CMA Fan Fest logo

Per la seconda volta ho la fortuna di raccontarvi cosa è accaduto a Nashville nei sette giorni più frenetici che la capitale del Tennessee vive durante l’anno, in una parola durante la ventinovesima edizione del CMA FAN FAIR. Lo ammetto, non è facile riordinare e rivivere tutte le emozioni di una settimana vissuta senza sosta da un concerto all’altro, ma proverò anche quest’anno a raccontarvi degli artisti, della gente, del clima che rendono questo festival il più importante appuntamento per ogni appassionato di country music. Eh sì, dalla sua prima edizione ad oggi, il Fan Fair ha avuto una crescita di importanza esponenziale, richiamando a Music City un numero sempre maggiore di spettatori provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti e non solo.
Succedeva che ogni ottobre, in occasione dell’annuale Country Music DJ Convention, convergeva a Nashville un gran numero di artisti per promuovere la diffusione radiofonica del proprio lavoro. Conseguentemente numerosissimi erano anche i fans che arrivavano in città per sfruttare quella occasione, più unica che rara, di incontrare così tanti cantanti e musicisti in una sola volta.

La CMA e la Grand Ole Opry, pensarono allora di decongestionare i lavori della convention creando un evento da tenersi ogni anno ad aprile, che portasse impresso nel nome la sua caratteristica più importante: quella cioè di essere stato pensato e costruito per avvicinare i devoti fans della country music agli eroi di Music Row.
Era il 12 Aprile del 1972 quando il primo Fan Fair si tenne al Nashville Municipal Auditorium, con la partecipazione di circa 5.000 persone.
Da allora, come ho già detto, sono stati molti i momenti da ricordare che hanno scandito le 29 edizioni della manifestazione, incalcolabile il numero degli artisti che si sono esibiti o hanno firmato autografi, imponente il numero di spettatori presenti negli anni.
Nel 1996, in occasione del 25° anniversario, insieme agli oltre 600 media nazionali, erano accreditati rappresentanti di TV e radio svedesi, giapponesi, spagnole, francesi etc…
In occasione della scorsa edizione, il Nashville Conven­tion & Visitors Bureau ha stimato in circa 150 milioni di dollari l’impatto avuto fìn’ora dal festival sull’economia della città e della contea di Davidson.
Cifre impressionanti che dimostrano come il Fan Fair non dia da mangiare solo ad artisti e discografici ma anche a coloro che svolgono le attività più disparate legate in qualche modo al country: locali a tema, negozi e ristoranti in Downtown Nashville. compagnie di trasporti urbani fino alle agenzie viaggi che sempre più numerose offrono vantaggiosi pacchetti tutto compreso per un perfetto ‘pellegrinaggio’. Proprio ad uno di questi tour operators mi sono rivolto l’anno scorso, allo stesso Joe Fish mi sono aggregato quest’anno per il primo Fan Fair del nuovo millennio…e proprio di questo vi vado a raccontare.

11 Giugno
La domenica fa da cornice all’annuale International Fan Club Org. Concert allestito allo splendido e storico Ryman Auditorium dove si danno appuntamento coordinatori e membri dei diversi clubs che supportano i vari artisti, con un’attività di livello assolutamente professionale.
L’IFCO mette a loro disposizione diversi canali di diffusione e per autocelebrarsi organizza questo ‘concertino’, capace ormai da 33 edizioni di riunire artisti di ogni livello: giovani emergenti, vecchie glorie e stars del mercato discografico contemporaneo.
L’inizio della serata è fissato per le nove e ci vogliono solo pochi minuti a piedi per raggiungere il teatro dal mio albergo, situato nella quarta strada a due passi dalla Broadway da risalire fino all’incrocio con la quinta dove si trova l’entrata del Ryman.
Con passo deciso ma sempre emozionato, dirigo i miei stivali fino al mio posto e sgrano gli occhi sul programma del concerto, un cenno di saluto ai miei compagni di viaggio e poi via alle note.
In apertura si alternano sul palco alcune giovani promesse del country nashvilliano: lo statuario Blake Shelton, un cowboy dal vocione profondo molto adatto per ballate lente e melodiche, le Sisters Wade con il loro country acustico dal sapore tradizionale, chitarra e mandolino con cui le due sorelle accompagnano le dolcissime armonizzazioni vocali.
Un inizio insomma assolutamente godibile ma il pubblico aspetta i nomi di un certo livello e inizia a scaldarsi con David Ball che attacca con il suo puro honky tonk, stile impeccabile, magari un po’ ripetitivo ma che importa, comunque sempre fedele a sé stesso.

