Due libri, un video, una CD-compilation e una mostra fotografica celebrano l’arte di Jimi Hendrix che in questi giorni avrebbe compiuto 50 anni.
Si ricorderà mai il vento i nomi che ha soffiato in passato? Questa era la domanda che Jimi Hendrix poneva, forse a se stesso, circa 25 anni fa. Oggi, siamo di fronte ad un’operazione multimediale che riconduce nuovamente a noi un personaggio di grosso calibro quale è senza ombra di dubbio Hendrix. Una mostra fotografica, una compilation, un video e due libri, cercano di riportare ai nostri tempi, fuggevoli e sfuggenti, un nome che il vento non ha dimenticato.
Ed è piuttosto strano vedere questo imponente assemblaggio di iniziative per un artista vissuto e morto quasi un quarto di secolo fa in un mondo che si dimentica in fretta di tutto, in cui nulla sfugge alla nostra scatola magica (la televisione) a livello d’immagine epidermica, ma che purtroppo ha l’imperdonabile limite di essere senza coscienza e in definitiva non registrare nulla nella sfera delle emozioni e dei ricordi, parte integrante del percorso vitale di ogni individualità.
E in campo musicale, un suono è simile all’altro, parole che sanno di sofferenza hanno lo stesso peso delle parole senza senso che serpeggiano in modo vago a riempire qualche brano di per sé già vuoto. Ci si chiede allora il perché di una mostra di Hendrix, di una ennesima compilation (The Ultimate Experience).
Alan Douglas, guardiano degli archivi musicali di Hendrix nonché di tutti i suoi odierni prodotti, risponde a questo interrogativo spiegando che “la mostra tende a darci un ritratto, a capire ciò che Hendrix era fuori dal palco”, perché il palco, come il musicista stesso amava dire, era la sua stanza, quella stanza di cui ogni persona avrebbe bisogno per dar libero sfogo ai propri istinti, per far uscire la propria pazzia.
“La mostra”, dice Douglas, “vuole restituirci la persona, ed Hendrix era una stupenda individualità; intelligente, rispettoso del prossimo, umile, timido.”
Spiega ancora Douglas che “il disco è l’ideale colonna sonora della mostra e vuol essere un tentativo per mettere ordine nel selvaggio mercato scatenatosi dopo la morte di Jimi Hendrix, cercando di cogliere, attraverso le note, quello che era veramente e ciò che forse avrebbe potuto essere”.
Room Full Of Mirrors
Una stanza piena di specchi è metaforicamente la mostra organizzata da Douglas e dal suo team, ed ogni specchio rimanda l’immagine di Hendrix, scomponendola, sezionandola, captandola da 105 differenti angolazioni (il numero delle immagini esposte). Da ogni specchio, simbolo immaginifico dell’io diviso, della doppia personalità, ci troviamo di fronte a una figura con infinite sfaccettature, mai monocorde nell’espressione del viso, cristallino specchio dell’anima, uno sguardo penetrante che vuole essere, insomma, sempre, in ogni istante ad ogni costo, quello di una persona.
Jimi Hendrix risulta a volte essere impaurito dall’obbiettivo, cui rimanda uno sguardo incantato e istintivamente, incantatore. E’ messo (e si lascia mettere) a nudo nel suo essere più intimo, l’intimità di un uomo che è sognatore, o forse, più precisamente, un eterno bambino dentro a un sogno. E il sogno, è fatto di fughe intrise di mitologie lontane ricordi inconsci della sua origine indiana, e ritorni alla realtà vista da angolazioni impensabili. Il sogno è un viaggio nel mondo di una donna dove vorrebbe entrare per non versare più lacrime di dolore, dove bearsi del calore affettivo perché troppo tempo è stato al freddo sotto un manto di ghiaccio che questa terra gli aveva donato.
E’ un volo libero su giardini liquidi ai confini con deserti di sabbia rossa, dove poter ascoltare tutta la musica che è dentro di lui in pace. In altre fotografie aggredisce l’obbiettivo, ma è una forma di violenza non premeditata, dettata dall’innato istinto di preservazione, dalla paura di essere scoperto, fino in fondo nella sua fragilità, o dal timore di essere catturato, per essere messo, come lui stesso diceva, in uno di quei piccoli sacchetti di cellophane dove tutto è sotto il controllo di una società a compartimenti stagni.
In alcune fotografie, invece, non riesce a sottrarsi a questa bieca manipolazione; ci viene quindi proposto Hendrix fenomeno da circo con i suoi pesanti orpelli, le bravate voodoo sul palco, in definitiva ciò che non avrebbe mai voluto essere, cioè una realtà visuale. Ma è senz’altro nelle immagini in cui il fotografo riesce a catturare e re-interpretare il modo di essere e sentire di Jimi Hendrix dove abbiamo degli episodi più toccanti, ovvero quando la foto assume quei caratteri di visionarietà e poeticità, che sono i pilastri del pensiero hendrixiano (due esempi, per chi ha visto la mostra, sono Phased At Singer Bowl e Sweet Angel). Come per incanto si ha la stupenda sensazione di trovarsi di fronte alla pura essenza dell’artista.
