Jimmie Rodgers

L’occasione per parlare di Jimmie Rodgers è data dalla pubblicazione del cofanetto, contenente la sua discografia completa, edito dall’inglese JSP, un’etichetta che si è concentrata nella produzione di materiale storico offerto a prezzo economico.

“Che dire di lui che non sia già stato detto e scritto?”. Così mi sarebbe piaciuto, e dovrebbe cominciare un articolo dedicato a Jimmie Rodgers nel 2003. Così potrebbero cominciare articoli dedicati a Charlie Parker e Louis Armstrong, Robert Johnson e Muddy Waters, Frank Sinatra e Elvis Presley, ovvero i personaggi fondamentali della musica popolare americana del ‘900. Con Jimmie Rodgers non è possibile. Perché?

Osservandola da vicino non si impiega molto a capire che quella di Jimmie Rodgers è una figura che avrebbe dovuto, e potuto, ricevere maggiore attenzione da parte della stampa specializzata italiana. Sfortunatamente, e spero che quanto leggerete di seguito non sia interpretato in chiave polemica trattandosi solo della constatazione della realtà, la stragrande maggioranza della nostra critica musicale al solo sentir parlare di country music subisce una sorta di contrazione psicologica che riesce ad inibire qualunque stimolo spontaneo e incondizionato, anche se conseguente dell’ascolto di materiale sonoro veramente valido.

L’importanza seminale della figura di Jimmie Rodgers, nello specifico, è universalmente riconosciuta, non solo per la qualità della musica che ha inciso nei pochi anni della sua carriera, e questo già basterebbe, ma anche perché l’artista intuì, anticipando clamorosamente i tempi, la necessità di un approccio professionale aderente alle esigenze di un mercato in pieno sviluppo, già pronto alla fine degli anni ’20 a trasformare in prodotto commerciale di massa la proposta genuina e incontaminata dei musicisti del Sud rurale.

Il problema, tornando ai fatti di casa nostra, è che a questo signore che 75 anni fa consapevolmente rivoluzionò il mondo della musica, delineando di fatto i connotati della musica moderna in generale e della country music in particolare, è stata affibbiata l’etichetta di ‘Father of Country Music’, un titolo attraverso il quale all’estero gli viene riconosciuta la giusta importanza storica, mentre in Italia lo stesso diventa un buon motivo per considerare l’artista un fenomeno di scarso rilievo culturale, e pertanto trascurabile.

Se è vero infatti, ed è vero, che il termine ‘country’ in Italia, per questioni culturali, da sempre condiziona negativamente i critici, anche quelli che si dicono più aperti, è altrettanto vero che etichettare ‘country’ tout court taluni artisti, almeno stando al significato attribuito semplicisticamente a questo termine nel nostro paese, è decisamente riduttivo. Sicuramente lo è per Jimmie Rodgers. Basti ascoltare le sue canzoni, gran parte delle quali molto influenzate dal blues, anzi, brani blues a tutti gli effetti, e canzoni che nel loro complesso possono essere definite soltanto grazie all’accostamento di una serie di termini specifici, ‘country’, ‘blues’, ‘pop’, ‘jazz’,’folk’; oppure notare il tipo di strumentazione utilizzata in molti pezzi del suo repertorio: cornetta, tuba, violino (attenzione, violino, non ‘fiddle’), clarinetto, jug (bottiglia di terracotta che, soffiandoci dentro, produce un suono simile a quello della tuba), ukulele e pianoforte.

Le canzoni di Jimmie Rodgers erano l’espressione di un uomo che, partendo dal proprio background culturale e musicale, studiò a tavolino una formula stilistica congeniale con la finalità di imporsi nel mondo discografico di allora. Niente di diverso, se vogliamo, da un odierno Garth Brooks. Ma se questi possono essere ritenuti aspetti poco evidenti della vita di Jimmie Rodgers, a meno che non si sia dimostrata buona disponibilità nel voler approfondire la sua conoscenza, certamente il numero delle cover delle sue canzoni, realizzate da artisti di popolarità mondiale, dovrebbe in qualche maniera convincere anche i più intransigenti verso il country della grandezza del personaggio: Lynyrd Skynyrd, Elvis Presley, John Fogerty, Duane Allman, Dr. John, Blasters, Blind Blake, Louis Armstrong, sono solo i primi che vengono in mente.

Tutto ciò, in definitiva, per sottolineare che il mancato riconoscimento da parte della critica nostrana ad uno degli artisti chiave della musica dello scorso secolo, deve essere attribuita soltanto alla ostinazione preconcetta di voler mantenere le distanze da uno stile di musica, il country, che in Italia ‘non deve andare’, aldilà di ogni seria e obiettiva considerazione. Di scarso aiuto nel diffondere il suo nome, tra l’altro, si è dimostrata anche l’uscita nel 1997 del tributo discografico (Songs of Jimmie Rodgers: A Tribute) dedicato a Jimmie Rodgers da parte di artisti country, ma anche rock di fama internazionale come Bob Dylan, Dickey Betts, Bono, Jerry Garcia, John Mellecamp, Van Morrison e Aaron Neville.