Un piacere anche vedere Paul Overstreet interpretare alcuni dei suoi più importanti successi tra cui la splendida When You Say Nothing At All resa famosa anche in ambito pop. Poche note di intro bastano a riconoscere My Heart Has A History, cavallo di battaglia del canadese Paul Brandt: quando con quella voce raggiunge e stilizza i bassi delle sue canzoni fa venire il nervoso, quasi volesse dirti: visto come mi riesce facile?”., bravo! Molto bravo! L’atmosfera si va scaldando quando arriva il momento di Michael Peterson, l’unico a salire sul palco senza una band alle spalle ma accompagnandosi con la sola chitarra acustica. Quella che viene fuori è un’affascinante perfor­mance con una perfetta sintonia tra suoni, scelta dei pezzi (prima No More Looking Over My Shoulder poi When The Bartender Cries) e luci soffuse del teatro.
E’ il momento di lasciare la scena ad una veterana doc del Nashville sound come Lynn Anderson: ahimè, il tempo passa per tutti e lei non è più la bellissima donna degli anni ’60/70, però la voce è rimasta intatta, anzi sembra quasi aver acquistato maggior vigore, così come la capacita di trasmettere al pubblico l’energia delle sue canzoni; e poi Rocky Top e Rose Garden restano pezzi di grande richiamo.
Dopo la consueta quanto onestissima apparizione di Jeff Carson, un cantautore che magari non fa classifica ma che non sfigura, lo show si concede una pausa di un quarto d’ora, buona per andare a caccia dei primi autografi e per mangiare qualche porcheria. Si riprende con un po’ di comedy, un comico locale che fa letteralmente ribaltare dalle risate il pubblico presente…Mah?!

Finalmente torna la musica con John Berry e la sua pungente voce che va su, su fino alle note più alte a riempire la sala con una serie di pezzi nuovi nuovi anche se le cose migliori arrivano ancora dai più datati She’s Taken A Shine e Yow Love Amazes Me.
Attesissimi subentrano gli inossidabili Bellamy Brothers, poco tempo per le chiacchiere, sono troppe le hits che i due hanno in repertorio ed i fans della band le vogliono tutte: Let Your Love Flow. Dancin’ Cowboy, Redneck Girl. If I Said You Had A Beautiful Body e così via. Più fenomeno folkloristico che musicale, tuttavia i Bellamy mi sono sempre riusciti simpatici e senza troppe pretese da stars, vederli dal vivo mi ha confermato anzi accresciuto questa opinione: melodie ed arrangiamenti semplici, testi spiritosi e spensierati, buoni vocalist, credo che tutto sommato il loro sia un successo meritato.
Molto meglio comunque la mezz’ora abbondante resa intensa da Eric Heatherly, nuova vedette della Mercury Records, finalmente al suo primo disco dopo la consueta gavetta. Già l’anno scorso avevo potuto apprezzare le doti di questo giovane di Chattanooga, cantautore nonché ottimo chitarrista, il suo è uno stile che si discosta da quello che viene etichettato come new country per rifarsi più decisamente al sound honky-tonk e rockabilly dal sapore antico.
Eric si presenta sul palco con la sua chitarra, vestito con un palo di pantaloni rosso fuoco e camicia nera e bianca con ricamo in stile di una pin-up, ciuffo e basette alla Elvis. La band che lo accompagna è ridotta all’essenziale: batterla, basso acustico, tastiere. Con poche note di Someone Else’s Cadillac il buon Heatherly ha in mano il pubblico e lo conduce attraverso una serie di fenomenali virtuosismi chitarristici passando per i caldi vocalizzi di Swimming In Champagne per chiudere con la sua riedizione di Flowers On The Wall, vecchia hit degli Statler Brothers, primo singolo per Eric trasmettitissimo dalle country radio che fa esplodere l’entusiasmo del teatro. L’acquisto del suo Cd diventa un must del mio shopping musicale; senza dubbio la miglior cosa della serata.

Ma veniamo alle, anzi alla dolente nota del gran finale, tutto dedicato alla Charlie Daniels Band che alla fine suonerà per circa un’ora. Non metto in dubbio le doti di chitarrista-violinista di Daniels ma la scaletta, i volumi, gli arrangiamenti, la prestazione vocale sono risultati quasi insopportabili, sicuramente non in sintonia con il resto dello spettacolo e con la cornice dell’Auditorium.
Non voglio offendere i numerosi fans della band, prendetela come un’opinione personale (anche se molti dei presenti hanno abbandonato il teatro con largo anticipo) ma se penso che un anno fa lo stesso concerto veniva chiuso da Marty Stuart…Marty dove sei!!!
Una piccola grande macchia che però non è riuscita a rovinare la soddisfazione per una bella serata di introduzione alla quattro giorni del festival.

12 Giugno
La radiosveglia, puntata ovviamente su una delle tante emittenti country della città, mi butta giù dal letto di prima mattina, ma quale piacere visto che devo raggiungere quella che per i prossimi quattro giorni sarà la mia casa: il Tennessee State Fairgrounds.
Trentuno ore di concerti, più di cento artisti che si alterneranno sul central stage, circa duecento stands disseminati su tutta l’area, una valanga di ore destinate ad autografi e fotografie: un paradiso!
Scendo in tutta fretta dal pullman ed istruisco mio fratello e mia madre, che si sono aggregati a me: arraffare qualunque tipo di gadget e memorabilia, riviste e dischi distribuiti gratuitamente, non muoversi mai senza macchina fotografica a portata di mano perché ad ogni angolo si può incontrare una star da immortalare.
Sembra eccessivo ma è niente in confronto alla organizzazione di alcuni ragazzi locali riuniti in gruppi con tanto di walkie talkie per tenersi informati su tutto ciò che avviene. Detto questo, mi accodo alla lunga entrance line che mi catapulta nel vortice dei festeggimenti.
Avendovi già assistito l’anno scorso, mi evito volentieri le cerimonie di apertura degli organizzatori e così mi faccio un primo giro tra gli stands per cominciare a riempire lo zaino. Un occhio all’orologio perché è ora di prendere posto sulle tribune del main stage per l’inizio dello show della Atlantic e Giant Records.

