Se c’è qualcuno che incarna il Chicago blues oggi, quel qualcuno è Lurrie Bell. Questa musica lo ha marchiato sin dall’infanzia. Potrà sembrare banale affermarlo, ma tutto ciò si avverte con evidenza non appena Lurrie apre bocca per cantare o sfiorare le corde della sua chitarra.
Cosa ricordi del tuo debutto europeo nel 1977 con la formazione denominata New Generation of Chicago Blues?
E’ passato molto tempo, ma ricordo bene quei concerti. Salimmo su un aereo a Chicago alla volta di Berlino e c’era eccitazione per i concerti che avremmo tenuto, bevemmo un po’ di champagne e giocammo persino a dadi sull’aereo! Arrivammo all’hotel e poi ci portarono al soundcheck alla Filarmonica di Berlino, e le prove andarono piuttosto bene. Mi diedero da suonare una chitarra (non avevo portato la mia) con la quale, per qualche motivo, non mi trovavo benissimo, era una Gibson Les Paul; comunque me la cavai lo stesso, suonammo dei pezzi di Muddy Waters e la gente sembrava divertirsi. Il mio bagaglio andò perso e dovetti farmi prestare dei vestiti da qualcuno, ma a parte questo il concerto andò bene. Poi suonammo anche in due o tre club lì, di uno ricordo ancora il nome, si chiamava Quasimodo. Proprio in quel locale incontrai Champion Jack Dupree, un uomo che mi è sempre piaciuto e ho sempre rispettato, mi invitò a suonare con lui e fu un grande onore. Mi divertii un mondo, mi incoraggiò molto, Champion Jack era un tipo davvero speciale e fu forse il momento più bello del tour. All’hotel ci fu una lite tra qualcuno dei ragazzi della band e ci fu anche un problema con il figlio di Eddie Taylor, Larry che andò in un locale, successe qualcosa e gli confiscarono il passaporto, per cui ci chiedevamo come sarebbe riuscito a tornare a Chicago.
E’ stato in un certo senso l’avvio della tua carriera?
Oh si, avevo diciannove anni ed era la prima volta che venivo in Europa. Eravamo io, Billy Branch, Freddie Dixon, James Kinds, Dead Eye Norris, Harmonica Hinds, Vernon e Joe Harrington, William ‘Bom Bay’ Carter, Larry Taylor, il figlio di Clifton James alla batteria e Willie Dixon. Era stato Jim O’Neal a mettere insieme il gruppo, e fu lui ad andare da mio padre a chiedere se potevo andare in Europa a suonare. Mio padre disse subito di si, di andare e divertirmi. E’ quel che abbiamo fatto.
Come hai cominciato a suonare la chitarra?
Avrò avuto più o meno cinque anni quando ho preso in mano una chitarra la prima volta, e logicamente suonavo ad orecchio. Posso dire che sono nato col blues, ce l’ho nel sangue, conoscete tutti mio padre Carey, già da bambino mi dicevo, «suonerò il blues , suonerò il blues!». Negli anni Sessanta Eddie Taylor suonava la chitarra con mio padre e mi piaceva moltissimo il suo stile, pensavo che fosse il migliore. Mi ricordo una volta che trovai una chitarra a casa, la presi e mi misi subito a suonarla, cercavo di riprodurre dei giri di Jimmy Reed, in quel momento mio padre e la band stavano provando dei pezzi nel seminterrato. Volevo suonare come Eddie e lo osservavo con attenzione, poi cercavo di suonare anch’io e così ho imparato e non ho mai smesso di suonare.
Ci sono stati altri chitarristi importanti nella tua formazione?
Anche Roy Johnson mi piaceva molto. Era un grande chitarrista che suonava a sua volta con mio padre, ed era tra i miei preferiti. Però ho cercato di sviluppare un mio stile, ho imparato a fare accordi e assolo. Mio padre mi ha tenuto d’occhio, del resto lui sapeva suonare anche la chitarra e il basso.
Come hai cominciato a suonare con tuo padre Carey?