In quell’occasione se ne parlò, naturalmente, ma come spesso è accaduto rimarcando solo gli aspetti della sua vita rivelatisi fondamentali nel rendere la sua figura tanto mitica e romantica. Ovvero, l’esser stato ferroviere, per molto tempo in viaggio a contatto di musicisti bianchi e neri che gli insegnarono tanti stili e centinaia di canzoni. Vero, verissimo, ma fu solo una parte, per quanto rilevante, della sua vita.

E’ opportuno aggiungere altre informazioni se si desidera tracciare un profilo che si avvicini alla realtà, per capire le ragioni per cui questo smilzo signore di Meridian, Mississippi, a partire dal 1927 e in soli 6 anni scarsi, vendette milioni di dischi. Milioni di dischi venduti negli anni ’30, in un periodo, quello della Grande Depressione, non certamente felice per gran parte degli americani in quanto a disponibilità economica.

James Charlie Rodgers nacque terzo figlio di Eliza Bozeman e Aaron Rodgers l’8 settembre 1897. La madre morì nel 1904, il padre si risposò lo stesso anno, Jimmie insieme a un fratello andò quindi a vivere da una zia, sorella della mamma. Qui cominciò il suo rapporto con la musica, grazie alla zia, un’ex insegnante con buona preparazione musicale, che lo aiutò ad apprezzare il vaudeville, la musica per operetta e il pop dell’epoca.

A 12 anni vinse un contest che lo fece sognare di poter vivere come cantante e musicista, e convincerlo, nonostante la tenera età, ad aggregarsi ad un medicine show itinerante. Due anni dopo tornò a vivere con il padre, col quale ebbe un rapporto burrascoso, anche a causa di un temperamento aggressivo che dimostrò di possedere già precedentemente. Il padre Aaron obbligò il figlio quattordicenne a scegliere il suo futuro dandogli due possibilità, andare a scuola, oppure lavorare in ferrovia, dove lui stesso era impiegato da molti anni. Jimmie scelse questa strada e per circa dieci anni viaggiò in lungo ed in largo per tutto il Sud fino al lontano Ovest.

Nel frattempo si sposò, divenne padre e si separò nel giro di pochi mesi, risposandosi poco più tardi con la giovanissima figlia di un predicatore dalla quale ebbe due bambini. Continuò a perseguire l’obiettivo di diventare uomo di spettacolo, abbandonando e riprendendo più volte il lavoro di ferroviere a seguito di svariate esperienze musicali che si rivelarono solo temporanee. Era un brutto periodo, caratterizzato dall’insoddisfazione per ciò che faceva, dalla condizione economica di quasi povertà, dalla morte di uno dei due bambini avuti dalla seconda moglie e dalla salute che cominciava a dare seri segni di sofferenza. Il 1924 fu l’anno in cui gli venne diagnosticata la tubercolosi, un male che peggiorò in maniera progressiva, anche a causa della sua poca attenzione nel volerla curare, fino ad ucciderlo, il 26 maggio del 1933.

Le esperienze musicali di Jimmie Rodgers in quegli anni furono determinate da periodiche escursioni con medicine show, minstrel show e da sporadici concerti in minuscole string-band. Durante i viaggi di lavoro con la ferrovia aveva sempre con sé la chitarra per suonarla in ogni occasione e, soprattutto, per ‘rubare’ quanto più possibile dai musicisti che incontrava. I vari stili appresi ‘on the road’ venivano però rielaborati a casa, vicino a quel grammofono che tanto aiutò Jimmie a trovare una propria personalità, la migliore via di mezzo possibile tra i cantanti pop dell’epoca, dalla voce impostata ed educata che apprezzava, e la genuinità, la purezza, anche se rozza, dei musicisti rurali, blues e hillbilly che incontrava per strada.

L’ultimo, determinante ingrediente di questa riuscitissima ricetta fu l’utilizzo dello stile vocale yodel, così ben elaborato da Rodgers da risultare parte integrante della canzone stessa, importante quanto e più di un assolo strumentale, emozionale quanto il rumore del vento in una scena d’addio. Questo era Jimmie Rodgers, il Padre della Country Music, non un contadino di uno sperduto villaggio del Tennessee, o un minatore di una piccola comunità del Kentucky, era un uomo che viaggiava, che aveva ricevuto un’educazione musicale, un musicista autodidatta che cercava di migliorarsi anche attraverso l’ascolto di 78 giri di musica popular, tanto vicino alla genuinità di un Eck Robertson quanto all’approccio professionale di un Vernon Dalhart.

Era inevitabile che nelle mitiche ‘Bristol Session’ del 1927, le famose registrazioni effettuate dal discografico e talent scout Ralph Peer che diedero i ‘natali’ anche alla Stoneman Family e alla Carter Family, un artista come Jimmie Rodgers si distinguesse dagli altri musicisti selezionati. Ralph Peer quel fatidico giorno, un mese dopo essere giunto a Bristol, Tennessee con la moglie Anita e due tecnici del suono, alla ricerca programmata di cantanti e musicisti hillbilly da inserire nel nuovo catalogo della Victor, scoprì, letteralmente, un vero e proprio tesoro.

