John Lee Hooker articolo

“Il mio stile viene dall’aria che ho respirato a Clarksdale”(John Lee Hooker), fonte Il Blues n. 141, 2017

Abbiamo sempre avuto un debole per lui. Infatti la prima volta che ne parlammo fu nel numero 4 della nostra rivista, quando in 2 pagine riuscimmo a farci convivere le diverse constatazioni che innescò il suo concerto di Milano dell’11 maggio 1983 ed una breve intervista. Ma il nostro rapporto con lui, che era iniziato negli anni Sessanta pur solo come anonimi ‘amici di penna’, proseguì sempre su queste pagine con un paio di interviste nei numeri 50 e 61, la biografia in quelli 41 e 42 e il tutto senza mai perdere l’attenzione per le sue opere discografiche. Ecco perché ci sembra scelta voluta, e non dovuta, ritornare su di lui in questo 2017 in cui John festeggerebbe il suo centesimo compleanno. E lo abbiamo fatto, anche in questo caso, unendo il box commemorativo pubblicato dalla Universal Music, con il ricordo di chi lo ascoltò nel 1976 all’Hunter College di New York, legato, però, con la recensione delle registrazioni che bloccarono nel tempo quell’evento.

Il cofanetto
King Of The Boogie (Craft 00015), è il cofanetto di 5 CD che raccoglie 50 anni di incisioni di Hooker (cronologicamente nei primi 3, tematicamente negli ultimi 2), partendo dal 1948 per concludersi nel 1998. Diciamo subito che, come tutti gli episodi simili, si sarebbe potuto fare meglio nella scelta dei brani con cui presentare John, ma opere del genere se sono spesso oggetto di troppo soggettive critiche similari, nascondono anche le difficoltà più diverse per giungere alla messa insieme di ciò che si vorrebbe realizzare. Al di là quindi di ogni critica spesso inutile, dobbiamo complimentarci con i compilatori che, con un tocco non banale, hanno fatto sì che l’opera iniziasse con la versione del suo primo brano registrato quel Boogie Chillen del 1948, e si concludesse con la stessa Boogie Chillen targata però 1998.

Il primo CD, che copre il lasso di tempo incluse tra il 1948 ed il 1954, è la conferma di quanto la sua ritmica ossessiva, articolata sul suono della chitarra unito al battito del piede, ed al magnetismo della sua voce sappia ancora oggi risvegliare, pur senza l’aggiunta di altri musicisti, quella parte di spirito che in noi attende sempre di trovare quella scintilla che gli permette di vivere. Infatti, dimenticando, si fa per dire, il fondamentale Boogie Chillen, lascia subito il segno lo slow Hobo Blues, ci colpisce il riuscito duo intrapreso con Eddie Burns la cui armonica spezza l’armonia di Burnin’ Hell senza mutarne il colore, così come Moaning Blues che vive dapprima sul suo canto a bocca chiusa, o la presenza elettrificata e tirata della chitarra di Eddie Kirkland in I’m The Boogie Man e Down Child.

L’urbanizzazione di John, che si era già affacciata nel primo volume, occupa quasi per intero il secondo CD (1955-1961). E’ ovvio che le modifiche che essa porta con sé, creano qualche problema di adattamento ad Hooker. La libertà di fare quello che gli passava per la testa nel modo migliore, almeno per lui, si scontrano adesso con la tipologia del blues di Chicago. Infatti, avere come partner artisti del calibro di Jimmy Reed ed Eddie Taylor, provoca delle modificazioni nel risultato finale. Se la voce di John sembra in parte rinunciare al magnetismo consueto a carico di una attenzione più spiccata per il risultato finale, band compresa, tracce come Time Is Marching e Dimples appaiono esempi tipici di fusione sonora riuscita sia con l’armonica di Jimmy Reed nel primo che senza quest’ultima nella seconda. Se l’inedito When I Lay My Burden Down si avvale della voce di John quale termometro emotivo, ci possiamo inchinare davanti alla sua Tupelo Blues in completa solitudine e per giunta acustica (ecco che cadiamo in quanto enunciato in precedenza: perché non sostituire Good Morning Lil’ School Girl con la mitica Water Boy proveniente dalla stessa session), e gustare la storica (anche se allora non lo è ancora) My First Wife Letf Me. Riuscito l’inserimento di 3 brani provenienti da registrazioni effettuate nel luglio del 1961 a Miami, Florida, in cui, pur assecondato da musicisti ignoti, sforna senza strafare il ritmo profondo nel tempo medio Don’t Turn Me From Your Door, nello slow Grinder Man e nell’inedito Meet Shakes On Her Bone.

