, togliendogli parte delle incredibili potenzialità sonore e una grossa fetta di componente ritmica. Devo anche sinceramente ammettere di non avere mai assistito dal vivo ad una esibizione di Ron Wall, e quindi il mio giudizio è unicamente legato all’ascolto di Autoharp Melodies. Il lavoro è comunque estremamente valido e consente di ascoltare questo musicista, dalle sonorità ‘liquide’, così apprezzato e seguito negli States.

Deep Shady Grove (Swallow LP-2002, 1982) di Evo Bluestein. Evo Bluestein vive a Fresno, California ed è figlio di un etnomusicologo, insegnante e musicista egli stesso, il Prof. Gene Bluestein. Evo per ovvie ragioni molto influenzato dalle scelte culturali del padre, iniziò una personale carriera nell’ambito della musica folk attorno al 1973. Dopo un viaggio di circa 6 mesi a Parigi nel 1974, cominciò a suonare con la famiglia (il padre Gene, i fratelli Jeremy e Joel, la sorella Freyda). Formò, quasi contemporaneamente, anche una old time string band, Roundtown Boys, con il fratello Jeremy. Attualmente insegna musica e si esibisce da solo o con la Bluestein Family. Deep Shady Grove è il suo primo lavoro solista e il 5° complessivo. L’album non è totalmente dedicato all’autoharp, ma il fatto che lo strumento sia presente in circa il 50% dei pezzi fa sì che possa essere inserito in questa mia recensione.
Il lavoro di Evo è ottimo, di gran lunga il miglior prodotto paragonato ai precedenti con la famiglia o a quello con i Roundtown Boys.
Lo stile di Bluestein all’autoharp è puramente tradizionale, molto ispirato da Kilby Snow.
Valga come esempio la versione di Weepin’ Willow direttamente derivata dall’interpretazione del grande banjoista kentuckiano Roscoe Holcomb.
Insieme a Mike Seeger, Evo Bluestein è da considerare il migliore interprete di auto-harp tradizionale vivente. Ma confinare Evo alla sola autoharp è alquanto limitativo: egli è soprattutto un colto e preparato musicista old timey e Sally Johnson, sul lato 2 dell’album, ne è chiara testimonianza. Il brano da solo vale l’acquisto del disco. Caldamente consigliato a tutti i lettori.
Nel complesso, tutti e 4 gli albums sono interessanti.

Ezio Guaitamacchi, fonte Hi, Folks! n. 5, 1984

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