Neal McCoy è il solito show-man, non lesina passi di danza e corse per infiammare la folla; il ragazzo ha una gran bella voce e, malgrado un repertorio non sempre di alto livello, piace. Sinceramente ho preferito l’esibizione dei Confederate Railroad guidati dal buon Danny Shirley che ha perso un po’ dì capelli ma non il vizio di cantare alla sua maniera i cavalli di battaglia della band.
Bando alle ciance, veniamo ai veri protagonisti dello spettacolo mattutino. Prima di tutto i canadesi Wilkinsons, sempre più sulla cresta dell’onda, sono un vero piacere: una bella voce quella della giovane Amanda che conduce in quasi tutte le più che orecchiabili hits del trio, a cominciare dal singolo d’esordio l’autobiografica 26 Cents e poi via via tutte le altre fortunatissime Fly (The Angel Song), Boy Oh Boy per non parlare dello yodel sfoggiato nella vivace Yodelling Blues.
Alla festa prende parte anche il fratello minore Tyler protagonista come lead vocal in Jimmy’s Got A Girlfriend primo brano di punta del nuovo album Here And Now, un po’ defilato il padre Steve che accompagna i figli alla chitarra acustica e back vocals. Una bella prestazione la loro, calorosamente salutata dal folto pubblico che darà un’altra soddisfazione al trio, votando il loro come miglior stand del festival nel consueto Fan Fair Booth Contest.
Il vero pezzo forte della mattina resta comunque il concerto che segue quello dei Wilkinsons: sono circa le 11:30 quando sale sul palco John Michael Montgomery e con lui sale anche l’ovazione dei fans. Per chi ama il new country, si tratta infatti di una vera icona che conferma on stage tutto ciò che di buono ha saputo fare nella sua carriera: ritmi incalzanti di classici come It’s What I Am, Sold, Llfe’s A Dance si alternano alle romantiche ballate I Swear e Home To You con le quali John ha saputo conquistarsi il pubblico femminile.

Con Kick It Up Montgomery chiude il suo intervento e come consuetudine gira la sua chitarra acustica per far leggere ai 20.000 assiepati sulle tribune il suo THANK YOU scritto sulla cassa.
Finito il programma mattutino, c’è più di un’ora di tempo per incontrare qualche artista, avere i primi autografi sulle ‘mitiche’ foto promozionali in bianco e nero, scambiare una parola con i simpatici coordinatori dei vari fan clubs.
Il tempo vola ed è già ora di tornare per i concerti del pomeriggio organizzati da Warner Bros., Reprise e Asylum. Tutti godibili ma qualcuno merita un cenno particolare: l’australiana Kasey Chambers con il suo alternative country di impostazione acustica, a tratti geniale, di tutt’altra ispirazione le ballate sentimentali raccontate da Chalee Tennison, e poi c’è il vocione potente di Chad Brock felicissimo per la sua seconda N.1 hit Yes, pezzo di grande impatto live che Brock esegue alla fine di una buona esibizione, new country solare ed accattivante!
Meno celebrata ma di grande spessore la performance di Anita Cochran, finalmente tornata in pista con un nuovo album; il suo show alterna lenti di stampo nashvilliano a sfrenati honky-tonks in cui da il meglio di sé come nella bellissima Let The Gultar Do The Talking, e lei la sua telecaster la fa parlare eccome!
Come ogni giorno, lo spettacolo serale è quello che prevede la line-up più lunga e densa di nomi grossi, oggi tocca alla Sony presentare la sua lista di campioni per le tre ore di musica che a partire dalle 07:00 chiuderanno questa prima giornata.
Gli Yankee Grey sono un gruppo tipicamente new country adatti per rompere il ghiaccio con un paio di trascinanti canzoni come Al Things Cosidered e Another Nine Minutes, hanno una buona energia sul palco ed il loro è un sound che mette di buon umore.

Certo è che con Joe Diffie il tono si alza decisamente, ormai è un marchio di garanzia: lo vedi, sai che suonerà Pick-Up Man o Third Rock From The Sun e già ti esalti all’idea, quando poi la voce di Diffie irrompe nella sua pienezza il quadro è completato.
Quando sul palco arriva Ty Herndon è impossibile intuire la presentazione dello speaker coperto dalle urla di migliaia di donne di tutte le età in delirio: il giovane Ty non le delude e si concede totalmente al suo pubblico ballando e ammiccando e naturalmente cantando tutti i sui più famosi successi con in più una coreografata You Can Leave Your Hat On che infiamma ancora di più i cuori femminili. Tanta immagine dunque ma anche buona sostanza, lui sa cantare e bene, è un animale da palcoscenico, il suo country pop è assolutamente apprezzabile.
Certo i momenti migliori della serata sono stati altri, il duo Montgomery Gentry ad esempio è stato strepitoso, ormai molto di più che gli esordienti dell’anno scorso, i due hanno un repertorio di pezzi che dal vivo rendono benissimo: Hillbillie Shoes, Daddy Won’t Sell The Farm e Self Made Man vengono scandite come degli inni dal pubblico. I due sono davvero pazzi, impossibile seguire le loro mosse, in particolare Eddie Montgomery non risparmia energie e vestiti visto che si spoglia del lungo spolverino nero e del cappellaccio che lo hanno accompagnato dagli inizi per regalarli ai fans che sì azzuffano per conquistare i preziosi cimeli.
So che qualcuno di voi storcerà il naso ma non sarei sincero se dicessi che Collin Raye non mi è piaciuto: mi piacevano i suoi dischi, mi ha emozionato dal vivo ascoltarlo cantare con quel timbro così particolare canzoni come Litte Rock e I Think About You.