Nello spazio temporale di un clic sono immortalate l’irriducibile voglia di libertà, la visionarietà illimitata e un profondo senso di onestà, sinonimo di verità; non la verità assoluta, né la scintillante falsa verità dei mass media bensì la sua piccola, ingenua verità.
Room Full Of Sounds
“Basta spingere giù il piede a tavoletta con un gran bel vibrato, aspettare il lancio della batteria e tutto improvvisamente ti da quel senso non tanto di depressione, quanto di solitudine e di frustrazione e il desiderio di raggiungere qualcosa, qualcosa che è al di fuori di ogni comprensione razionale”.
La musica di The Ultimate Experience e in genere la musica di Hendrix esprime sempre tensione, tensione, verso qualcosa, qualcuno, qualche posto. A secondo degli episodi prende diverse ed opposte direzioni. Sfocia nella rabbia, in una sinuosa violenza o in un’aggressiva sensualità, quando non riesce a controllare gli eventi, quando gli eccessi autodistruttivi prevalgono sulla inconfutabile voglia di vivere che era in Hendrix.
Sono i momenti in cui non riesce a capire se stesso, dove la confusione vince sull’amore e non riesce a trovare un rifugio da questo mondo, enorme deprimente pasticcio. In questi momenti viene attratto solo dalla sensualità della donna (Foxy Lady, Fire, Gypsy Eyes vibrano di questa calorosa sessualità); la musica valvola di sfogo della sua profonda sensibilità diventa avvolgente caos (in Purple Haze) non più sua fedele amica, ma minaccioso flusso di suoni.
Attraverso essa urla la sua solitudine lontano mille miglia dal resto del mondo, alla luce di una lampada, salutato solo dalla luna (Burning Of The Midnight Lamp). Qui l’anima s’accartoccia sotto il peso di depressioni maniacali (Manic Depression).
Ma quando tutte le porte sembrano sbarrate è lo stesso Hendrix a trovare la chiave per riaprirle e visitare nuovi, luminosi percorsi. Piegando la chitarra al linguaggio della sua prorompente sensibilità abbozza quadri ai limiti del surrealismo con infinita dolcezza e con una tranquillità d’animo rassicurante. In The Wind Cries Mary, il vento sospira, piange ed infine, sommessamente, urla, accarezza dolcemente la chitarra in Angel, sicuro d’aver trovato un po’ d’amore, per sempre. Osservagli eventi, sia pur dolorosi, prendendo coscienza che la vita è anche sofferenza, accettando senza remore alcuna questi episodi, proprio perché anch’essi parte di un’esistenza (in Castle Made Of Sand).
E’ l’Hendrix più toccante quello che più si scopre, più vicino agli animi semplici, agli animi di tutti, che si stampa indelebile nella memoria collettiva e nel tempo. Se The Ultimate Experience voleva essere un’istantanea in note di Hendrix, dolce e aggressivo, lucido e trasognato, uomo e bambino immortalato nella mostra, questa sequenza di venti brani risulta essere piuttosto efficace, e ci consegna non una realtà visuale, ma una grossa ed attualissima realtà musicale.
Room Full Of Madness
Lo spessore dell’artista viene riconfermato nel video proposto da BMG, attraverso il quale entriamo in quella stanza degli eccessi cui abbiamo già accennato. Nella sua stanza degli eccessi, il palco, Hendrix ha senza dubbio un impatto molto forte. In un atmosfera di smobilitazione (l’ultimo atto del festival di Woodstock), si propone con una carica di sessualità e aggressività che colpisce, dando il via ad una inconscia sfida con il pubblico (“black’n’proud” sembra che istintivamente urli con la sua ingombrante presenza scenica).
Rielabora il blues (con Isabella e Red House) sconvolgendone i percorsi e i significati, arrivando così ad elaborare il dolore, che diventa rabbia sotto forma di rumore. Poi, ormai in perfetta simbiosi con la musica, vola in picchiata su un pubblico che sembra non capirlo, captando e sintetizzandone le devianze, le angosce, le gioie o i dolori portando poi il tutto sul palco e facendolo esplodere, ormai filtrato dalla sua sensibilità in cascate di suoni che hanno, inglobate in un gorgo primordiale, il rumore dei nostri giorni, i giorni della volutezza e dello spaesamento spirituale.
“I don’t live today” gridava Jimi Hendrix in una canzone. Forse aveva ragione. Probabilmente, il vento, più lungimirante di noi, continuerà a soffiare il suo nome, nei giorni a venire.
Gianpaolo Giabini, fonte Hi Folks! n. 56, 1992