Joanna Connor da un articolo su Il Blues Magazine

«Negli anni Novanta sono venuta spesso in Europa, Thomas Ruf era il mio agente. Per qualche ragione però in Italia non sono mai venuta, solo per una data a Torino molti anni fa. Il paese è così bello, la gente ospitale e il cibo…e il prosecco è il mio preferito!». Così ci accoglie ad un tavolino di un bar di Lodi (attiguo alla piazza principale dove si terrà il concerto), prima del suo soundcheck, Joanna Connor, visibilmente contenta delle quattro date italiane dello scorso luglio. Si è raccontata in modo diretto e senza pose, la stessa attitudine che dimostrerà sul palco qualche ora dopo.

Sei a Chicago da circa trentacinque anni…
Sono nata a Brooklyn ma sono cresciuta in Massachussets, vivevamo in una città universitaria Worcester e mia madre era molto appassionata di musica. Amava jazz, blues, rock, persino la classica…suonava il piano ma non ne avevamo uno in casa. Sono cresciuta ascoltando di tutto e spesso vedendo concerti anche da molto piccola. Ho visto Buddy Guy la prima volta che avevo solo dieci anni e quando gliel’ho raccontato anni dopo, mi ha detto «fermati, mi fai sentire vecchio!». Mia madre mi comprò una chitarra, ma io non la volevo, presi qualche lezione ma poi smisi. La ripresi in mano solo quando ero alle superiori e da allora ho sempre continuato a suonarla. A 22 anni mi sono trasferita a Chicago per suonare il blues. Com’era all’epoca? Beh anche solo scorrendo i nomi su The New Bluebloods (disco antologico pubblicato dalla Alligator nel 1987), vi potete rendere conto che era straordinaria. Poco dopo il mio arrivo conobbi Junior Wells, Buddy Guy, Son Seals, Koko Taylor, Lonnie Brooks, Melvin Taylor, Dion Payton…scelsi di imparare da Dion, mi piaceva il suo modo di suonare e lo seguivo ogni sera. Tre settimane dopo il mio arrivo ottenni il mio primo ingaggio con John Littlejohn e tre mesi dopo circa ero nella band di Dion. Lui mi vide suonare una sera con Lonnie Brooks e dato che Dion prima aveva suonato con Lonnie, forse gli feci una buona impressione.

Il tuo primo album, “Believe It!”, per la Blind Pig risale ormai a trent’anni fa.
Oddio sembra davvero passato molto tempo! Anche allora andai in studio col mio gruppo, i musicisti con cui suonavo ogni sera nei club. Ho sempre pensato che se i tuoi musicisti non sono abbastanza bravi da essere sul tuo disco, non dovrebbero nemmeno essere sul palco con te. Inoltre, di solito si ha già una buona intesa col gruppo e registrare per loro spesso diventa una motivazione in più. Sul mio primo album avevo come seconda chitarra Anthony Palmer, che con qualche interruzione, ha suonato con me per molti anni. Invece sul nuovo lavoro, lo abbiamo appena finito di incidere, ho un tastierista al suo posto, Mike Zito come ospite e ci saranno anche alcuni cantanti di Chicago poco noti, un paio di rappers. Uscirà a settembre per l’etichetta di Mark Carpentieri, la M.C. Sono particolarmente contenta del tastierista, è molto versatile, sa suonare barrelhouse, boogie, gospel, jazz, blues…anche perché non ci sono più molti pianisti in giro. Si chiama Delby Littlejohn.

È un parente di John Littlejohn?
Non lo so, non glielo ho mai chiesto. E’ possibile non è un cognome comune. Lo conosceva il mio bassista e quando l’ho sentito gli ho detto se potevamo portarlo in studio. E quando eravamo lì gli ho chiesto se facesse molti concerti e mi ha risposto di no, allora gli ho chiesto se gli interessava un lavoro.

Hai inciso anche per Ruf, Inak e poi M.C.
Esatto, sono stata la seconda artista a firmare per Ruf dopo Luther Allison, quando Thomas ha creato l’etichetta. C’è stato un periodo di quattordici anni tra il primo disco per la M.C. e il secondo, Six String Stories in cui non ho inciso nulla in studio. Solo un paio di ‘Live’ autoprodotti da vendere ai concerti. Ma ho continuato a lavorare costantemente, in quanto forse non sentivo nessuna ispirazione o stimolo a registrare, è pur vero che quattordici anni sono tanti. Tra il Kingston Mines e la House of Blues suono quattro sere a settimana, per questo non sono stata molto in tour negli ultimi anni. E poi ho cresciuto i miei figli e questo è stato molto impegnativo.

È stato difficile affermarsi, come donna / artista in un mondo piuttosto dominato dagli uomini come quello del Chicago Blues?
Beh sì, alcune persone sono state gentili con me, altre molto meno. Anche se non voglio fare nomi.

Cambi il punto di vista quando decidi di cantare canzoni scritte da altri?
Se sono scritte da uomini? A volte lo faccio, sì. Devo dire che scelgo di interpretare canzoni di altri per varie ragioni, a volte mi piace il groove del pezzo, oppure la voce o ancora magari ho una idea su come suonarla con la chitarra. Dipende. Cerco di fare mia qualunque cosa che suono e di non rifarle due volte nello stesso modo, niente è scolpito nella pietra. Ho un approccio più libero, quasi jazz.

