Alison Krauss

E’ curioso come nel nostro paese, salvo rare eccezioni, le riviste di settore anziché offrire ai propri lettori un panorama più vasto possibile su quanto di buono succede nel mondo della musica, siano legate alle scelte delle case discografiche e alle sterili tendenze create dal maggior canale di comunicazione, il quale, insieme alla quasi totalità della radiofonia ‘libera’, ha annientato senza pietà il desiderio di conoscenza da parte delle giovani generazioni, appiattendo la massa, e omologando gli altri all’interno di alcune diverse correnti culturali e stilistiche, antagoniste al ‘suono del sistema’, gratificate dall’illusione di essere ‘diverse’, e non conscie di essere loro stesse un mercato parallelo – spesso più interessante del primo dal punto di vista economico -.

Le rare eccezioni di cui si diceva all’inizio, tuttavia, cadono spesso nell’errore di volere a loro volta proporsi come alternative, offrendo al lettore un panorama filtrato dal gusto personale di chi le dirige, piuttosto che i mezzi per poter valutare personalmente in quale direzione avviarsi. Questo è, a mio modesto parere, il motivo per cui si legge molto di alcuni e assolutamente nulla di altri, a prescindere dalla qualità della musica prodotta dall’artista.
Un nome di cui, ingiustificatamente, non si è letto nulla, o quasi, è quello di Alison Krauss. Non si giustifica perché, come dice il titolo, si tratta di un fenomeno, ed in quanto tale avrebbe dovuto essere analizzato. E’ cosa rara per una etichetta indipendente vendere oltre un milione di copie di un disco; ancora più raro è che si tratti di una compilation che propone brani contenuti nei precedenti dischi di un’artista che, al momento della sua uscita, abbia solo ventiquattro anni.

Quello di Alison Krauss, vendite a parte in quanto è lei a detenerne il record, non è il primo caso del genere nel mondo della musica bluegrass; prima di Alison, infatti, vi sono stati altri nomi – tutti maschili – arrivati a notorietà non solo per le doti tecnico-musicali, ma anche per la tenera età, basti pensare a Jerry Douglas, Ricky Skaggs, Marty Stuart o Mark O’Connor, solo per citarne alcuni. Leggendo dei primi passi di questi musicisti ci si rende conto di quanto simili siano stati i loro inizi, e non per coincidenza, bensì grazie ad una tradizione che consente ai bambini di vivere direttamente a contatto con la musica, sia in ambito domestico che sociale. Tutti hanno avuto uno o più familiari musicisti, per diletto o professione, e tutti, naturalmente, hanno avuto possibilità di vivere le proprie prime esperienze in jam session, festival, convention, provandosi in contest, e grazie a questi cominciando a guadagnarsi fama.

Alison Krauss, a conferma di quanto sopra, è figlia di un chitarrista e di una banjoista, e solo cinque anni dopo la sua nascita, avvenuta nel 1971, comincia a prendere lezioni di violino classico. L’impostazione e l’intonazione sono cosa acquisita velocemente, e l’applicazione di tale bagaglio tecnico in un contesto bluegrass è naturale conseguenza, poiché oltre ai grandi maestri classici la piccola Alison è a Kenny Baker e Stuart Duncan che si ispira. Violinisti, questi, figli di una tradizione secolare che ancora oggi fa riferimento alle fiddle tunes di origine scoto-irlandese.

Il talento della bambina è confermato dai numerosi contest vinti e dagli incoraggiamenti di professionisti con i quali ha avuto modo di improvvisare in jam sessions.
La prima esperienza in studio di incisione la deve al fratello Viktor, contrabbassista jazz, ma anche valido musicista di tuba, corno e piano (oggi suona il contrabbasso nella Large Band di Lyle Lovett), che incide Different Strokes quando la sorellina era solo quattordicenne. L’anno successivo, il 1986, dopo essersi esibita al famoso Newport Folk Festival ed al Kentucky Fried Chicken Festival, Ken Irwin la invita a firmare un contratto con la sua Rounder Records e si propone in qualità di produttore del suo debutto discografico.
Too Late To Cry esce all’inizio del 1987 e subito l’intera comunità bluegrass si convince di essere di fronte ad un’artista che porterà il genere a maggiore esposizione. Una boccata di ossigeno nel momento giusto per il mondo della musica bluegrass: nel 1985 nasceva la International Bluegrass Music Association, una organizzazione di fans e addetti ai lavori che si dava come obiettivo quello di sensibilizzare l’industria e i mass media nel valorizzare un genere che, apparentemente, non riusciva a destare l’interesse delle nuove generazioni (l’età media degli spettatori dei festival – esclusi Telluride et simili – era 50 anni o giù di lì).

