Billy Ray Cyrus

La sua storia è una delle tante che ancora oggi confermano che ‘il sogno americano’ non è un’utopia. E forse proprio per questo è una storia che ha dell’incredibile. Nato e cresciuto in un paesino del Kentucky (Flatwood) il 25 Agosto 1961, Billy Ray Cyrus si è per anni nutrito di old time e bluegrass grazie alle passioni musicali della nonna e della mamma, entrambe violiniste.
Dopo aver fondato il suo primo gruppo (gli Sly Dog, lo stesso nome che, un po’ romanticamente, ha voluto mantenere per la sua band attuale) si trasferisce a Los Angeles in cerca di un contratto discografico.

L’avventura californiana termina senza successo nel 1986, anno in cui Cyrus decide di tornare al paesello natio senza per questo rinunciare al suo sogno musicale. Con una certa cocciutaggine, continua infatti la sua gavetta suonando nei club e nei bar del sud fino a quando non viene notato dai discografici della Mercury che lo mettono sotto contratto alla fine del ’90.
Un anno e mezzo dopo esce Some Gave All, il più grande successo di un esordiente nella storia della country music e, forse, della musica leggera in generale con oltre 10 milioni di copie vendute. Così nel giro di un anno, Billy Ray da anonimo ragazzotto di provincia diventa ricco (molto ricco), famoso e ambitissimo.

Difficile dire quali siano le ragioni di questo straordinario successo poiché, così come nel caso di Garth Brooks, non c’è una motivazione artistica reale che giustifichi il “perché lui sì e mille altri no”. Quindi risulta uno sforzo quasi inutile cercare di sezionare la sua musica per isolare il possibile trucco, analizzare il suo ‘look’, misurare il vero o presunto livello di ‘sex appeal’ e persino tentare improbabili analisi sociologiche nel tentativo di scoprire i segreti di questo ‘miracolo del Kentucky’: probabilmente alle radici del fenomeno ci sono mille fattori dosati in modo fantasticamente efficace.

Di sicuro c’è il fatto che la musica di Billy Ray Cyrus ricorda in qualche modo il ‘crossover’ country-pop-rock-blues operato da Garth Brooks. Ed è anche certo che il successo del primo singolo Achy Breaky Heart (un rockabilly stupidino ma certamente accattivante e di facile memorizzazione) ha compiuto quell’effetto-traino che ogni discografico sogna. Some Gave All (una produzione costata meno di 100.000 dollari) ha così prodotto un risultato economico probabilmente mille volte superiore al budget creando ricchezza per tutti coloro che (parrucchiere incluso) hanno preso parte all’avventura.

Per non lasciarsi sfuggire la ‘gallina dalle uova d’oro’, la Mercury Nashville si è affrettata a un anno di distanza a buttar fuori il ‘sequel’ di Some Gave All. Dal titolo già in qualche modo profetico (It Won’t Be The Last, non sarà l’ultimo), l’album sembra ripercorrere la strada del successo precedente. Un brano forte in apertura (In The Heart Of A Woman come nel primo lavoro era Could’ve Been Me) e subito dopo Talk Some un rockabilly bello tosto firmato da Don Von Tress, la penna magica che aveva creato Achy Breaky Heart.

Stessa band (gli Sly Dog) stessi produttori, stessa formula musicale (solo un pochettino più raffinata e più curata nel dettaglio) quasi a dire “squadra che vince non si cambia”. Il disco in sé non è brutto (come non lo era Some Gave All) ma proprio come il precedente non brilla più di tanto fatti salvi i primi due brani. Questa volta, però, l’aspetto commerciale non funziona come nelle aspettative. E, dopo un inizio folgorante sulla spinta della promozione, le vendite di It Won’t Be The Last sembrano ormai avviate verso un clamoroso flop.

Il divario commerciale, come avrete capito, non è sicuramente giustificato da una disparità qualitativa delle produzioni. Chissà che cosa si è spezzato in quel magico ‘mix’ di elementi che avevano decretato il trionfo di Some Gave All visto che anche l’approccio di Billy Ray Cyrus (che incorpora tutti gli elementi del ‘machismo’ un po’ buzzurro tipico della provincia americana) risulta inalterato; così come lo rimangono il suo particolare ‘pony tail’, le sue canotte slavate, le sue ‘sneakers’ da rapper d’altri tempi, le sue chitarre Ovation, le sue mossettine alla Elvis.
Ma forse anche la moderna country music (che si è sempre distinta per la longevità artistica dei suoi protagonisti) deve accettare le dure regole dello show-biz del 2000 che triturano le star a velocità supersonica.

E così anche il buon Billy Ray, asceso all’olimpo degli dei nashvilliani in meno di 10 settimane, rischia di ripiombare tra il sangue, il sudore e la polvere dei bar di provincia che lo hanno lanciato.
A meno che la coriacea tempra sudista e i milioni di dollari accumulati gli consentano una più accurata gestione del successo e, conseguentemente, una diversa pianificazione della carriera.

Ezio Guaitamacchi, fonte Hi, Folks! n. 61, 1993

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