Le nuove avventure musicali di due formidabili cantori della società americana le cui carriere presentano molti punti in comune.
In comune non hanno solo il fatto di chiamarsi John. Entrambi originari dell’Indiana, sono praticamente coetanei, hanno il medesimo carattere irrequieto, hanno dovuto superare vicende sentimentali tormentate nonché lunghe e altalenanti vicissitudini professionali. E, quel che più conta, hanno numerose affinità artistiche.
Attenti osservatori della società americana, specie di quella della provincia più remota, sono eccellenti cantori di vizi e virtù degli ‘all american boys’, incorporano spesso e volentieri (mescolati ad un rock ruvido e sincero) i suoni e le atmosfere della tradizione statunitense e, in più, possiedono come dote naturale due voci forti, penetranti e, ciascuna a modo suo, originalissime.
Oggi, le storie parallele di Hiatt e Mellencamp trovano (sarà un caso?) un altro sostanziale punto d’incontro: l’uscita dei rispettivi ultimi lavori che, ennesima coincidenza, conferma oltre all’oggettivo valore artistico l’ulteriore singolare svolta delle rispettive carriere.
Dei due, Mellencamp è sicuramente personaggio più ‘colorito’, stravagante e poliedrico. Discreto pittore (alcune sue ‘exibition’ sono state ben accolte dalla feroce critica statunitense), John si è anche avventurato nel cinema dirigendo ed interpretando Falling From Grace (apparso fugacemente in un cinema milanese alla fine di luglio), lavoro quasi autobiografico che non è parso però convincente (a parte l’eccellente colonna sonora cui hanno partecipato, tra gli altri John Prine, Joe Ely, James Mc Murtry e Dwight Yoakam).
Inoltre, con Willie Nelson e Neil Young, è da anni il promotore del Farm Aid, mega-raduno musical-benefico i cui proventi servono a risanare le casse degli agricoltori del Mid-West strozzati dai tassi d’interesse della politica economico-bancaria americana. Mellencamp, che una volta veniva chiamato ‘Cougar’ (quasi a sottolineare il suo impatto aggressivo), ama semplicemente definirsi ‘little bastard’, piccolo bastardo, per rimarcare le sue origini mai rinnegate di ribelle.
La sua intransigenza personale ed artistica lo ha portato ad affrontare una magagna sentimentale (il divorzio dalla moglie nel 1988) e una vera e propria crisi esistenziale che lo ha colpito duramente nel 1989. Dopo il successo di pubblico (oltre 5 milioni di copie vendute) ottenuto nel 1982 con l’album American Fool (che conteneva il delizioso ‘hit’ Jack And Diane), Mellencamp infilava una trilogia tra il 1985 e il 1989 (Scarecrow, Lonesome Jubilee e Big Daddy) che oltre a consentirgli vendite complessive vicine ai 15 milioni di copie lo affermava, a detta dei migliori critici, come uno dei grandi della storia del rock.
Eppure, proprio all’apice del successo, il tenace ‘coguaro’ scopriva tutte le contraddizioni di una ‘vita spericolata’, i contrasti tra il credersi artista e il dover fare i conti con il mercato discografico, le tensioni e gli obblighi di una vita da ‘rockstar’, le esigenze e i bisogni di un ragazzo che si scopre uomo a 40 anni. “Ho messo dentro tutto il meglio di me stesso quando stavo incidendo Big Daddy, ero così coinvolto che la mia crisi matrimoniale è scoppiata in quel periodo. Quando ho consegnato il ‘master’ alla casa discografica sai quale è stata la prima cosa che mi hanno detto? Hey, John, quanti ‘singoli’ ci sono nell’album? Cosa? mi sono detto, questi vogliono sapere quali sono i brani più adatti alla promozione nelle radio? … no, peggio, ‘sti stronzi vogliono solo quantificare quanti cazzo di soldi faranno con il mio lavoro!! ‘Fanculo, io non ne posso più di aver a che fare con questa gente di merda!”.
