Ascoltare l’ultimo il disco di uno dei tuoi artisti preferiti quando sai che è appena deceduto non è cosa facile, ancora meno cercare di essere obiettivo nella sua analisi, cercando di non far prevalere i sentimenti rispetto al compito di puro recensore. Southern Blood è l’album che saluta la vita terrena di uno delle più importanti figure nella musica che quel grande bacino che è il Sud degli USA ha saputo donarci. Il testamento sonoro di una carriera che ha visto picchi enormi ma, anche, brutte e pericolose cadute di tono e di stile. Questo album potrebbe essere considerato un mezzo capolavoro se colui che lo ha composto non fosse ‘quel’ Gregg Allman che ci ha deliziati con canzoni immortali, soprattutto grazie alla band che portava il nome suo e del fratello Duane. Allora si trasforma in un buon disco, anzi ottimo, e merita di essere valutato con la necessaria stima per come ha saputo – nonostante la fatica – dare fiato un’ultima volta ad una delle più belle voci di tutto il panorama rock mondiale. Doveva essere un disco tutto di nuove composizioni, purtroppo la malattia che stava erodendo il fisico del sessantanovenne Allman lo ha costretto ad optare per una serie di brani altrui ai quali era particolarmente affezionato fatta eccezione per l’iniziale My Only True Friend classica immortale ballata delle sue, di quelle che sanno lasciare il segno. Ad accompagnare il cantante, tastierista e chitarrista di Macon, Georgia, abbiamo – ovviamente e giustamente – fior fiore di musicisti ad iniziare dalla mirabile sezione ritmica sostenuta dalla batteria di Steve Potts e il basso di Ronald Johnson ai quali si aggiunge, così come fece negli Allman Brothers, il percussionista Marc Quinones. Le parti di chitarra sono affidate al bravo Scott Sharrard che è anche il ‘music director’ del progetto. A questi è da aggiungere una sezione fiati con Jay Collins, Mark Franklin e Art Edmaiston più una serie di ospiti, tra cui il preciso Greg Leisz alla pedal steel e l’amico di lunghissima data Jackson Browne. La produzione è affidata al geniale Don Was che ha portato il gruppo nei celebri Fame Recording Studios di Muscle Shoals, la piccola cittadina dell’Alabama dove Duane Allman iniziò a costruire la propria immagine come uno dei migliori chitarristi di tutti i tempi.
Come seconda traccia di questo album troviamo un’intensissima versione di Once I Was dalla penna di Tim Buckley, dove il lento e melanconico spirito sudista ci fa capire come mai abbiamo tanto amato Allman e i suoi amici capelloni. Da un’icona all’altra ed ecco arrivare dal vastissimo archivio di Bob Dylan Going Going Gone, con una bellissima slide guitar in evidenza. L’unica band che allora era in grado di ‘duellare’ con gli Allman, soprattutto in un discorso che porterà alla nascita delle jam band, erano i Grateful Dead di Jerry Garcia e proprio una composizione del chitarrista californiano, Black Muddy River, regalerà agli ascoltatori una piccola perla dal sapore quasi irish. Non poteva mancare un omaggio ad uno dei principali autori del blues, quel Willie Dixon che ha composto la bella I Love The Life I Live resa celebre da Muddy che, per onestà, è ben altra cosa. Willin’, il leggendario brano dei Little Feat è una di quelle canzoni ‘sacre’ che andrebbero lasciate stare, e pur se molto ben eseguita (la classe non è acqua) andava lasciata riposare, perché solo ed unicamente Lowell George la poteva cantare. Uno dei dischi meno considerati, nonostante la sua bellezza, fu Ton-Ton Macoute! di Johnny Jenkins dove la chitarra di Duane regalava sprazzi di altissima classe in alcuni brani (non in questo). Da quell’album arriva la stupenda Blind Bats And Swamp Rats con tutto il suo sapore swamp. Ci avviamo verso la fine di questo bell’album con il r&b di Out Of Left Field dei celebri compositori Spooner Oldham/Dan Penn che gli studi di Muscle Shoals conoscevano nei minimi dettagli e che Percy Sledge portò al successo. Qui Gregg ci fa notare, casomai ce ne fosse bisogno, quanto soul abbia la sua voce. Love Like Kerosene è il brano più rock del gruppo, già apparsa su un precedente album del biondo cantante, forse il brano meno convincente che, comunque, non delude. Di tutt’altra pasta la conclusiva Song For Adam dell’amico Jackson Browne. Atmosfera molto rilassata, commovente a tratti, quasi ad accettare un destino scritto e controfirmato, dove l’autore arriva a dar man forte al vecchio amico morente pronto ad intraprendere il viaggio più importante della vita per, magari, raggiungere nuovamente l’adorato fratello. Gregg non ha potuto assistere all’uscita di questo album, come già accadde a David Bowie e al nostro Rudy Rotta. Forse è il destino dei grandi. Addio Gregg Allman, grazie.
Rounder 0888072033689 CD/DVD (USA) (Roots Rock, Blues, Blues Rock, 2017)
Antonio Boschi, fonte Il Blues n. 141, 2017