Totalmente diverso lo show di Danni Leigh, a mio avviso la miglior cosa della serata, qui i suoni sono decisamente più tradizionali, un honky tonk al femminile molto simile a quello di Heather Myles per intenderci. Un gran bel concerto che conferma le doti di interprete della Leigh e che non ha un attimo di scadimento con le hits dell’album 29 Nights che fanno da filo conduttore e con un momento clou che coincide con l’interpretazione della classica Seven Spanish Angels non solo vocalmente perfetta ma anche coreograficamente emozionante. Chiude inginocchiata la bellissima Danni che dá a tutti appuntamento per il giorno dopo allo stand del suo fan club.
Una delusione invece il gran finale affidato a Billy Ray Cyrus, se a proposito dì Ty Herndon avevo parlato di immagine e sostanza, non riesco a vedere in questo caso molto altro se non un’atteggiaménto da bel tenebroso rockeggiante che mi pare abbia più successo di quello che merita. Ancora una conclusione che lascia l’amaro in bocca, per fortuna sono state tante le soddisfazioni di una giornata inaugurale salutata dal consueto spettacolo pirotecnico.

13 Giugno
Moltissima e di ottima qualità la carne al fuoco in programma per questo martedì che per quanto mi riguarda, si apre con una serie di autograph lines che durano ore ed ore: cose da pazzi, capisco cos’è il tempo di fronte alla gioia per un bacio da Danni Leigh o Terri Clark, un sorriso da Alllson Moorer o Sherrie Austln, una pacca sulla spalla da Tracy Lawrence, una stretta di mano con Joe Diffie? Ah che nostalgia!
Ma torniamo ai concerti aperti alle 10:00 del mattino dalla più importante etichetta indipendente di Nashville, la Curb Records, conseguenza il divertimento è assicurato.
Dopo le consuete giovani promesse, si inizia a fare sul serio con i Sawyer Brown, si balla con Mark Mìller e soci assolutamente fuori dì testa.
Si sale di livello con un altro vulcano dì energia, la bomba rossa Jo Dee Messina che propone un concerto senza attimi di pausa: accompagnata da una band dì sette elementi a cui si aggiunge lei stessa alle percussioni, scandisce i ritmi delle sue canzoni con passi di danza salutati dalle grida del pubblico. Passa in rassegna tutti i suoi grandi successi dai suoi primi due album tra cui spiccano I’m Alright, Bye Bye e la sua ormai celebre cover di Lesson In Leavin’ nonché la consueta toccante Even God Must Get The Blues che più di tutte forse esalta la calda voce di Jo Dee.

C’è ancora tempo per due gustosi anticipi del suo nuovo album in uscita ad Agosto, la title track Burn ed il primo singolo That’s The Way con contorno di ballerini ai quali anche lei si unisce per il finale: un concerto che senza dubbio ti lascia soddisfatto al 100%.
Molti sapranno che la Messina ha un produttore d’ eccezione, ed allora eccolo Tim McGraw, da ammirare se non altro per essere riuscito a sposare Faith Hill.
A parte la battutaccia, si tratta di una star di prima grandezza capace di fare il vuoto sugli spalti visto che la massa di gente si riversa sotto il palco per poter vedere meglio, salutare e magari toccare Tim.
Lui dal canto suo non si tira indietro, altrimenti che Fan Fair sarebbe, tra una Down At The Farm e una Something Like That, si inginocchia e stringe le moltissime mani (anche la mia!!) protese verso di lui. Ci gustiamo ancora la sempre frizzante ed immancabile I Like It I Love It e poi… e poi arriva il pezzo forte!
Se la Curb da etichetta indie è salita al rango di major dell’industria discografica americana, lo deve a quella ragazzina fenomeno che risponde al nome di LeAnn Rimes. Non so se sia country o pop o cos’altro e sinceramente mi interessa poco: voci così si contano sulle dita di una mano e sono patrimonio della musica tutta! LeAnn si presenta carinissima sul palco vestita con abiti casual e spara subito forte con una interpretazione di Blue da pelle d’oca.
Dal vivo, senza le inevitabili costrizioni della sala d’incisione, la giovane è ancora più coinvolgente e può far esplodere i suoi vocalizzi in tutta la sua potenza: le sue riedizioni di Lovesick Blues, Cryin’ Time e Me And Bobby McGee riempiono il cielo di Nashville e lasciano davvero senza fiato. Anche le più moderne Big Deal, One Way Ticket e I Need You (pezzo questo di una difficoltà enorme) sono la conferma di come questa ragazza sia in grado di cantare di tutto. Non so se è lei l’artista che mi è piaciuta di più, di certo è quella che più mi ha impressionato!