L’amaro sfogo di Mellencamp, fedelmente registrato da un cronista del mensile americano Musician, racchiudeva lo stato d’animo di un artista che, pochi giorni dopo aver realizzato uno dei suoi album più creativi, cadeva in una profonda crisi d’identità. Un intenso tuffo nella pittura (pare che nel suo atelier ci siano oggi oltre 600 dipinti) risultò terapeutico, aiutando John a trovare quegli equilibri psicologici che per anni erano completamente venuti a mancare e, conseguentemente, portandolo a riscoprire la sua voglia di musica.
“Ho iniziato a mettere a fuoco alcune cose importanti come i miei figli, ad esempio, e ho smesso di prendermi troppo sul serio”. Il rinato ottimismo ha fatto scaturire brani come Love And Happiness posizionato in apertura di Whenever We Wanted, l’album che nel 1991 riportava Mellencamp sulle scene internazionali, o Now More Than Ever.
Al di là delle valutazioni critiche su un disco risultato un po’ piatto e stilisticamente troppo uguale a se stesso, emergevano da quelle tracce sonore una voglia di vivere ed una serenità che raramente si erano riscontrate nei lavori precedenti.
Il 1992 mandava alcuni segnali importanti per i fans di Mellencamp: le sue apparizioni al Tributo a Bob Dylan di New York con la straordinaria interpretazione di Like A Rolling Stone e la puntata registrata per MTV nell’ormai mitico Unplugged (inspiegabilmente mai uscita su disco, pur essendo uno dei migliori show mai visti sul palcoscenico ‘senza spina’) confermavano che il ‘piccolo bastardo’ era in gran forma.
Così, l’uscita di Human Wheels, disco davvero interessante, non ha fatto che rafforzare la convinzione che il mondo del rock americano ha completamente ritrovato uno dei suoi esponenti più intelligenti e creativi. Dal punto di vista musicale, l’album possiede una varietà di schemi e di suoni che ricordano le migliori produzioni del ‘Cougar’ (ascoltate la bellissima Beige To Beige): una sapiente miscellanea elettroacustica sostenuta da un crudo rockbeat, con tanta chitarra e pochi ma essenziali cambi di accordi. Kerry Aronoff, fidato collaboratore di sempre, si concentra più che sulla batteria sull’utilizzo di varie percussioni che movimentano notevolmente i ritmi e le sincopazioni dell’album dandogli spesso sapori esotici di grande fascino.
L’atmosfera è riflessiva: la voce di Mellencamp è spesso narrativa (come nella magnifica track d’apertura When Jesus Left Birmingham) esplodendo a piena ugola solo quando il contesto lo rende necessario. I testi sono introspettivi e caldi ma al tempo stesso anche duri e spietati; a volte tesi al desiderio di capire e farci capire ma quasi sempre privi di una risposta definitiva. Il brano Junior è emblematico in questo senso con frasi del tipo “A volte mi sento meglio, ma non mi sento mai bene del tutto” oppure “So che mi sto perdendo qualcosa, ma non so cosa”.
Ma è in Case 795 (The Family) che la proposta di Mellencamp raggiunge l’apice: un brano-denuncia che racconta un processo per uxoricidio, crimine che unito all’abuso sessuale e alle violenze sui bambini è uno dei più diffusi nella provincia statunitense. Qui Mellencamp possiede un’intensità di comunicazione che colpisce a più livelli e che è in grado di dare il vero valore musicale, poetico e sociale di Human Wheels.
E sono proprio queste tre valenze artistiche che accomunano il lavoro di Mellencamp a quello di Hiatt.
Pur essendo personaggio meno enigmatico e contorto, infatti, John Hiatt ha saputo condensare nei suoi progetti le medesime qualità musical-culturali dell’ex-coguaro pur non raggiungendo mai il medesimo successo commerciale. Più musicista e meno personaggio di Mellencamp, Hiatt deve buona parte della sua longevità artistica all’amicizia e alla stima di Ry Cooder.