Si immagini quindi come può essere stata accolta Alison, una bambina che cantava divinamente e suonava il violino altrettanto bene. Ken Irwin questo lo intuì subito, tant’è che il disco lo registrò utilizzando musicisti del calibro di Sam Bush, Russ Barenberg, Roy Huskey, Jerry Douglas, Tony Trischka, John Cowan, ecc. e Jim Rooney come ingegnere del suono.
Il tipo di sound prodotto fu quello che marcò i futuri Union Station, la band di Alison: qualche tradizionale, pochi in realtà, canzoni moderne di nuovi autori sconosciuti ma dalla penna sensibile (John Pennell, Sidney Cox su tutti) e di autori di provata esperienze e fama internazionale (Paul Craft, Rodney Crowell). L’uscita di Too Late To Cry fu preceduta da un notevole interessamento da parte della carta stampata, non solo quella che si occupa di bluegrass e musica acustica in genere, ma di riviste come il settimanale People Magazine, una delle più vendute in USA; e questo, naturalmente, trasformò quel debutto in uno degli eventi discografici dell’anno nell’intero settore della musica acustica.

Dal 1987 al 1989, cercando di far conciliare gli impegni scolastici con quelli, sempre più pressanti, del music business, Alison diede buona prova di sé con delle esibizioni, nei festival estivi, di altissimo livello, coadiuvata da un trio potente e compatto, formato da Jeff White (chitarra, cori e voce lead), Mike Harman (banjo e cori) e John Pennell (contrabbasso).
Questa fu la formazione che entrò in studio nell’89 per incidere Two Highways, con l’apporto di Jerry Douglas (dobro) e Brent Truitt (mandolino). Il primo disco con la sua band confermò ogni aspettativa, e mostrò una maturazione della Alison cantante che, per quanto soffrisse di un timbro ancora acerbo (18 anni!), mostrava di essere notevolmente cresciuta, tanto che Jimmy Ibbotson (Nitty Gritty Dirt Band) si ‘scusò’ per averle strappato l’award di miglior disco dell’anno dichiarando quella sera: “E’ un onore essere nominati nella stessa categoria con una cantante e musicista come Alison. E’ semplicemente una delle migliori cantanti del pianeta”.

In Two Highways quattro canzoni vennero cantate dal bravo chitarrista Jeff White, tutte molto diverse l’una dalle altre, dal tradizionale Wild Bill Jones (forse è questa la sua migliore prova vocale) al 3/4 As Lovely As You (una delle tre bellissime canzoni scritte per questo disco da John Pennell, il contrabbassista della band), dal blueseggiante gospel Lord Don’t Forsake Me, a quella Midnight Rider di Greg Allman. Il disco vendette molto bene, la notorietà aumentò, e con questa anche gli impegni di lavoro, che li portarono in tour dentro e fuori gli Stati Uniti, fino al Medio, Estremo Oriente e Russia.

Il 1990 vide la pubblicazione del primo disco che, parallelamente alla continua crescita di celebrità, le causò qualche problema all’interno del circuito bluegrass. Se è vero infatti che il precedente disco non poteva certo essere considerato bluegrass nel senso più stretto del termine, è altrettanto vero che I’ve Got That Old Feeling, nonostante il titolo, si dirigesse stilisticamente in quella direzione delineata da alcuni brani presenti in Two Highways, brani decisamente country, quel country d’autore, acustico, che pur mantenendo le distanze da Nashville si teneva altrettanto lontano dallo stile puro così come lo concepirono i ‘padri fondatori’. Risultato, una serie inarrestabile di lettere di disapprovazione alla rivista Bluegras Unlimited, seguita da un’altrettanto alto numero di risposte da parte di lettori e appassionati ‘open minded’, che in lei vedevano finalmente la possibilità di far arrivare il genere ad un più vasto pubblico, oltre che una naturale evoluzione di questa musica.

I più arrabbiati si scagliarono soprattutto sulla scelta del produttore di inserire pianoforte e batteria a fianco di strumenti come fiddle e mandolino. Comunque sia, I’ve Got That Old Feeling le fece portare a casa un Grammy Award per Best Bluegrass Recording of the Year e un altro come migliore vocalist femminile da parte della International Bluegrass Music Association, il video clip della title track (scritta da Sidney Cox) per lungo tempo fu il più trasmesso da Country Music Television e il brano Steel Rails, dove non erano presenti ne piano ne batteria, entrò nella Country Top 75.
Nel periodo in cui incise questo suo terzo lavoro, gli Union Station di Alison Krauss stavano subendo alcune rilevanti modifiche d’organico, e probabilmente la scelta di inciderlo a suo nome soltanto fu dettata da questa circostanza: solo Jeff White era ancora presente rispetto a Two Highways. I produttori Jerry Douglas e Bill VornDick decisero così di utilizzare i soliti grandi nomi di Stuart Duncan, Sam Bush, Glen Worf, Edgar Meyer ecc. oltre al citato chitarrista e alla nuova Alison Brown, una delle migliori banjoiste dell’intera storia del blue e newgrass, entrata a far parte della band da poco.