Alla fine della mattina, si è dunque già più che soddisfatti ma il pomeriggio incombe ed anche la Mercury offre una buona line up con punte di ottimo livello. Vi ho già parlato di Eric Heatherly, merita una citazione lo stile cantautorale di Kathy Mattea che propone un concertino di gran classe, senza fronzoli, sobrio e di matrice prettamente acustica. Diverso il genere proposto dalla canadese Terri Clark, misure statuarie per questa bella redneck che sul palco riempie la scena con la sua presenza e sembra capace di trasformare in country qualunque tipo di canzone grazie ad una pronuncia che, malgrado le origini canadesi, è marcatamente sudista. Non posso nascondere di esserne un devoto ammiratore e così dopo più di mezz’ora passata a cantare le varie Emotional Girl, Poor Poor Pitiful Me e Everytime I Cry, la pausa preserale arriva più opportuna che mai per ritrovare la voce.
Lo show serale preparato da un colosso come la MCA Nashville propone qualche novità, molte conferme ed una sorpresa.
Le due giovani più o meno esordienti sono Rebecca Lynn Howard e la diciassettenne Alecia Elliott. Siamo sul collaudato sound new country al femminile che tanto successo ha avuto in America negli ultimi anni, voglio sottolineare la prova della Elliott che tra le altre propone un omaggio al passato e a Don Gibson interpretando la sua Sweet Dreams.
Le conferme arrivano innanzitutto da Lee Ann Womack, ormai una stella consacrata del panorama country con il suo mix equilibrato di nuovo e tradizionale, reso speciale da una voce che se da un lato ricorda molto quella di Dolly Parton, dall’altro porta con se una dolcezza unica che emoziona, che crea un’atmosfera quasi magica quando canta ballate lente come The Fool o l’isplratissima I Hope You Dance, voce che però sa trasformarsi e scatenarsi nelle vivaci Buckaroo e Now You See Me Now You Don’t.

Lo show della bella Lee Ann si chiude con un tributo a Don Williams ed alla sua Lord I Hope This Day Is Good con una band in versione acustica che contribuisce a rendere il tutto quasi commovente.
Altri due gli artisti che sul palco del Fan Fair si sono dimostrati all’altezza del loro crescente successo: la splendida Chely Wright interprete ed autrice sempre più matura con un sempre maggior numero di hit da classifica validissime e tanta confidenza con le grandi platee.
Gary Allan si è guadagnato un posto di primo piano grazie anche alla svolta fifties del suo ultimo album Smoke Rings In The Dark e dal vivo si lascia andare a qualche assolo di chitarra in più. Ripeto, entrambi non deludono affatto.
Ma veniamo ora alla già anticipata sorpresa della serata che secondo programma doveva essere chiusa da Mark Chesnutt. Sono quasi le 23:00 quando Vince Gill, presentatore dello show, sale sul palco per annunciare tra i mugugni la defezione del buon Mark. La delusione dura lo spazio di un minuto, giusto il tempo di accorgersi che Vince sta imbracciando la chitarra acustica. L’assenza di Chesnutt ci regala dieci minuti di grande fascino con Gill che esegue chitarra e voce due delle sue numerose ispirational songs: When I Call Your Name e Go Rest Hlgh On That Mountain dedicata ad un fan speciale scomparso ad inizio anno.
La felicità per essersi goduti questo piccolo, magico momento finisce per sotterrare il dispiacere per quello che ci siamo persi! Cose da Fan Fair!

14 Giugno
Giornata fondamentale del festival nashvilliano, molti sono gli artisti da circoletto rosso che appariranno oggi. Prima però qualche nota di costume dagli stands della fiera: da Steve Wariner capita che una ragazza arrivata per i consueti autografi, telefoni con il cellulare a qualcuno più sfortunato rimasto a casa, Wariner non se lo fa chiedere due volte, prende in mano il telefono e manda i suoi saluti, ovviamente scene di delirio; tenerissima invece una bambina che dopo una fila di più di quattro ore raggiunge Tim McGraw e Faith Hill ma qui non regge all’emozione e scoppia in un pianto di gioia con Tim e Faith che tentano di tranquillizzarla coprendola di baci e abbracci.
Il tempo vola ed i concerti del mattino sono pronti ad inaugurare questo penultimo giorno al Fairgrounds: tocca alla Lyric Street ed alla Dreamworks. Due nomi su tutti, Aaron Tippin e gli Asleep At The Wheel. Il primo, un vero e proprio redneck, ha una voce molto ma molto country ed un repertorio che punta molto sull’honky tonk come nella nuova esplosiva Kiss This.
I secondi se mi passate il termine swingano il swingabile con un rendimento live che va ben oltre ciò che si può apprezzare dal disco soprattutto a livello di virtuosismi strumentali: una dietro l’altra Roly Poly, Boogle Back To Texas e Old Fashioned Love trasformano l’area del main stage in una gigantesca dance hall.