Fu proprio il chitarrista californiano che, in due diversi momenti, risollevò le quotazioni di John ospitandolo prima nella sua band alla fine degli anni ’70 quando, nonostante due album di discreto valore, Hiatt si ritrovò senza contratto discografico coinvolgendolo subito dopo in alcune sue produzioni discografiche e nella colonna sonora di Frontiera. E poi soprattutto nel 1987 quando decise insieme a Nick Lowe e a Jim Keltner, di aiutare John a registrare in soli quattro giorni Bring The Family, l’album che rilanciò le quotazioni di Hiatt.
Solo due anni prima, infatti, Hiatt aveva dovuto affrontare una forte crisi depressiva a seguito del suicidio della moglie e a una dura battaglia per combattere il suo stato di alcolista. Trasferitosi da Los Angeles a Nashville aveva ritrovato la sua vena creativa grazie ad un nuovo matrimonio e a una cura di disintossicamento. Con Bring The Family, Hiatt iniziava una trilogia di lavori belli e coinvolgenti (Slow Turning e Stolen Moments) prima di affrontare ancora una volta con l’aiuto di Ry Cooder l’avventura Little Village, supergruppo che ha visto riunita la stessa band che aveva inciso Bring The Family.
Musicista ‘di culto’, apprezzatissimo nell’ambiente, John Hiatt ha firmato canzoni che sono state poi riprese da un’infinità di artisti: Bob Dylan, David Crosby, Joan Baez, Emmylou Harris, Bonnie Raitt, Paula Abdul, The Neville Brothers, The Everly Brothers, Jeff Healy, Dr. Feelgood, lggy Pop, sono solo alcuni tra coloro che hanno utilizzato i brani di Hiatt per confezionare alcuni grossi successi, tanto che David Wykoff (giornalista di Billboard) ha recentemente curato per la Rhino Records una interessantissima compilation (Love Gets Strange – The Songs Of John Hiatt – Rhino R2 71267, 1993).
Ma essendo personaggio che non ama sedersi sugli allori, Hiatt con Perfectly Good Guitar, il recente ultimo album, ha deciso di spingere più avanti il suo discorso musicale. Abbandonati il padrinato di Cooder e certe atmosfere elettro-acustiche, un po’ countryeggianti, che avevano contraddistinto i due precedenti lavori, John si lancia in una nuova avventura che, per sua stessa ammissione, gli è stata ispirata dal figliastro quindicenne Rob. “Rob mi portava sempre a casa i nastri di queste strane band di Seattle o li metteva sullo stereo quando lo accompagnavo a scuola in macchina. Hanno cominciato a piacermi le voci dei cantanti, poi il suono delle chitarre e il fatto che come me, usavano tre accordi di base”.
Così, con l’aiuto di Matt Wallace (produttore dei Faith No More), Michael Ward (chitarrista di School Of Fish), Brian Mc Leod (batterista di Wire Train) e di John Pierce, Hiatt ha dato vita ad un album certamente più duro e violento di quelli a cui ci aveva abituati ma non per questo meno valido.
Molte delle composizioni presenti nell’album (Angel, Buffalo River Home, ad esempio) continuano ad avere le stesse brillanti qualità melodiche e strutturali dei lavori precedenti mentre è probabilmente Loving A Hurricane il pezzo che più di altri descrive il nuovo suono di Hiatt e la sua ritrovata energia.
Entrambi alle prese con un nuovo entusiasmante ciclo, Hiatt e Mellencamp rinnovano le gesta del miglior rock americano d’autore. Nonostante le molte analogie, non ci sono stati finora episodi ufficiali di collaborazione tra i due: e se ci provassero?
Ezio Guaitamacchi, fonte Hi, Folks! n. 61, 1993