Due anni dopo Alison presenta i nuovi Union Station, e con loro uno dei migliori dischi bluegrass mai incisi, Every Time You Say Goodbye. All’uscita del disco, nel 1992, l’intera comunità bluegrass rimane attonita di fronte ad un prodotto di tale bellezza, grinta, perfezione, un album che sprigiona una carica adrenalinica ed emotiva inimmaginabile, premiata da un suono ed una produzione impeccabili. E lo stesso si può dire per la scelta dei brani, di varia provenienza, dal campo del cantautorato a quello tradizionale, oltre all’utilizzo dei soliti Sidney Cox e John Pennell.

La grandezza dell’album è data dalla nuova formazione, composta da nomi giovani ma con provata esperienza, un vero e proprio connubio di tecnica e feeling insieme ad un rigorosa consapevolezza del ruolo da parte di ognuno dei musicisti. Tutti di altissimo livello, a partire da Ron Block, il banjoista e chitarrista al quale è stato tributato un articolo di riconoscimento sulla rivista Country Guitar; Adam Steffey, mandolinista dalla ritmica impeccabile e solismo raffinato; Barry Bales, contrabbassista eccelso dal drive pulsante e grintoso; Tim Stafford, chitarrista originale ed impetuoso lead singer.

Every Time You Say Goodbye
è il disco che ha cancellato ogni dubbio, anche da parte dei più tradizionalisti, sul futuro di questa band e sulle scelte di Alison Krauss, ormai giunta ad un livello di compiutezza sia dal punto di vista vocale che violinistico: un uso della voce esemplare, un violinismo elegante e sofisticato, aggressivo ed irruento.
Every Time You Say Goodbye per la bellezza delle sue canzoni, per l’alto livello tecnico dei musicisti, per la perfezione degli arrangiamenti, per il bilanciamento dei pezzi, ritengo sia il disco che oggi, più di ogni altro, possa essere consigliato a chi vuole ascoltare musica acustica moderna e dal suono country.

E’ dal 1992 che Alison Krauss e gli Union Station non entrano in studio, se non per prestare ad altri il loro talento – Alison lo ha fatto spesso, producendo e cantando anche nei i dischi della Cox Family, collaborando con molte star della country music, nomi relativamente nuovi e consolidate stelle come Dolly Parton – se non si considera la produzione di tre brani presenti in Now That I’ve Found You – A Collection. Si tratta di una raccolta di dodici canzoni, non proprio un ‘Greatest hits’, in quanto solo quattro di esse sono state estratte dai primi quattro dischi di Alison, ma una retrospettiva che include anche collaborazioni, oltre alle tre canzoni sopra citate, registrate con l’ultima formazione nel 1994 (Dan Tyminski, ex Lonesome River Band, è il nuovo chitarrista del gruppo). La raccolta, voluta probabilmente dalla casa discografica, conscia delle aspettative del pubblico, è il prodotto che ha venduto di più, scalando la classifica dei dischi country, superando il milione di copie.

Come un giorno Tony Trischka, banjoista di fama internazionale, ebbe a dire: “Vi sono artisti che riescono ad essere geniali senza alcuno sforzo, perché è nella loro natura esserlo, e ci sono musicisti, come me, che per raggiungere un certo livello devono lavorare notte e giorno per una vita…” Non credo vi sia bisogno di precisare in quale di queste due categorie Alison Krauss vada inserita…
Per chiudere questo mio modesto contributo ad un’artista inspiegabilmente ignorata in Italia, utilizzerò le parole scritte proprio da Tony Trischka sul retro del debutto discografico di Alison Krauss nell’ormai lontano gennaio 1987, parole che allora potevano suonare come una scommessa, scritte da un musicista sensibile nel capire ciò che stava ascoltando tanto da potersi permettere di ipotizzare il futuro: “Alison’s is an important talent. And this album is the first permanent outpicturing of that talent, one that will continue to deepen and expand as the years go on”.

Discografia:

-Too Late To Cry, Rounder 0235
-Two Highways, Rounder 0265
I’ve Got That Old Feeling, Rounder 0275
-Every Time You Say Goodbye, Rounder 0285
-Now That I’ve Found You – A Collection, Rounder 0325.

Maurizio Faulisi, fonte Country Store n. 34, 1996

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