Perlomeno due sono le chiavi di lettura che il terzo CD (1961-1996) ci sottopone. La prima è quella legata al periodo Vee-Jay che, se si conclude con produzioni prive di convinzione (Don’t Look Back su tutte), tra cui si salva la sola stupenda It Serves Me Right, ma lascia spazio però ad una nuova speranza che si apre con il passaggio alla Impulse newyorkese e si concretizza con incalzante potenza insita in Money, ed il tutto ha luogo anche per merito dei partner coi fiocchi che lo accompagnano. Meno male che il ritorno a Chicago si rivela proficuo sia in One Bourbon, One Scotch, One Beer, ottimo il lavoro alla chitarra di Eddie Burns ed al piano di Lafayette Leake, che nel tempo medio The Motor City Burning, dove il riflessivo Hooker è circondato dagli affreschi che la chitarra di Buddy Guy dipinge. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, Hooker passa alla major ABC dalle cui incisioni rotartte nel tempo meritano di non essere dimenticate tracce come Rockin’ Chair, Hittin’ The Bottle Again e Deep Blue Sea che, pur essendo datate 1989, 1992, 1995, ci consegnano un John Lee solo chitarra e voce ma in grado di riconsegnarci una parte di quelle emozioni che, pur non essendo la copia degli anni iniziali, avevamo creduto di aver dimenticato.

Il quarto compact, sottotitolato Live, è un viaggio, anche qui cronologico, tra i concerti di cui è stato protagonista tra gli anni 1960 e 1983. Ed è proprio dal 1960 anni che spiccano Hobo Blues e Maudie, gemme in duo con il bassista Bill Lee e catturate al Festival di Newport, mentre le tracce californiane provenienti dal 1963, nonostante la solitudine, risultano, nonostante siano titoli eclatanti quali Boogie Chillen, Bottle Up And Go e Crawlin’ King Snake, poco convincenti. Ma è ancora una volta Newport, questa volta targata 1963, a riportare in alto gli stimoli che Hooker emana con The Mighty Fire e You Go To Walk Yourself, anche se, ancora oggi, brilla di luce propria la versione di I’m Bad Like Jesse James che John Lee in stato di grazia ci regala, anche per l’operazione di fusione tra i due stilemi che la band del vicino di casa Muddy Waters intraprende (Luther Johnson alla chitarra e Otis Spann al piano sono superbi mentori) nel concerto al Café Au Go-Go di New York nel 1966. Se Boogie Everywhere I Go, catturato al concerto presso la Soledad Prison di Soledad, California, possiede il ritmo giusto per l’ambiente, meno riusciti sono i brani, inediti, registrati a Berlino nel 1983, con l’eccezione di It Serves Me Right To Suffer che conserva il pathos originario.

L’ultimo appuntamento, il quinto per l’esattezza, è quello dedicato ai ‘Friends’. E questo è un salto difficile, perché non sempre gli amici ti aiutano, anzi. Infatti, nonostante siano molti gli anni che abbiamo appeso al chiodo, 1952-1998, rimaniamo ancora inebetiti dalla mancanza di linee guida che avvolge The Healer (1988) che, lasciata nelle mani di Carlos Santana, assume la forma di un brano da dj e non di blues. Meno male che il 1952 si riscatta con il duo incredibile che permea I Got Eyes For You, a cui le chitarre di Hooker e Kirkland che più diverse non possono essere concedono uno spazio tutto suo. Meno male che, tornando al 1988, ci pensano Bonnie Raitt e George Thorogood a fornire un supporto incredibile a John Lee rispettivamente in I’m In The Mood (voce e slide) e Sally Mae (duo da antologia). Convince Robert Cray in Mr.Lucky, come pure Warren Haynes con la sua slide in Up And Down, Jimmy Vaughan nella non facile riproposizione di Boom Boom, B.B.King che, oltra far parlare Lucille, duetta con Hooker. Il tutto termina con l’alone rock con cui Eric Clapton & Co. ridisegnano Boogie Chillen. Nel contempo ci piace segnalare come questo cofanetto non sia il solito best of’, ma finisca invece per essere il frutto di una scelta, voluta o meno, che ha affiancato brani famosi con altri problematicamente in evoluzione, ponendo in essere quindi le difficoltà che John Lee Hooker ha affrontato, e non sempre superato, con questi ultimi che cambiavano abito ogni volta che il blues doveva lottare con le modifiche che lo scorrere del tempo chiamava.

Marino Grandi, fonte Il Blues n. 141, 2017

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