Tutte le attese sono concentrate allo spettacolo del pomeriggio, quello ogni anno più seguito (tribune colme) ed anche quello più coinvolgente: lo show della Arista Nashville. Anche questa volta una serie di concerti eccezionali senza un attimo di calo di qualità, impossibile trovare difetti ad un line up che prevede per primi sul palco Kix Brooks e Ronnie Dunn due che da queste parti si sono guadagnati l’etichetta di ‘Honky Tonk University’.
Il duo trasforma ogni canzone in scaletta in una grande festa e sceglie per lo più pezzi veloci che possano coinvolgere il pubblico: le storiche My Maria, Hard Workin’ Man, Boot Scootin Boogie ma anche le più fresche Beer Thirty e Goin’ Under Gettin Over You.
Aggiugete che Ronnie Dunn dal vivo ha una voce spaventosa ed una pioggia di coriandoli sulle note finali di How Long Gone ed avrete un divertimento assicurato.
Dopo un pezzo di storia del country contemporaneo, una novità, o meglio, come lo hanno definito da più parti, la più calda nuova promessa di Nashville: Phil Vassar, pianista e cantautore.
Chi segue le vicende di Music City non può non avere in testa il suo “Oooo la la la la” che apre il ritornello della sua prima hit Carlene che manda in visibilio fin dalle prime note di pianoforte i 20.000 del Fan Fair. Vassar ha un buon repertorio di canzoni positive e piene di ottimismo, ritmiche semplici ma che hanno buona presa sul pubblico, un cospicuo seguito di fans, facile pronosticargli un avvenire all’insegna del successo.
Prima della fine della giornata sono anche riuscito ad incontrarlo personalmente, poche parole per dirgli che anche nella lontana Italia c’è chi lo conosce e compra i suoi dischi, poche parole per capire che è un tipo allegro, simpatico, alla mano, come molti cantautori specchio fedele del suo lavoro.

Chi invece non ha certo bisogno di conferme è Pam Tillis, country queen di fama consolidata e dallo stile impeccabile. Apre con Walk In The Room un viaggio attraverso anni di grandi successi e riconoscimenti come nel caso della spagnoleggiante Mi Vida Loca o dei lenti Maybe It Was Mamphis e Shake The Sugar Tree. La conclusione è obbligata ed allora ecco Don’t Tell Me What To Do forse la più famosa delle canzoni della Tillis, sicuramente la più amata.
Brad Paisley lo avevo lasciato l’anno scorso mentre si godeva la lunga standing ovation che il pubblico gli tributava commosso per la toccante He Didn’t Have To Be, lo ritrovo quest’anno con un sacco di esperienza in più. Lo si vede da come si muove sulla scena, come comunica con pubblico e band come si concede più spazio per i suoi assoli di chitarra. La folla assiepata sulle tribune lo accoglie con grande calore e segue il suo concerto con il trasporto proprio delle grandi stars.
Azzeccatissima la scaletta che offre gioiellini come la spiritosa Me Neither e la romantica Who Need Pictures ed un capolavoro, la già citata He Didn’t Have To Be che anche questa volta fa strage dì lacrime.
C’è giusto il tempo per un duetto d’eccezione con la collega Chely Wright e poi è la volta del più atteso di tutti, quest’anno come lo scorso, Alan Jackson. Una statua Alan, non solo per l’imponente mole fisica ma anche perché sul palco non accenna movimento alcuno fatta eccezione per la mano che da pennate alle corde della chitarra, il tutto non fa altro che accrescere il fascino per questo artista fedele negli anni al suo credo musicale ancorato saldamente alla tradizione e proprio per questo amatissìmo dai suoi fans.
Diffìcile dire a parole quanto sia bello un concerto di Alan Jackson, forse la cosa migliore per darne un’idea è elencare alcuni dei pezzi in scaletta: Summertime Blues, Chattahoochee, Little Bitty, Livin’ On Love, Don’t Rock The Jukebox, Who’s Cheatin’ Who e via così fino alle ultime covers It Must Be Love e l’antidepressiva Pop A Top che chiude in trionfo il caldissimo (in tutti i sensi) pomeriggio musicale della Arista.

Difficile dopo tanto ben di Dìo prepararsi allo show della sera targato RCA che a differenza del precedente alterna momenti di buona, ottima musica a fasi di stanca. Quando parlo di delusioni mi riferisco in primis alla mancata partecipazione di Tracy Byrd ma anche alla performance di qualche giovane come le 3 Of Hearts un terzetto formato da ragazzine carine e probabilmente anche discrete vocalists ma che onestamente non sembrano all’altezza delle colleghe.
Per fortuna c’è chi sa risollevare le sorti dello spettacolo, è Kenny Chesney giovane ma già amato dal grande pubblico. Prende possesso del palco e si scatena in un medley delle sue hits da ballo She’s Got It All e How Forever Feels su tutte, poi addolcisce l’atmosfera con When I Close My Eyes e That’s Why I’m Here prima di concludere tornando a ritmi più sostenuti con la irresistibile She Thinks My Tractor’s Sexy.
Anche il country al femminile ha la sua rivincita con la solarità di Sara Evans e delle sue canzoni, con l’esordiente Coley McCabe della quale risulta difficile parlar male tanto è bella, con la semplicità e dolcezza di Jennifer Day.
Anche Andy Griggs fa una discreta figura con una manciata di buoni country rock (You Made Me That Way e I’ll Go Crazy) e pezzi dal sapore più o meno vagamente pop come You Won’t Ever Be Lonely e She’s More.
La superstar del caso, chiamata a chiudere il concerto è rappresentata dalla band dei Lonestar campioni di vendite con l’ultimo album Lonely Grill. Un buon tre quarti d’ora attraverso i più importanti successi del gruppo con finale dedicato a What About Now e la fortunatissima Amazed, siamo sul country pop ma di quello fatto bene.
In cielo già scoppiano i primi fuochi artificiali, segno che è ora di tornare in centro città dove le luci sono tutt’altro che spente tra la line dance del Wild Horse Saloon, i suoni grezzi di una Street band, le mille insegne di negozi e locali.

