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In 35 anni ne avete raccontate di storie…
Oltre a quelle canoniche per far conoscere la storia del Blues e dei suoi interpreti, anche quelle che gli artisti stessi ci hanno narrato direttamente nei backstage, nelle stanze di albergo, sotto il portico di casa loro.

Con quali obietti decideste di fare una rivista dedicata al Blues?
Quando nell’82 pubblicammo il primo numero, avevamo già fatto i conti in tasca: almeno per un anno saremmo sicuramente sopravvissuti. La cosa bella fu che la rivista, rigorosamente in b&w, si è avvalsa nel tempo del contributo gratuito di musicisti, giornalisti esuli da pubblicazioni rock, dj, operai, laureati in fisica, impiegati, disoccupati, avvocati, semplici appassionati, etc… Nessuno avrebbe mai pensato che ‘The Blues Foundation di Memphis’, ci avrebbe un giorno conferito il riconoscimento ‘Keeping The Blues Alive’ nella categoria ‘Print Media’”, è successo nel 2009.

Nell’82 molti degli artisti storici come John Lee Hooker, Willie Dixon e Albert Collins erano in vita e diversi di loro ancora attivi. Questo rendeva più stimolante, rispetto ad oggi, parlare di blues?
Sì stimolante e importante. Fungeva da richiamo per quei lettori a cui ci rivolgevamo, il solo fatto di citare i loro nomi in copertina catturava l’attenzione.
Oggi la stimolazione, almeno per noi, ci proviene dalla ricerca del nuovo. Non tanto per amore della novità in se stessa, quanto di come possa mantenere una sua integrità senza plagiarne altre magari più appetitose. Ed è quello che successe negli anni ‘90, quando il Mississippi Hill Country Blues, alfieri R.L. Burnside e Junior Kimbrough, divenne la forma musicale più copiata dai gruppi rock americani e non.

Internet ha rivoluzionato il mondo, ma svuotato le edicole, tant’è che anche la tua rivista è per soli abbonati che la scaricano in pdf. E’ stato difficile accettare il cambiamento?
Internet ci ha condotti, dal 2013 dopo 30 anni di onorata vita cartacea, ad abbracciare, contro voglia, l’autostrada virtuale. Il passaggio non è stato indolore, necessario a livello finanziario, ma segnò l’aumento delle pagine della nostra rivista.

In tanti sostengono che internet abbia reso inutile la figura del recensore di dischi. Vale anche per le riviste specialistiche come Il Blues?
A noi non è accaduto un simile riscontro. Inoltre non ritengo che la figura del recensore sia in via di estinzione, ma che debba assumere una dimensione più colloquiale che critica, meno portata a disquisire su etichettature filosofiche, quanto invece a muoversi verso fenomeni più globali, il mondo delle ristampe ormai senza freni, etc.

In questi decenni il numero di festival è cresciuto in maniera esponenziale. E la voglia di approfondimento del pubblico?
Se ci rapportiamo a quelli esistenti all’anno della nostra nascita, il numero è aumentato in maniera impensabile. Per quanto riguarda la presenza del pubblico, costantemente in aumento, c’è da segnalare la difficoltà da parte dello stesso di considerare il festival come momento chiave per l’avvicinamento al blues e portarlo con sé anche, ma soprattutto, dopo lo spegnimento dei riflettori.

Qual è la situazione della musica blues nel resto d’Europa?
Mio figlio Davide, dallo scorso anno Presidente della European Blues Union, mi ha raccontato che dalla sua fondazione nel 2008 la qualità è notevolmente cresciuta, è sì il risultato dei gruppi esperti da anni nel giro, ma anche grazie alla linfa a volte eccessiva ma spesso utile messa in campo dalle band emergenti.

Maurizio Faulisi, fonte Chop & Roll n. 36, 2018

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