Ho sempre ammirato il lavoro di mio padre. Da bambino ho vissuto coi miei nonni a Lisman, Alabama, una piccola cittadina a circa venti miglia da Meridian, Mississippi. Volevo suonare e mio padre mi inviò per posta una chitarra, ero talmente contento di averne una! Cominciai allora suonare nelle chiese in Alabama, ogni mercoledì e domenica, e cantavo anche gospel. Ho imparato molti spirituals in quel periodo, e quella musica mi ha tenuto lontano dai guai. Poi qualche anno dopo, mio padre è venuto a prendermi e mi ha riportato con sé a Chicago, ed è stato allora che ho iniziato a suonare con lui e Lovie Lee, suonavo il basso. Ero troppo giovane per entrare nei club! E’ stato bello suonare con loro, era una cosa di famiglia perché Lovie Lee è stato una sorta di secondo padre per Carey, lo ha cresciuto dall’età di quattordici anni.
Nel tuo disco The Devil Ain’t Got No Music hai inciso alcuni spirituals.
Si è stata una rivisitazione del passato. In Alabama mi dicevano: «Lurrie, qualunque cosa farai ringrazia il Signore e non dimenticarti di questi vecchi spirituals!». Tutta quella scena mi è tornata in mente per quelle registrazioni, ed ho cercato di metterci dentro quello in cui credo. Vi è piaciuto quel disco?
Molto, è un disco diverso dagli altri tuoi.
Vero, sono fiero di quest’album. Mi hanno aiutato un sacco di buoni amici, soprattutto Matthew Skoller, che conosco da anni ed è anche un grande armonicista.
Uno dei nostri dischi preferiti è Mercurial Son.
Ah vi piace Mercurial Son? Mi fa molto piacere, penso sia uno dei migliori dischi che io abbia realizzato in studio, suona ancora bene se lo ascolti ora.
Hai registrato per molte etichette europee.
Sì, per John Stedman, Lippman e Rau, Wolf…ma ho cominciato sull’antologia dell’Alligator, Living Chicago Blues, con Billy Branch e i Sons of Blues. In seguito ho inciso con tanti musicisti diversi, da Eddie C. Campbell a Eddie Clearwater, Phil Guy, Sunnyland Slim e moltissimi altri. Con mio padre registrai per la Rooster e per altre etichette, e ho un buon ricordo anche di alcuni tour con lui e i miei fratelli in Inghilterra. Mi diverto ancora a suonare, e penso che sarà sempre così.
Suonano ancora i tuoi fratelli?
Sì suonano ancora tutti, anche se non lo facciamo spesso insieme, siamo ancora in contatto! Molti dei grandi musicisti della generazione di mio padre se ne sono andati, e non ci sono più pianisti del calibro di Lovie Lee, Otis Span, Sunnyland e Pinetop. Del resto io sono sempre stato un tipo religioso e quando il Signore decide che è arrivato il tuo momento, non resta molto da fare, poco importa che tu sia giovane o vecchio.
L’ultimo disco è uscito di nuovo per la Delmark, mentre i due precendenti per la tua etichetta, Aria B.G.
Sono contento di essere di nuovo con la Delmark. Conosco Bob Koester da quando ero bambino ed è una grande persona, ha fatto moltissimo per il blues a Chicago e i musicisti per oltre sessant’anni. Ho fatto, credo, cinque dischi per loro ed abbiamo un ottimo rapporto.
Negli ultimi anni hai fatto parte del progetto Chicago Blues A Living History.
Sono stati Matthew Skoller e suo fratello Larry a ideare il progetto e a produrre i dischi. Posso dirvi che lavoriamo molto bene insieme, suonare con Billy Boy, Kenny (Smith), Billy Branch, Billy Flynn e gli altri è sempre un piacere. Dovremmo tornare in Europa il prossimo mese di giugno.
Hai mai pensato di registrare un disco solo con la chitarra elettrica?
Hey non ci ho mai pensato, ma sapete che vi dico? E’ una grande idea, potrei fare qualcosa nello stile di Lightnin’ Hopkins o John Lee Hooker, questa devo tenerla a mente!
(Intervista realizzata all’Amigdala di Trezzo sull’Adda, il 27 aprile 2014)
Matteo Bossi, Marino Grandi, fonte Il Blues n. 127, 2014