15 Giugno
Ahimè ultimo giorno di Fan Fair al Tennessee State Fairgrounds, anche se oggi in particolare abbondano gli eventi di lusso organizzati in centro città, specialmente per la sera.
A parte il concerto della mattina organizzato dalla Virgin, e che vede spiccare le voci e le canzoni di Jerry Kilgore e Julie Reeves il resto della giornata è dedicato a vecchie glorie del passato, suoni tradizionalissimi, strumenti sempre più acustici che culminano nel gran concerto bluegrass della serata.
Ma andiamo con ordine, sono di buon umore perché sono riuscito ad incontrare Paul Brandt, uno dei miei preferiti e sempre molto simpatico, quello zuccherino di Lila McCann e Susan Ashton, una che ha a che fare con Garth Brooks e quindi nel mio cuore. Quando dopo averle detto di essere italiano lei mi ha chiesto “Sbaglio o ci siamo incontrati anche l’anno scorso?”, beh a quel punto la mìa felicità ha raggiunto le stelle, un bacio, un abbraccio, una foto con dedica che recita così: To Roberto, It’s good to see you again! Love, Susan Ashton. Queste sono le soddisfazioni della vita!!!
Fatemi riprendere e vi racconto del pomeriggio musicale che vede un seguitissimo Gene Watson ma soprattutto una Loretta Lynn in gran forma, la sua voce non risente del passare degli anni e poi le basta solo accennare Coalminer’s Daughter per conquistarci ed emozionare ancora.

La Rounder presenta un concertino raffinato aperto da uno scatenato Wilie & The Wild West che spazia senza limiti dal western swing, alle cowboy songs, dal boogie al blues con una facilità impressionante. Con lui sul palco sale anche Joni Harms per duettare in Ridin’ The Hi-Line title track dell’album dal quale sono presi quasi tutti i pezzi in scaletta compresi gli inimitabili yodel come Yodelling My Blues Away.
Di ottimo livello anche lo show di Rhonda Vincent, un’anticipazione di acustico che ci gustiamo in pochi visto che le tribune iniziano a svuotarsi, peccato perché la ragazza ci sa fare, suona bene il suo mandolino e canta con una vocina colorata covers di grande successo rilette e riarrangiate, è il caso di Jolene (Dolly Parton) e When I Close My Eyes (Kenny Chesney). Strepitose e tipicamente bluegrass Lonesome Wind Blues e Passing Of The Train.
Alle 18:30 chiudono definitivamente gli stands, è il momento, l’ho imparato l’anno scorso, di arraffare tutto ciò che i vari espositori non vogliono inscatolare (posters, CD, foto…) e per approfittare di qualche svendita, ma è inevitabilmente anche un momento di grande tristezza perché tra poco più di tre ore sarà tutto finito. Anche il tempo si rattrista e comincia a piovere sull’ultimo concerto di questo Fan Fair: il Bluegrass Show.
Tristemente vuoti sono purtroppo anche gli spalti che vedono presenti non più di 1.000 persone, tutte le altre hanno preferito i più attraenti avvenimenti organizzati in città. Alla Country Music Hall Of Fame si tiene uno Skyline Jamboree gratuito con la partecipazione tra gli altri di BR5-49, Deana Carter, Raul Maio, Brenda Lee, Dean Miller, Kitty Wells.
Ma il vero grande antagonista del bluegrass è la cerimonia di consegna dei TNN Music Awards al Gaylord Enterteinment Center in pieno centro città dove saranno presenti e premiati Tim McGraw, Faith Hill, Martina McBride, Alabama, Brad Paisley, insomma tutti gli artisti di maggior richiamo per il popolo del Fan Fair.

Ma torniamo al bluegrass al quale ho assistito in prima persona e del quale vi posso raccontare non per sentito dire o per ciò che ho visto in TV. Premetto che sono un amante e non un esperto del genere, in poche parole non ne so quanto di country e new country quindi non vi aspettate discorsi troppo tecnici.
La serata è aperta da due voci femminili, quelle di Dale Ann Bradley e Claire Lynch. Entrambe propongono un bluegrass molto facile da amare, semplice anche negli assoli strumentali, molto accattivante nelle linee melodiche.
Più ricercato sicuramente lo stile di Del McCoury e la sua band di cinque elementi tra cui si fa largo anche un nipotino di non più di cinque anni che se ancora non suona davvero, comincia a studiare il modo di muoversi del buon fiddler.
Tra i più attesi della serata Larry Cordle & The Lonesome Standard Time che tanto hanno fatto parlare in questo ultimo anno e proprio con Murder On Music Row ottengono l’applauso più caloroso della serata.

