Lonesome River Band

Colgo la notizia quasi per caso, scorrendo distrattamente le date dei concerti del mese su Blue­grass Now di febbraio (Bluegrass Unlimited, questo mese, si è perso nei meandri postali, e arriverà ai primi di marzo, alla faccia dei $ 70 che pago per le sole spese postali): la Lonesome River Band è annunciata a Zurich per il 24 e 25 febbraio.
Ci metto un po’ a rendermi conto che è proprio Zurich Switzerland, e non Zurich Missouri o Alabama. Nonostante lo scarso preavviso, e nonostante il fatto che abbiamo visto la LRB esattamente quattro mesi prima, non faccio alcuna fatica a convincere la consorte ad organizzare la trasferta: è una notevole ammiratrice di Ronnie Bowman, che, come tutti sanno, oltre che cantante da corsa e bassista della LRB, è anche un gran bel ragazzo (chi ha tutto, e chi niente).
Il giornale non riporta alcun indirizzo, ma, con una telefonata a Keith Case & Associates (che, oltre che della LRB, è l’agenzia di una notevole quantità di major acts nel panorama bluegrass, uno per tutti Del McCoury), ottengo il numero della Schutzerhaus Albisguetli, che, via fax, mi spedisce persino una piantina per raggiungere il luogo (organizzazione svizzera).
Arriviamo a Zurigo poco dopo le 18, e quindi con un discreto anticipo. È stata una bella impresa, considerata la situazione viabilistica di tutta la Svizzera: è la famosa settimana delle valanghe, quella con morti e feriti, il San Gottardo è chiuso, il San Bernardino è aperto per scommessa, e non avevo mai visto tanti camion tutti insieme, nemmeno nel parcheggio della Iveco.
La Schutzerhaus, mi dicono, e lo si capisce anche dal nome, è stata la sede delle guardie del parlamento: i concerti si tengono in un enorme salone con una bellissima volta di legno, che ha tutta l’aria di essere stato il maneggio del castello. Senonchè il palco è sistemato nel mezzo di uno dei lati lunghi: per cui la maggior parte dei tavoli è sui due fianchi del palco, e in particolare quello prenotato da noi è quasi dietro.

Lo spazio davanti al palco, un po’ più grande di un campo da pallavolo, è completamente libero, e (provvidenzialmente, come vedremo poi), coperto di legno.
È evidente che il tutto è stato concepito più per il ballo che per l’ascolto: un paradiso per i line dancers, ma uno che ha valicato le Alpi per la miglior banda bluegrass attualmente in circolazione rimane un attimo perplesso. In effetti il festival in corso, di cui questa è la quindicesima edizione, è un festival country.
Mentre mangiamo (la cena non è obbligatoria, ma va benissimo che ci sia), apre la serata, alle 19.30, spaccando il secondo (siamo in Svizzera), un gruppo belga, che si chiama Gold Rush, e che esegue, con molta buona volontà, ma, secondo me, con esiti discontinui, un programma in stile newgrass: ottenendo il risultato che ottiene di solito chi si cimenta con tale repertorio e tale stile senza chiamarsi Bèla, né Sam, e neppure John o Pat.
Nonostante la posizione infelice del tavolo (e non è nemmeno il peggiore), il suono è discreto (e anche il cibo). Ciò nonostante, comincio a chiedermi se una singola serata valga un tale viaggio, e l’attraversamento dello spartiacque continentale (in inglese, Continental Divide) proprio nel giorno più sfigato del secolo, ed un pernottamento a Zurigo, che non è precisamente la città più economica d’Europa.
Verso le nove e mezza i quattro compaiono in sala. Approfitto della nostra posizione pressoché backstage (non tutti i mali vengono per nuocere) per appostarmi vicino alla scaletta del palco e fare qualche foto da vicino.
Passa Ronnie Bowman, passa Sammy Shelor, che adocchia il mio ‘Kentucky Hat’ (rigorosamente bianco, e rigorosamente sulle ventitré), si ferma … mi guarda … sorride e tende la mano, e dice (press’a poco): “I remember the face, can’t remember the place”. Gli dico, “Louisville, la sera che hai vinto il tuo quarto award, e poi diverse volte in giro per la Galt House”, e lui dice. “sicuro, mi ricordo”. Mi sollevo di venticinque centimetri da terra, e, di colpo, non sono più stanco, ed ogni dubbio scompare.

