All’Alamodome ho provato l’’effetto Garth Brooks’: 40.000 persone in delirio per un concerto country! Ne avevo già viste tante (migliaia) a qualcuno dei Picnic di Willie Nelson per il 4 Luglio o a qualche altro Festival ma mai così tante ed infervorate. Era un po’ che mi sfuggiva questo evento: per ragioni ogni volta diverse, pur essendo di stanza ad Austin piuttosto di frequente, lo mancavo. Questa volta è andata! Il programma oltretutto era più che allettante: un totale di cinque concerti in un giorno, da mezzogiorno alle undici di sera.
I nomi: Terri Clark, Aaron Tippin, Faith Hill, Tim McGraw nonché il padrone di casa George Strait. Una leccornia. Costo del biglietto: 35$ (!). Tra gli sponsor, gli ormai onnipresenti Bud Light, Wrangler, Chevrolet Trucks. Per cornice l‘Alamodome, un megapalasport visibile da lontano arrivando dalla Interstate 35, a mezzo miglio dalla plaza dell‘Alamo, nel cuore di San Antonio. Le dimensioni sono tali che, per la distanza, dalla mia posizione le figure sul palco sono alte un centimetro. Per fortuna ci sono i megaschermi. Davanti a me due cowboys con relative girls si abboffano di popcorns e birra; sono molto festosi e provano l’ululato del coyote. Li applaudiamo.
I concerti all’Alamodome iniziano quasi puntuali in un’atmosfera da fiesta rovente. C’è grande accoglienza per Terri Clark, esordiente recording artist per la Mercury Nashville. L’avevo già notata lo scorso ottobre alla cerimonia dei CMA Awards, un po’ impacciata nella formalità del grande evento di gala. Sul palco dell’Alamodome appare invece decisamente spigliata e dimostra buona padronanza della scena. Nell’ora di concerto sfoggia bella presenza, un’altrettanta bella voce da Emmylou Harris prima maniera ed un buon repertorio neotradizionalista. Assolutamente piacevole.
Dopo tre quarti d’ora di intervallo salta sul palco Aaron Tippin, ‘The workingman of Country Music’. Voce più nasale che sui dischi, look consueto da Village People versione country (muscolo, baffetto, jeans attillato e giubbotto nero senza maniche) il nostro si presenta con Call Of The Wild seguita a ruota da Honky Tonk Superman; per l’occasione si butta a più riprese giù da un alto sgabello simulando il volo da Superman. Ho appena il tempo di meravigliarmi che lo vedo calcare un hard hat ed allacciarsi un cinturone di strumenti: tenaglie, cacciavite, ecc. É l’annuncio di una raffica di canzoni dedicate al lavoratore americano nel corso della quale si fa passare un martellone gonfiabile con cui mena colpi a destra e a manca cantando Swingin’ Like A Nine Pound Hammer dagli impliciti doppi sensi. É molto divertente e le canzoni sono buone a conferma della fama consolidata di grande showman che guadagna fans ad ogni concerto.
Piace soprattutto alle donne ma sta simpatico anche agli uomini perché si offre come ‘uomo comune’ e canta della vita di tutti i giorni seppure con immagini singolari. L’americanità è declamata e rivendicata appieno in ogni sua canzone, a maggior ragione quando omaggia con una introduzione parlata le Forze Armate che difendono il pianeta; la folla si alza ed acclama forte con whoops prolungati. I due cowboys davanti a me sono in piedi, visibilmente commossi; si tolgono il cappello e lo alzano in alto; uno dei due rimarrà in quella posizione per diversi minuti.
Sullo schermo passano le immagini dei Golfo e le Stelle e Strisce. Aaron attacca You’ve Got To Stand For Something (Or You’ll Fall For Anything). Un tripudio. Niente male per uno che solo pochi anni fa lavorava di notte in fabbrica e di giorno guidava fino a Nashville per piazzare le sue canzoni ed introdursi nell’ambiente musicale. Dopo tre dischi d’oro ed un platino dicono che Aaron suoni ogni anno per un totale di un milione di persone. Forse non diventerà una big star, non ha grandi entrature a Nashville, ma sicuramente è bravo e sincero e sprizza simpatia. Tenetelo in considerazione se capitasse dalle vostre parti.
Il consueto intervallo, durante il quale una marea di persone si riversa nei corridoi dell’Alamodome a comprare qualsiasi tipo di genere alimentare da ricovero immediato (primeggiano i nachos di Taco Bell con salsa al formaggio) di bevanda o di souvenir del concerto, ci introduce a Faith Hill, rivelazione femminile del 1993 con l’album Warner Take Me As I Am. Le sensazioni che ispira sono contrastanti: una voce bellissima, limpida e potente; lei è molto carina e si muove ormai da star consolidata; la band, formazione standard a sei più una corista solitaria, è impeccabile.