Era il 4 agosto 1927. Quel mercoledi pomeriggio Peer registrò le prime due canzoni di Jimmie Rodgers, da solo con accompagnamento di chitarra, The Soldiers Sweetheart e Sleep Baby Sleep. In realtà era previsto che Rodgers registrasse con il suo gruppo, formato da Jack Pierce e dai fratelli Claude e Jack Grant. Si erano fatti ascoltare da Peer il giorno precedente, ma durante l’audizione, forse anche a causa della decisione presa proprio in quei giorni di sciogliere la formazione, il gruppo si dimostrò poco convincente.

Subito comprese le potenzialità del cantante, il talent scout mise la considerevole somma di un centinaio di dollari nelle mani di Jimmie Rodgers, lasciandolo con la promessa che si sarebbero sentiti più avanti. Ralph Peer tornò a New York, Jimmy Rodgers e famiglia si diressero verso Washington DC. Il 7 ottobre del 1927, il giorno dopo la prima proiezione newyorkese del primo lungometraggio cinematografico sonoro, The Jazz Singer, il disco di Jimmie venne pubblicato. Era incredibilmente ansioso, aveva atteso così a lungo quella occasione e non riusciva a pensare che avrebbe potuto non avere un seguito. Visto che Peer non si faceva sentire, pensò bene di andare personalmente a New York a trovarlo.

Nella Big Apple scelse il lussuoso Manger Hotel, situato tra la Settima e la Cinquantesima Strada, nonostante avesse soltanto dieci dollari scarsi in tasca. Mostrò il proprio documento all’impiegato dell’albergo, accompagnato da una copia del disco, con la richiesta di addebitare il conto alla Victor Talking Machine Company! Qualche giorno dopo, il 30 novembre, Jimmie Rodgers entrò nello Studio 1 della Victor a New York, dove registrò altre quattro canzoni, tra cui T For Texas, cioè il primo dei tredici ‘blue yodel’ incisi nella sua intera carriera. Mentre il primo disco non aveva raccolto considerevole successo, la pubblicazione di T For Texas ebbe un riscontro enorme, fu infatti il più grande hit del periodo, vendendo circa un milione di copie. Il resto, come si suol dire, è storia. Jimmie Rodgers riuscì a registrare soltanto 110 canzoni. Le ultime incisioni portano la data del 24 maggio 1933, due giorni prima di morire. La tubercolosi lo aveva distrutto.

Old Love Letters, Mississippi Delta Blues, Somewhere Down Below The Dixon Line e Years Ago furono registrate nello stesso Studio 1 che utilizzò sei anni prima. Era sfinito, consumato dalla malattia a tal punto che tra una registrazione e l’altra doveva sdraiarsi e riposare in un letto appositamente portato per lui nello studio.

Ciò che Jimmie Rodgers ha lasciato in eredità a chi è venuto dopo di lui ha un valore inestimabile. Quanto è stato scritto sull’originalità dell’Elvis periodo Sun, su quella magica formula attribuitagli che consisteva nella fusione di hillbilly e blues, sintetizzata nel disco di Blue Moon Of Kentucky da una parte e That’s Alright Mama dall’altra, trova smentita nella musica di Jimmie Rodgers.

La formula tanto semplice e naturale che ha caratterizzato gran parte della musica dello scorso se-colo, affonda le proprie radici in una lunga storia della quale è impossibile individuare un preciso punto di partenza. Dal punto di vista discografico, è forse in Jimmie Rodgers che si trova il vero punto di avvio: l’incontro tra la tradizione nera e quella bianca; la ricerca di un nuovo concetto di ‘popular music’ attraverso il quale si potesse parlare al cuore della gente del Sud ma il cui linguaggio fosse comprensibile anche ai cittadini del Nord; l’idea di applicare alla melodia tradizionale uno stile vocale garbato, ‘urbano’ e spesso una strumentazione da piccola orchestra jazz; l’individuazione dell’immagine più congeniale per conquistare un livello di popolarità e uno status da vero e proprio divo; una ritmica chitarristica semplice ma con efficaci contrappunti in levare ed una scelta delle note tutt’altro che scontata, sono i principali elementi che hanno reso Rodgers un’intramontabile icona, una figura ancora oggi molto amata, a distanza di 70 anni dalla sua scomparsa. Ascoltando Jimmie Rodgers automaticamente si ridimensiona l’importanza e la responsabilità che è stata attribuita a buona parte dei musicisti che sono venuti dopo di lui.

I cinque compact disc della JSP si ritengano pure fondamentali, ma solo a condizione che il loro acquisto sia accompagnato anche dalla volontà di dedicare un’attenta lettura a Jimmie Rodgers, The Life And Times Of America’s Blue Yodeler di Nolan Porterfield (University of Illinois Press, 1992), la più completa biografia dedicata a Rodgers, arricchita in conclusione da una dettagliatissima discografia.

Maurizio Faulisi, fonte Country Store n. 66, 2003

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