Live At Fillmore… Non siamo a New York, più semplicemente in quel di Cortemaggiore, nella ‘bassa’ piacentina, al tramonto di un opaco aprile, di venerdì. I negozi stanno chiudendo, nessuno per le strade, qualche ragazzotto all’ingresso della sala agita un pacco di prezioso vinile targato Byrds, Cardiff Rose o Peace On You. Fanno la posta a Mr. Spaceman, a Re Jingle Jangle per una preziosa dedica da vergare sugli album e una stretta di mano, da poter dire ai figli, “questa è la mano che ha stretto quella di Roger Mc Guinn”. Anche noi siamo elettrici, nervosi. Il ricordo va a quel pantano dell’ex Motovelodromo di Modena, nel Settembre 1987, quando, unica occasione, ascoltammo Mc Guinn precedere il concerto di uno scontrosissimo Dylan.
Minacciose file di TIR sull’Autosole hanno reso più agognata la meta. Sul palco un simbolo che ha il valore di un totem Sioux, la gloriosa Rickenbaker di fronte a noi, dritta, luccicante. Aspetta silenziosamente.
Qualcuno sale in scena per una fotografia d’obbligo. L’intervista. Si fa. Non si fa. Adolfo Galli si prodiga a convincere il Signore di Fifth Dimension. Mr. Spaceman riceve in camerino una copia di OOT. Probabilmente la sfoglia. Si convince e l’intervista invece si fa. Di questo ringraziamo calorosamente Adolfo per la sua cortesia e disponibilità. Roger Mc Guinn ci accoglie amabilmente nel suo camerino. Compassato, cortese, ospitale risponde alla domande con serenità. Non c’è affettazione nel suo eloquio né fretta. Volentieri si presta alle foto di rito.
Il concerto supererà ogni aspettativa. Quantunque solo, Mc Guinn sa creare un’atmosfera speciale, come se Gene Clark o David Crosby fossero ancora lì con lui. Cantano le chitarre, il tintinnio delle corde ci trafigge. La voce di Roger è quella che non ti aspetti, nitida, ispirata. Se chiudi gli occhi i Byrds sono davanti a te. Sorride al pubblico ripetutamente, è soddisfatto delle acclamazioni che salgono da una platea assiepata di vecchi fan ma anche di visi giovani.
Nessun brano dai recenti Folk Den, non ci saranno le ballate della tradizione. Al contrario il repertorio dei Byrds senza risparmi, quello della carriera solista. My Back Pages, Ballad Of Easy Rider, Mr. Spaceman Chimes Of Freedom, Mr.Tambourine Man He Was A Friend Of Mine, Eight Miles High, So You Want To Be A Rock’n’roll Star, Someone To Love You, Turn Turn Turn, omaggi a Gene Clark, Gram Parsons e Chris Hillman, Chestnut Mare, Bells Of Thymney… Pura gioia. Un concerto memorabile, al limite della sofferenza. Acustica di qualità, set generoso per riempire il cuore di tutti. L’intervista rilasciataci è un punto d’orgoglio per la nostra rivista che si nutre esclusivamente dell’illimitata passione dei suoi redattori
FC – La tua personale lettura della folk music ha scavato il letto di un fiume che è diventato una delle principali arterie nella storia del rock. Come inquadri questo ritorno al folk puro che è venuto fuori con i tuoi splendidi omaggi alla musica tradizionale, i Folk Den e perché sono così brevi?
RM – Innanzitutto, il pezzo tradizionale è breve per sua natura e non va oltre i tre minuti. Originariamente, quando ho cominciato a registrare i Folk Den, cinque o sei anni fa, la band con cui registravo era molto esperta di computer e fu una ragione tecnica a spingermi a mantenere brevi le registrazioni per non allungare troppo i tempi di ‘download’.
FC – Perché hai scelto la via di Internet per distribuire questo materiale? Non c’è il pericolo che questa scelta limiti il prodotto al pur immenso stuolo di tuoi ammiratori, tagliando fuori le nuove leve?
RM – II mio scopo è di conservare e tramandare queste canzoni. Ho scelto Internet perché lo ritengo il mezzo più adatto per questo obiettivo. Principalmente perché è facile più o meno per chiunque accedervi e perché ha una diffusione mondiale. Non sono così preoccupato di non essere in contatto con le nuove generazioni. Molti contatti via Internet sono stabiliti da ragazzi sui vent’anni.
FC – Ci sono in cantiere ulteriori progetti che riguardino incisioni dei Byrds e, particolarmente, è prevista la stampa di un box che raccolga tuo materiale inedito o live, da solista? Come stai a inediti?
RM – Penso che ci siano delle canzoni che Bob Irvin ha trovato e che potrebbero essere pubblicate e costituire una nuova ristampa, ma non sono sicuro di questo. E’ stato lui a parlarmene, ma non ne so molto di più.
FC – Forse la carriera e la fortuna di Dylan non sarebbero volate così in alto senza il contributo epocale delle cover dei Byrds. Credo che abbia un debito nei vostri confronti. Sei d’accordo?