E allora dove è il problema? Nei repertorio e nello stile: un quasi-pop spersonalizzato, uniforme, imperniato essenzialmente sull’impasto delle voci; le canzoni sono per lo più irrilevanti. Ha il suo pubblico, Faith Hill, ma anch’esso si lascia andare solo in rare occasioni, per esempio per il più recente hit Let’s Go To Vegas. Un vero peccato, viene da pensare: con un repertorio adeguato potrebbe affermarsi come merita. Il giochino nell’intervallo è abbinato ad una lotteria interna: quattro cowgirls devono prendere con la corda delle finte mucche numerate. I relativi biglietti vincono un pick up Chevrolet. Non vinco.
In compenso, da lì a poco esplode sul palco Tim McGraw, attesissimo ed osannato dall’Alamodome. Applausi comprensibili e meritati: dal 1994 con il CD Not A Moment Too Soon su etichetta Curb, ha venduto più di cinque milioni di copie ed ha ottenuto innumerevoli nominations. Il CD seguente, All I Want, prima ancora di uscire aveva due milioni di prenotazioni: attualmente è ormai un multiplatino. Ma non avrei immaginato che il nostro avesse già acquisito un tale successo presso il pubblico dei concerti. In effetti è simpatico per quel suo atteggiamento di antidivo introverso (il cappello è sempre calato sugli occhi, la testa bassa sul microfono), per quel suo offrirsi al pubblico semplicemente, solo con le canzoni e quella voce non straordinaria ma adatta a raccontare storie quotidiane di feste di ragazzi, di fughe in Messico, di buoni sentimenti, di contenuta ribellione, di altrettanta contenuta spregiudicatezza.
Ma è la spruzzata di ritmo che lo rende particolarmente fresco e piacevole, specie per un pubblico giovane. Infatti il picco di entusiasmo io ottiene con Down On The Farm e l’apoteosi con I Like It, I Love It. Mare di accendini e girandole accese invece con quella Don’t Take The Girl che, inspiegabilmente per i miei gusti, aveva a suo tempo ottenuto un’infinità di nominations. Tutto molto bene dunque, non volendo considerare la deprecabile equalizzazione dei suoni ‘al rimbombo’, stile hard rock, che infaustamente contagia talvolta anche i tecnici del suono o certi artisti country.
Ad annunciare George Strait sui megaschermi dell’Alamodome è lo spot pubblicitario della Wrangler che lo vede protagonista. A seguire, tra l’entusiasmo generale e fasci di luce rotante, prende posto sul palco la Ace In The Hole Band. La formazione (due violini, steel, chitarra, basso, batteria, piano) e l’introduzione strumentale di Deep In The Heart Of Texas ci preannunciano un grande concerto di buon vecchio western swing. Ecco finalmente il padrone di casa che prende la scena e stacca immediatamente su Love Bug. Seguono a raffica Check Yes Or No, Lead On, Adalida, l’attuale n.1 in country chart I Get Carried Away e I Can Still Make Cheyenne dallo stesso Blue Clear Sky album, oltre che quasi tutti i brani degli ultimi tre CD e qualche immancabile classico. Dopo un’ora e mezza, a furor di popolo, è il caso di dirlo, viene richiamato per due bis che si concludono con una splendida versione di San Antonio Rose ed il consueto cavallo di battaglia The Fireman. I due cowboys davanti a me non hanno più voce.
Che dire di George Strait che già non si sappia? Forse, pur sapendo della sua popolarità, che non mi aspettavo avesse un tale carisma presso il suo pubblico. É una presenza che ‘si sente’ al pari di quella di un Willie Nelson, di un Merle Haggard o di un Johnny Cash. É certamente ‘un grande’ ormai come loro, che pur non avendo mai raggiunto tetti di vendita stratosferici ha pur sempre venduto costantemente tanto di tutti i suoi dischi ad un pubblico eterogeneo. A differenza di un Alan Jackson, di un Raoul Malo dei Mavericks, di un John Michael Montgomery, tutti beniamini del grande pubblico femminile, George Strait è amato ‘da grandi e piccini’, da uomini e donne di tutte le età, come del resto si confà ad una vera country star. La sua musica è carica di emotività, semplice ma ricca di sprazzi di virtuosismo strumentale, secondo la migliore tradizione dello swing texano.
Esco dall’Alamodome semistremato da quasi dodici ore di musica. La serata è calda. A poche centinaia di metri, sul riverwalk, c’è una festa messicana; il suono dei mariachi trasportato dalla brezza si sente quasi fino all’Alamo. È proprio vero: non c’è un altro posto come il Texas.
Fabrizio Salmoni, fonte Country Store n. 35, 1996