Ci sono artiste del passato con le quali ti sarebbe piaciuto collaborare?
Oh certo, Koko Taylor, Bessie Smith, Memphis Minnie, Etta James…forse più di tutte Koko. Mi piacerebbe viaggiare nel tempo e vedere i grandi del passato.

Non ci sono molte chitarriste a Chicago o in generale.
Vero. Quando ho cominciato c’era solo Bonnie Raitt. Poi sono arrivate altre come Debbie Davies, Sue Foley o Deborah Coleman e Susan Tedeschi ma questo è successo qualche anno dopo. C’erano solo uomini, ma a me non importava affatto, volevo solo suonare.

Che ne pensi del vostro attuale presidente?
Oh, ci sarebbe materiale per parecchio blues! Per il nuovo disco abbiamo inciso un pezzo sull’America di oggi, con un rapper, anche se l’etichetta ha qualche dubbio sul pubblicarla. C’è parecchia slide e il rapper parla di tutto quello che sta succedendo, senza tanti giri di parole. Si chiama Dear America. Non so cosa ne sarà, se finirà nel disco oppure no.

Negli ultimi anni se ne sono andati molti grandi musicisti di Chicago, come Eddie Clearwater, Eddie C. Campbell. Quanto è cambiata la città e la scena blues?
Già è molto triste, abbiamo perso Eddie Shaw, Lonnie Brooks. La morte di Mike Ledbetter è stata terribile, eravamo ad un festival a dicembre e il mese dopo se ne era andato. Davvero tragico. Chicago è cambiata di certo. All’inizio degli anni Ottanta, al mio arrivo, quando entravi al Checkerboard c’erano James Cotton, Junior Wells, Sammy Lawhorne, Pinetop Perkins, Hubert Sumlin, i fratelli Myers…oggi è diverso, ci sono musicisti più o meno della mia generazione come Mike Wheeler, Corey Dennison, Toronzo Cannon, Omar Coleman e poi Lurrie Bell, Billy Branch o Jimmy Johnson, Nellie Tiger Travis, Mississippi Heat, Guy King, Jimmy Burns… Sono tutti a Chicago e li si può ascoltare regolarmente nei club, il livello è buono, di sicuro. Io e Wheeler siamo quelli che suonano più spesso in città, ma spesso ci potreste vedere Carl Weathersby anche se abita a Austin ora, oppure Melvin Taylor. Ovviamente c’è Buddy, sua figlia ha un gruppo e suo figlio Greg suona a sua volta la chitarra, ci sono i figli di Lonnie Brooks, Ronnie e Wayne. Credo che Chicago sia ancora un posto dove si suona molta buona musica, l’altro martedi ero al Rosa’s Lounge ad ascoltare una band perché conoscevo il batterista, facevano una jam e c’erano forse dieci persone ma ci davano dentro comunque.

Conosciamo Tony Mangiullo.
Ah certo è italiano e Mama Rosa e la sua pasta, un vero personaggio! Quest’anno avevano un palco al festival, stanno bene, li conosco da molti anni.

Non hai mai inciso per una etichetta di Chicago.
Vero, anche se la Blind Pig all’epoca più o meno lo era. Conosco Bruce (Iglauer) da molti anni e di recente mi sono ritrovata in studio con lui per la prima volta dai tempi di The New Bluebloods perché sono ospite nel nuovo album di Toronzo Cannon su Alligator. Siamo stati lì per cinque ore o qualcosa del genere, ci è voluto un sacco di tempo, e abbiamo parlato. Era molto più amichevole verso di me, mi ha procurato una intervista e dei contatti per dei concerti, cosa che prima non avrebbe mai fatto. Credo pensasse che fossi un po’ matta e poi abbia capito che in fondo non lo sono poi così tanto! Ogni volta che metteva sotto contratto qualche band da fuori Chicago, ricordo eravamo tutti un po’ seccati, alla fine almeno ha fatto firmare Toronzo Cannon e per lui è stata una buona cosa. Toronzo ha suonato la chitarra ritmica per me per qualche anno e siamo amici, infatti mi ha chiamato quando glielo ha proposto dicendomi, «Joanna pensi che dovrei firmare con Bruce Iglauer?». Gli dissi subito di sì, nonostante Bruce voglia avere tutto sotto controllo e avere sempre l’ultima parola, la sua carriera sarebbe decollata. Ed è quello che è successo. Oltretutto lui e Bruce vanno molto d’accordo. Una volta ad un festival Bruce mi disse «puoi suonare in modo più melodico e lento?», così feci e lui ne rimase impressionato, «so suonare in modi diversi», gli dissi. Ad esempio, faccio diversi concerti acustici, molto tranquilli e anche nel nuovo disco ci sono due canzoni in cui sono da sola con la chitarra.

Farai un intero disco acustico?
Prima o poi sì. Diciamo che questo è solo un assaggio.