Dopo un paio di canzoni, decidiamo che non siamo venuti fin qui per vedere il sedere di Kenny Smith, nonostante il titolare (del sedere) sia molto simpatico. Ci andiamo a sedere sul pavimento di legno davanti al palco, con le venti persone che sembrano sapere chi stanno ascoltando. Perché ho la netta impressione che la gran maggioranza di questo pubblico, probabilmente ferratissimo su ‘mainstream country’ e ‘outlaws’, non si renda bene conto di chi ha davanti.
La mia dolce accompagnatrice, che capisce un po’ di tedesco, me ne da conferma. C’è persino un tentativo di ballare da parte di una o due coppie: con scarso esito, perché chi sta sul pavimento, quando passa una coppia, allunga le gambe, secondo me di proposito (io, da perfetto Italiano-in-Svizzera, sono rispettosissimo).
Apro qui una digressione che, probabilmente, non piacerà ad una bella fetta dei lettori di Country Store: se dico che la musica bluegrass è musica da ascoltare, e non da ballare, non credo di dire un’eresia. Sono perfettamente convinto che, quando il ritmo ti prende, ballare sia bello, divertente, e, probabilmente, vedere il pubblico che balla con entusiasmo, piace anche ai musicisti. Quando suonano musica da ballo. A giudicare dalla faccia di Don Rigsby, non direi che gradisse veder gente ballare su un suo gospel (loro, che ci piaccia o no, ci credono).
Oltre a tutto, ballare su un timing autenticamente bluegrass deve anche essere difficile. Per favore, quando suona la Lonesome River Band, o Lynn Morris, o Del McCoury, non ballate. Non davanti, almeno: se proprio non potete farne a meno, state dietro. Davanti, distraete molto. Fine della digressione.

Di fronte al palco il suono è decisamente ottimo, certamente favorito dalla gran quantità di legno del locale. Mi rendo conto alla svelta che un intero concerto della LRB è molto, ma molto di più di un singolo set in un festival. Fra l’altro, il programma europeo è abbastanza diverso da quello americano. Innanzitutto i gospel si contano sulle dita di mezza mano: probabilmente sanno, o sentono, che il pubblico è diverso, e che l’Europa è meno sensibile a certi argomenti, quando non è addirittura irridente.
Però, nel secondo tempo, Don Rigsby non rinuncia a cantare, da solo e a voce scoperta, Higher Than I (dal suo A Vision, Sugar Hill 3873). Emozionante. Come è emozionante Ronnie Bowman in The Man l’m Trying To Be (dall’album omonimo, SH 3880), con il supporto vocale di Don Rigsby e Kenny Smith, e con la sola chitarra dì quest’ultimo. Così emozionante che lo stesso Ronnie si commuove.
Ma i punti di forza della Lonesome River Band sono, secondo me, il calore, l’energia, e la simpatia di tutti e quattro (il sorriso di Ronnie Bowman, poi, è incredibile): e si sente in pezzi come Am I A Fool, Katy Daley, Will I Be That Lucky Man, Sweet Sally e Fireball Mail, presa ad una velocità quasi doppia rispetto al disco.