A concludere lo spettacolo è chiamato Ricky Skaggs, star di lusso conosciuto anche dai fans di new country che a dire il vero per l’occasione si contano sulle dita di una mano.
Lui non se ne fa un problema, anzi comincia a scatenare la sua energia sul mandolino con una serie di scale a velocità impressionante, pezzi dal sapore old time, blues, country e qualche gospel, un lungo viaggio senza troppi schemi attraverso la musica acustica americana nelle sue diverse forme.
C’è ancora il tempo per un finale con tutti i protagonisti della serata riuniti sul palco e per un’occhiata agli ultimi fuochi d’artifìcio mentre già le due ali del palco sono state spogliate di ogni cosa.
Il Tennessee State Fairgrounds chiude i battenti e non solo per questa edizione: dall’anno prossimo infatti la manifestazione si sposterà in un’area più centrale della città con la speranza da parte degli organizzatori di incrementare il numero dei partecipanti nonché di sfruttare al meglio le risorse del centro di Nashville.
Non so se sarà meglio o peggio, di certo il luogo dei miei primi due Fan Fair, dei miei primi contatti con i protagonisti della mia passione musicale, mi rimarrà nel cuore.

16 Giugno
C’è un appuntamento che nessun appassionato di country music può e vuole perdersi se capita a Nashville nel week end. Gli organizzatori del Fan Fair lo sanno e così compreso nel pacchetto offrono la possibilità di assistere al mitico show della Grand Ole Opry.
Bisogna fare un po’ di strada per raggiungere la Opry House che si trova nella rinnovata zona di Opryland a due passi dalla Music Valley, ma una volta arrivati è come fare un tuffo nella storia soprattutto visitando il museo che si trova adiacente alla casa dove si tiene lo spettacolo radiofonico più vecchio della storia.
Quest’anno poi c’è una piacevole novità organizzata nel parco che circonda l’edificio: una serie di concerti gratuiti che precedono l’evento e che vedono protagonisti artisti del calibro di Junior Brown, Dale Watson, BR5-49.
Alle 21.30 comincia lo spettacolo che ha da poco festeggiato il 75° anniversario e che come sempre è diviso in sezioni che raggruppano tre, quattro artisti compreso un presentatore. La prima delle cinque sezioni in programma, presentata da Porter Wagoner, porta sul palco due grandi, una è Pam Tillis di cui già vi ho parlato, l’altro e Randy Travis accolto con entusiasmo dal pubblico, canta tre canzoni accompagnato dalla straordinaria big band dell’Opry, una voce inconfondibile ricca, capace di colorarsi di diverse sonorità soprattutto sulle note basse.
Si prosegue bene anzi benissimo con Lee Ann Womack che seguo inginocchiato davanti al palco per poter scattare qualche foto ed anche per vederla più da vicino, già vi ho raccontato di quanto sia suggestivo un concerto di Lee Ann ma credetemi, nella atmosfera dalla Opry House la dolcezza della sua voce rende ancora di più: prima ci regala una sua versione di San Antonio Rose, quindi la sua I’ll Think Of A Reason Later.

Nella stessa sezione va ricordata una bella interpretazione della commovente Three Bells da parte del veterano Jìm Ed Brown, oltre alla solita apparizione del vulcanico Little Jimmy Dickens.
Tra gli altri artisti che animano la serata meritano attenzione, un comicissimo Johnny Russell che propone anche una bella versione di Folsom Prison Blues ed il divertente cajun di Jimmy C. Newman.
E’ da poco passata la una di notte quando gli annunciatori della WSM salutano gli ascoltatori di tutta America e calano il sipario su un’ennesima Grand Ole Opry.
In un misto di stanchezza, soddisfazione, gioia e tristezza, si chiude anche questa mia seconda volta a Nashville, al Fan Fair. Inutile dirvi che sto già segnando i giorni che mi separano dalla prossima edizione, sì perché ogni volta si scopre qualcosa di nuovo, qualche luogo, qualche artista che inevitabilmente ti entra nel cuore proprio in quanto legato a questa intensa esperienza.
Un’ultima cosa ci tengo ad enfatizzare ed è il favoloso rapporto che lega le star della country music ai propri fans, un legame che non si riscontra in nessun altro genere musicale, una devozione che se è normale quando è diretta dallo spettatore verso il proprio beniamino, stupisce quando si verifica nel senso opposto ed in modo così profondo.
Lo so che qualcuno potrebbe obbiettare che si tratti unicamente di un atteggiamento interessato, una grande messa in scena al fine di darsi una buona immagine, però potrebbe anche più semplicemente essere un sincero e sentito modo di ringraziare il proprio pubblico da parte di chi molto prima di essere una star da copertina è una persona genuina come tante e malgrado tutto come tale ancora si sente. Io, lo immaginerete, forse ingenuamente la penso proprio così!

Roberto Galbiati, fonte Country Store n. 54, 2000

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