Hai anche uno stile personale alla slide. Come hai cominciato e chi sono stati i tuoi chitarristi di riferimento?
Grazie dell’apprezzamento. Ho cominciato su una chitarra acustica e dunque con le cose di Delta Blues come Robert Johnson, con le accordature aperte e cose del genere. Poi mi piace molto Ry Cooder, lo considero un maestro. Inevitabilmente musicisti come Johnny Winter, Duane Allman, Hound Dog Taylor, Elmore James…e poi ho sviluppato il mio stile.

Hai mai incontrato Cooder?
Una volta, moltissimo tempo fa, avevo solo diciannove anni. Lui apriva per Eric Clapton e lo incontrai per caso in ascensore in un hotel, un tipo che conoscevo, uno ricco, dava una festa e aveva cercato di fare in modo che Clapton ci venisse. Cooder salì in ascensore ed io avendolo riconosciuto esclamai «Ry Cooder!» e lui «Ciao, dove stai andando?», «Ad un party, vuoi venire?”, «No, se vuoi puoi venire con noi ad un altro», mi disse lui. Ma io ero con un ragazzo e rifiutai. Questa è la mia storia su Cooder, in realtà appunto non l’ho incontrato da musicista a musicista come mi sarebbe piaciuto. Mi è successo invece con Taj Mahal, in vari festival, anche lui mi ha influenzata parecchio.

Come lavori sulla scrittura?
Oh beh non è certo la mia attività preferita! Ma è vero che ho scritto o co-scritto la maggior parte dei brani negli ultimi due dischi. Per Six String Stories mi ha aiutato nella scrittura Lance Lewis che era il mio batterista ed è lo zio del mio attuale batterista. Ricordo che cercavo un bassista, non ce ne sono molti a Chicago e dissi a Lance che avevo fatto un sogno strano in cui lui suonava il basso. Lui mi disse, «non ci crederai ma ne ho comprato uno ieri». Così due o tre anni dopo cominciò a suonare il basso ai miei concerti acustici e sul disco ha finito per suonare sia la batteria che il basso. Abbiamo scritto insieme quasi tutti i pezzi. Sul nuovo album ho scritto la maggior parte del materiale, in un paio di casi i ragazzi della band mi hanno aiutato con la musica e in un caso il rapper, Alphonso, mi ha dato una mano con le parole. Forse è la prima volta che scrivo i testi con qualcuno. Ci sono persone cui piace comporre musica, io però preferisco suonarla. Per me scrivere non è qualcosa di naturale, credo che la mia dote migliore sia essere una chitarrista e improvvisare su un palco. Quello è il mio forte, non comporre testi e musiche. E’ particolarmente difficile scrivere blues, perché da un lato vuoi espandere il linguaggio del genere ma non puoi nemmeno allontanartene troppo altrimenti diventa qualcosa di troppo distante dalla radice. Cosa che ho pure provato a fare. Essere originali è dura, è una musica antica e a volte ci si chiede che cosa non sia stato già fatto.

Cosa ti piace ascoltare?
Molte cose, resterete sorpresi. Hip-hop, musica indiana, ragas…vorrei persino comprare un sitar, jazz, fusion, musica tradizionale irlandese, musica strumentale per chitarra. Ovviamente rock come i Led Zeppelin o il gruppo che era headliner ieri sera a Pordenone, i Rival Sons, non li conoscevo e mi sono piaciuti davvero, credo siano californiani, il loro chitarrista ha anche suonato slide in diversi pezzi.

Che ricordi hai di Luther Allison, visto che lo hai citato prima e avevate lo stesso manager?
Per dieci anni abbiamo fatto tour insieme, ci sarebbero molte storie. Ricordo che quando stava registrando Soul Fixin’ Man ci ha ospitato per un mese nel suo appartamento col gruppo, credo che gli abbiamo bevuto tutto il vino che aveva in casa! Luther era una persona gentile, aperta, molto generosa con tutti, incoraggiava sempre i giovani musicisti. Al suo funerale ero incinta di mia figlia e sono quasi svenuta. Aveva circa la mia età attuale ed era sul punto di diventare una star, voglio dire lo era già, ma in America non ancora, non per il grosso pubblico. E’ stato un duro colpo. Un po’ come con Mike Ledbetter. Quando qualcuno se ne va in età così giovane, si rimane davvero scossi. Ricordo che mio figlio all’epoca aveva circa dieci anni e suonava la batteria, Luther lo chiamava sempre sul palco a ballare o suonare, una volta sceso dal palco e mi disse, «mamma, c’è qualcosa che non va in Luther, non sta bene», io non ci credevo, «ma no, che cosa stai dicendo?» gli risposi. E poi dieci mesi dopo a Luther venne diagnosticato il cancro. Mio figlio aveva avuto una specie di premonizione, aveva percepito qualcosa, a volte i bambini hanno queste intuizioni e lui era molto legato a Luther.
(Intervista realizzata a Lodi il 19 luglio 2019- Con un ringraziamento a Gianni Ruggiero)

Matteo Bossi e Silvano Brambilla, fonte Il Blues n. 149, 2019

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