Appena ventunenne, Marcus King è già ben avviato, e il suo secondo disco edito dalla Fantasy/Universal (Il Blues n. 137) lo dimostra. L’aver incontrato sul suo cammino un mentore come Warren Haynes gli ha di certo giovato sotto molti aspetti. Di suo il ragazzo ha una semplicità genuina e una evidente voglia di suonare, testimoniata anche nel suo primo concerto milanese al Legend, lo scorso maggio, in cui la band ha alternato lunghe jam, coi fiati e la chitarra di Marcus in primo piano, a momenti in cui le canzoni sono più strutturate ed emergono anche le sue qualità vocali. La sua musica contiene elementi differenti, un ovvio rimando a band come gli Allman Brothers, ma anche alle loro diramazioni odierne quali la Tedeschi Trucks e lo stesso Haynes, un impasto di rock, soul, blues, funk e qualche componente country. Indice di ciò anche la scelta delle cover, interpretate al concerto di cui sopra, la beatlesiana Dear Prudence, Let’s Get It On o Compare To What.
La musica è sempre stata presente nella tua famiglia?
Sì, mio padre suona e anche mio nonno suonava, perciò la musica è una cosa naturale. Io ho cominciato a suonare la chitarra da bambino, a tre o quattro anni. A casa suonavamo soprattutto gospel, ma poi anche bluegrass, rock’n’roll, blues…qualsiasi cosa mi piacesse. Ho anche suonato nel gruppo di mio padre, per qualche tempo, in cui suonano più che altro blues e rock’n’roll. Tra i primi dischi che ho ascoltato ci sono stati il Live At Fillmore East degli Allman Brothers e Bridge Of Sighs di Robin Trower e poi un disco di George Jones. Poi ho ascoltato anche Jimi Hendrix o Stevie Ray, Elmore James ma non ho mai voluto emulare nessuno. E infine sono passato ad ascoltare parecchio jazz, Coltrane, Charlie Parker… o Jimmy Smith, mi piace molto l’organo Hammond, è uno dei miei strumenti preferiti. Mi piaceva anche suonare la batteria e la so anche suonare un po’ se necessario, ma poi ho conosciuto Jack, che è un ottimo batterista.
Quando hai cominciato a cantare?
All’inizio suonavo e basta, ho provato a cantare intorno ai tredici o quattordici anni. Cercavo di esprimermi, come meglio potevo e non so se ci riuscivo. A comporre ho cominciato intorno ai quindici.
Hai sempre saputo che la musica sarebbe stata la tua strada? Cosa rappresenta per te?
Credo di sì, sapevo che volevo suonare, viaggiare, speravo che la mia vita sarebbe andata in quella direzione. Per me la musica è energia positiva, è il miglior modo di liberare le emozioni che hai dentro, rabbia, dolore, gioia e trasformarle, attraverso di essa, in qualcosa di positivo. In questo senso è quasi terapeutico perché se riesci a tirarle fuori, poi ti senti meglio. Spero che chi ascolta il disco o ci viene ad ascoltare in concerto possa sentirsi in sintonia con queste sensazioni.
Come lavori in fase di scrittura, di composizione?
Di solito, diciamo al novanta per cento, parto da esperienze personali. Rita Is Gone è una eccezione solo in parte, perché ho usato un personaggio di finzione, Rita nella serie Dexter, ma la canzone aveva già una sua struttura e il primo verso, ispirato da una situazione reale, mia zia che aveva un cancro e mio cognato in coma, quindi scritto dalla prospettiva di qualcuno che c’è dal punto di vista fisco ma non da quello emotivo. Poi avevo un altro verso incentrato su una relazione finita male. Le due cose non stavano insieme, ma poi guardando Dexter mi è venuto in mente di adottare Rita, un personaggio che era appena morto, per unire le due prospettive. Musicalmente il pezzo è stato influenzato anche dai Bad Company di Paul Rodgers, una band che mi è sempre piaciuta. Self-Hatred viene da un’altra esperienza personale, piuttosto dolorosa, cerco di raccontarle attraverso le canzoni.
Come vi siete conosciuti con Warren Haynes e come è stato lavorare con lui in veste di produttore?
Warren è di Asheville, North Carolina, mentre io sono cresciuto a Greenville, South Carolina, che distano circa un’ora e un quarto tra loro. Sono stato spesso ad Asheville e so che degli amici di Warren gli hanno parlato di me e gli avevano fatto ascoltare il nostro primo disco, Soul Insight. Una volta è venuto ad un concerto e ci siamo conosciuti. Lavorare con uno dei miei eroi è stato bello, all’inizio ero un po’ nervoso ma ci siamo intesi da subito, parliamo molto, e l’ambiente in studio era davvero familiare. Warren ci ha messo a nostro agio, ci ha aiutato negli arrangiamenti, a dare forma alle canzoni, volevamo che rispecchiasse l’atmosfera live del gruppo. Abbiamo registrato quasi tutto il disco dal vivo in studio. Derek (Trucks n.d.t.) non è potuto venire direttamente in studio, stavano partendo per l’Australia, ci ha mandato la sua parte e ovviamente era perfetta.
Un’altra influenza della band sembra essere il soul e il rhythm and blues.
Oh certamente, mi piace moltissimo la musica di Memphis e Muscle Shoals, artisti come Aretha Franklin, Etta James, James Brown, Otis Redding, Mavis Staples, Sam Cooke… sono molto presenti nella nostra musica. E la loro voce viene fuori anche quando suono la chitarra.
E per quanto riguarda il blues?
Tra i miei dischi preferiti ci sono Live At Cook County Jail e Live At Regal di B.B. King, sono dischi pieni di emozioni. E poi soprattutto Son House e Howlin’ Wolf per le voci, incredibili, potenti così profonde. Quasi agli antipodi di qualcuno come Hank Williams, anche se poi cantano di sensazioni simili, ma lo fanno in modo molto diverso.
Come si è evoluta la band?
All’inizio eravamo un trio, ma dopo il primo disco siamo rimasti solo io e il batterista, Jack. Ora siamo in sei, compresi i fiati. Sapevo che con Jack Ryan e Stephen Campbell avevamo una ottima base, ma poi le cose hanno preso forma in fretta e abbiamo trovato davvero un bell’impasto coi fiati e l’organo. Credo il disco fotografi la crescita, l’insieme, del gruppo e come siamo riusciti a trovare un nostro suono, anche perché con questa formazione non eravamo mai stati in studio insieme. Suoniamo dal vivo il più possibile ed ho già diverse idee per il prossimo disco, al momento non so se potrà produrlo ancora Warren.
Come ascolti musica, vinile, CD, mp3?
Ascolto CD ma amo il vinile, e il mio batterista Jack ha una bella collezione, anch’io ne ho una, ma la sua collezione è molto più estesa. Li ascoltiamo spesso e discutiamo sulla superiorità dell’esperienza di ascolto del vinile. E’ una forma di ascolto più pura, c’è una specie di rituale, estrai il disco, lo pulisci, lo metti sul piatto ed ecco che puoi sentire la puntina scorrere sul disco. Forse è una mia sensazione, ma la musica su vinile sembra avere più sostanza.
Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 139, 2017