Pare il destino si sia organizzato per portarceli man mano via tutti. Non è bello e non è nemmeno giusto. Se da una parte le perdite, pur sofferte e dolorose, di Chuck Berry e di Fats Domino ci possono stare per l’elevata età raggiunta, non possiamo accettare le morti di personaggi ancora relativamente giovani come Tom Petty o Gregg Allman. Troppo giovani per lasciare questo mondo terreno, troppo importanti nella nostra vita. Ed ecco che si materializza un nuovo quesito che coinvolge, inevitabilmente, tutti noi appassionati di musica. Chi e cosa abbiamo perso? Un amico, o un semplice artista? L’interrogativo è particolarmente curioso perché la logica ci porterebbe (salvo rari casi) ad optare senza difficoltà per la seconda delle due ipotesi ma non è così, perché essere un vero amante della musica porta ad instaurare un rapporto con gli artisti quasi famigliare, anche se mai incontrati di persona. Diventano figure così importanti per noi che quasi li assoggettiamo a parenti stretti. Conosciamo un po’ tutto di loro, sia in ambito professionale che privato. Addirittura – come capita ai giovani amanti – riusciamo a costruire attorno a loro un alone quasi di beatitudine, incapaci di vedere i lati bui e i difetti che, anzi, spesso si trasformano in pregi. E poi – e questa è forse la domanda più importante – chi perdiamo realmente, l’uomo di oggi o quello del passato, colui che ci ha fatto sognare con le sue canzoni? Ovverosia è l’uomo che ci manca o le canzoni da lui composte?
Nel caso di Gregg Allman mi sono posto questa domanda per cercare di capire quale sia la causa di quel vuoto che improvvisamente è cresciuto dentro di me come di tanti altri ascoltatori della sua musica. È un vuoto strano, quasi bizzarro. Perché se ragioni ti dici, «cavolo, l’ho incontrato 5 minuti e non sono quasi riuscito a dirgli nulla per l’emozione, e lui manco si ricordava di me il giorno dopo». Poi pensi a quelle canzoni che ti hanno accompagnato per una vita intera, nei momenti belli e in quelli più bui della tua esistenza e lui era li con te. È una cosa talmente personale, poi, che è difficile da spiegare. Come fai a spiegare ad altre persone che mentre stavi seppellendo tuo padre, prima, e tua madre, poi, dentro di te cantavi Whipping Post e non certamente per la gioia. Era una sensazione di avere una sorta di amico vicino a te capace, lui solo, di confortarti in uno dei momenti più dolorosi che hai provato. Ma quella canzone ti viene voglia di cantarla (sempre interiormente perché è un rapporto esclusivamente privato) anche nei momenti di assoluta gioia. Allora quale risposta diamo alla domanda? Forse non c’è risposta e probabilmente manco la domanda, è così e basta e lo si deve accettare come il sapere che Gregory Lenoir Allman in questo momento sta riposando al Rose Hill Cemetery, non distante dal fratello Duane e da Barry Oakley che giacciono fianco a fianco, e nello stesso posto dove ci sono le tombe di Elizabeth Napier Reed e Martha Ellis che hanno influenzato due splendide canzoni della loro band. Quel cimitero di Macon, Georgia, che era il punto di ritrovo, di ispirazione (e anche altro) per una delle più importanti band che abbiano mai messo piede su questa terra. E lui era uno dei protagonisti, bello come un angelo biondo dietro il suo organo Hammond e sempre al fianco di quel genio di ‘Brother Duane’. Un angelo fragile che ha dovuto convivere con l’ingombrante ombra di un fratello maggiore che era un faro per lui e per tutta la band. Ma soprattutto per lui al quale il destino – sempre lui – lo ha portato via quel maledetto 29 ottobre del 1971. Gregg non ha passato giorno che non ricordasse Duane, aveva capito subito che la Allman Brothers Band non sarebbe più stata la stessa, nonostante il successo di Brothers And Sisters, la notorietà e i soldi facili. Ma Gregg era fragile e alcool e droga hanno preso il sopravvento trasformandolo, e così anche la sua musica che non ha più ritrovato la brillantezza di quei primi anni dove le canzoni uscivano come per incanto. Dopo il buio era tornata la luce, ma i tempi erano inevitabilmente cambiati e pur avendo rimesso in piedi una delle band capaci di produrre uno dei migliori sound di quegli anni era sempre una fotocopia, magari molto bella, dell’originale.
Poi venne la malattia, la consapevolezza che la vita sarebbe cambiata. Scoccò quella scintilla che lo riportò, nonostante la fatica, sui palchi con gli Allman o con la band a suo nome e il ritorno in studio a registrare il buon Low Country Blues fino a stringere i denti per fare Southern Blood che doveva, inizialmente essere un album di nuovi brani (All Compositions by Gregg Allman doveva essere il titolo), ma la stanchezza da una parte e l’orologio che diceva “non c’è più tempo” dall’altra lo hanno costretto – in accordo con il produttore Don Was – ad optare per una scelta di brani altrui ai quali era particolarmente legato e dopo nove giorni lavorativi, ai Fame Studios di Muscle Shoals in Alabama, ecco arrivare a tutti noi il suo testamento sonoro, non il suo capolavoro, ma sicuramente un emozionante lascito. Ma a noi mancheranno le sue immortali ballate e la sua voce, fatta di miele e di whiskey del Sud, quel Sud che lui ha contribuito a far diventare immortale cantandocelo con passione. La passione di un ‘Cavaliere di Mezzanotte’ che ha finalmente la possibilità di riabbracciare un fratello in un paradiso che non sappiamo se esiste, ma nel quale speriamo di poter un giorno incontrare nuovamente i nostri cari. Anche Gregg Allman. Intanto noi continuiamo a cantare le sue canzoni.
Antonio Boschi, fonte Il Blues n. 141, 2017