RM – Ah, in realtà non parlo mai di lui!
FC – Che tipo di sentimenti provi a sfogliare l’album dei ricordi? Ti sorprendi ad accarezzare il passato o per te contano soprattutto i progetti futuri?
RM – Sono interessato al passato nel senso che mi interessa conservare una tradizione folk che può essere vecchia anche di cento anni. La mia preoccupazione era che queste canzoni sarebbero state dimenticate se qualcuno non avesse pensato di inciderle di nuovo. A parte questo, mi interessa di più il futuro che non il passato.
FC – Era dal 1987, quando apristi il tour di Dylan che non ti si vedeva in Italia, se non sbaglio. Come mai?
RM – Molto semplicemente perché nessuno mi ha mai richiesto.
FC – Vorrei un tuo flash sulla Rolling Thunder Revue e sulle emozioni che ti ha lasciato.
RM – E’ stato molto divertente. Un grande tour con Dylan, Joan Baez, Joni Mitchell… E’ stata quasi una vacanza. Sicuramente uno dei miei tour favoriti.
FC – Una delle tue canzoni che ammiro di più è la splendida Jolly Roger, in un disco indimenticabile ricco di suggestioni letterarie. Come è nata?
RM – Jolly Roger l’abbiamo scritta io e Jacques Levy. Stavamo discutendo sull’organizzazione della Rolling Thunder Revue. Ci vestivamo tutti come dei vecchi pirati, mi pare che ci fosse addirittura una bandiera sulla mia chitarra. Allora Jacques disse: “Sei un pirata. Suoniamo una canzone di pirati.” Da qui nacque l’ispirazione per la canzone.
FC – La tua collaborazione con Jacques Levy ha dato frutti di imponente bellezza. Penso a pezzi come l’m So Restless, la stessa Jolly Roger, Round Table. Tu gli hai aperto la strada a Desire…
RM – Sì, è vero. Del resto, uno dei miei album preferiti di Dylan è proprio Desire. E i testi sono di Levy. E’ la ragione per cui è uno dei miei preferiti. E’ perché c’è il suo contributo.
FC – Questo tour da solista, solo chitarra e voce, presuppone una svolta definitiva o pensi di riproporti con una band recuperando il folk-rock?
RM – Ho intenzione di continuare per un pò con le esibizioni soliste anche se suono sempre con una band. L’estate scorsa, ad esempio, ho fatto un tour negli States con un trio. Ma suonare solo è davvero più divertente per il rapporto molto intimo che si stabilisce con il pubblico. Puoi avere una percezione del pubblico che non hai se sei insieme a una band.
FC – Back From Rio rappresenta il tuo rilancio, una seconda giovinezza. Come hai trovato l’energia e l’ispirazione per realizzare un disco così coerente con la tua poetica?
RM – Credo che siano stati i miei amici a ispirarmi. Passare il tempo con Tom Petty, Elvis Costello e tutta la gente meravigliosa che mi ha aiutato a realizzarlo… L’energia è venuta da loro.
FC – Live From Mars ha rinverdito i fasti dell’era Byrds. Che tipo di pubblico c’è ai tuoi concerti in America? Mi interessa sapere soprattutto se ci sono molti giovani.
RM – L’audience è mista. C’è gente che all’epoca dei Byrds non era neppure nata e gente che a quel tempo era già fan. A volte si tratte di famiglie fino alla terza generazione.
FC – Vado pazzo per brani come Get Along Little Dogies o Blood Red Roses. E’ la linea della famiglia Guthrie. Sei interessato a proseguire in questa direzione?
RM – Sì, infatti il mio prossimo CD sarà registrato per la Appleseed e verrà presto pubblicato negli Stati Uniti. Sarà inciso con gente come Pete Seeger, Odetta, Judy Collins, Joan Baez, Jean Ritchie.
FC – Una domanda che forse per te è ricorrente. Come è nata la leggenda della Rickenbaker? Come decidesti di usare, fondamentalmente la dodici corde elettrica?
RM – Ero abituato a suonare la chitarra a dodici corde anche dai tempi del folk. E quando decidemmo di formare una rock band pensammo alle chitarre elettriche. Andammo al cinema a vedere A Hard Day’s Night dei Beatles. Fui colpito dal suono della Rickenbaker e me ne procurai subito una.
FC – Without Your Love è una canzone che mi ha colpito profondamente. E’ il culmine della tua vena romantica. David Crosby, Chris Hillman, un tuffo nel passato…
RM – L’ho scritta ispirandomi a un libro che si intitola Civil Mercy. Riguarda la vita di un uomo e le sue relazioni.
FC – La canzone dei Beatles e di Dylan più importante per te…
RM – Per quanto riguarda i Beatles I Wanna Hold Your Hand. Di Dylan preferisco Subterranean Homesick Blues. Continuo a guardare il film di Pennybaker Don’t Look Back… Rappresenta molto bene l’atmosfera beatnik. Ginsberg, Peter Orlowski…
Francesco Caltagirone, fonte Out Of Time n. 39, 2002