Ci sarebbe molto spazio per le richieste, ma glie ne arriva solo una (da parte mìa; ne avrei di più, ma, insomma, un po’ di ritegno): You Gotta Do What You Gotta Do, che viene eseguita puntualmente nel secondo tempo. Rispetto ad una media esibizione americana (o ad un CD), noto anche una notevole quantità di strumentali: certo che, (ri)sentire dal vivo Ernest T. Grass suonata da Sammy Shelor proprio lui, non guasta di sicuro.
Noto anche un’altra cosa: contrariamente a quanto ho visto e sentito a Louisville, gli assoli strumentali sono diversi, e a volte anche molto diversi, e più numerosi, rispetto alla versione incisa. Per mandolino e chitarra è più di una sensazione, per il banjo è una certezza: ho tutti e due i volumi AcuTab di Sammy Shelor.
Ovviamente, non so suonare quegli arrangiamenti, ma, vivaddio, un’idea di cosa succeda me la sono fatta. Probabilmente la consapevolezza di avere un pubblico che non è ferratissimo sulla loro produzione discografica permette ai quattro di divertirsi improvvisando un po’. Non che questo mi dispiaccia: anzi.
Verso la fine del secondo set Sammy Shelor chiama sul palco Jens Krueger. Lo avevo sentito, ed apprezzato immensamente, come banjoista robustamente Scruggs quando suonò con il compianto Jim Eanes, parecchi anni fa, al Teatro S.Giuseppe di Milano. Lo avevo risentito alcuni anni dopo, alla Ferrera di Milano, insieme a Massimo Gatti e ai due fratelli Minuto: e la seconda volta avevo avuto la precisa sensazione dì un banjoista fornito di una tecnica progressiva notevole, ma estremamente misurato e di notevole buon gusto. Qui, stasera, si diverte liberamente, ed io resto sbalordito.

Poche volte ho sentito un banjo così totalmente melodic suonato con tale naturalezza, scioltezza, drive, e, soprattutto, buon gusto. In cinque eseguono due pezzi, tra cui una lunghissima versione di Duelin’ Banjos, che, finalmente, sembra scaldare un po’ questo pubblico svìzzero (nessun doppio senso, naturalmente).
Entrambi i banjoìsti dimostrano, oltre alla ben nota tecnica, notevoli doti comiche, scambiandosi sfide a chi fa l’intermezzo più lungo e complicato, con espressioni perplesse, finto studio reciproco, note rubate, ed altri attrezzi degni del miglior repertorio del migliore dei clown.
Si divertono molto, e si vede. Mi annoto mentalmente di acquistare il CD appena uscito dei Krueger Brothers (non in franchi svizzeri, però: in $ costa la metà).
Il concerto si chiude con due bis, due cavalli di battaglia come Nine Pound Hammer e Sitting On Top Of The World.
Alla fine c’è ancora il tempo per due chiacchiere ed un paio di foto (io con Sammy Shelor, e mìa moglie con Ronnie Bowman: in fin dei conti, con Atlantico + Appalachi che normalmente li separano, si può anche lasciarla fare).

Nonostante le forse duemila persone presenti, non c’è il consueto assedio. Anzi. Ho tutto il tempo di farmi autografare le cinque copertine dei CD che mi sono portato apposta (naturalmente ho tutti i CD della LRB da Carrying The Tradition in avanti, i quattro che ciascuno di loro ha pubblicato da solo, ed i due volumi AcuTab di Sammy Shelor: più di così, potrei solo comprare le ciocche dei capelli di Ronnie Bowman e Kenny Smith, visto che quelli di Sammy Shelor sono piuttosto rari).
Dall’inizio del concerto sono già sceso dai ventìcinque centimetri cui mi aveva portato Sammy Shelor. Ci pensa Don Rigsby a riportarmi in alto, e in modo più duraturo. Mentre mi firma la copertina del suo A Vision, gli dico che vengo dall’Italia, che li avevo sentili in ottobre a Louisville (lui è proprio del Kentucky, e io lo so), che dopo ho girato quasi tutto il Kentucky, e che me ne sono innamorato. Mi chiede cosa ho visto. Io rispondo subito: Rosine. Mi guarda un attimo, e dice, più o meno: “Pensavo che, in Europa, quei pochi che ascoltano bluegrass, ne amassero il suono, e basta. Vedo che c’è anche qualcuno che lo capisce”. Mi riprende la copertina del disco, e aggiunge qualcosa vicino alla firma.
Uscendo, alla luce di un lampione, decifro quello che ha scritto: “God Bless You”. Ci sto ancora pensando.

Aldo Marchioni, fonte Country Store n. 47, 1999

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