Mary Chapin Carpenter picture

La piccola ragazza del New Jersey, dall’aspetto mite e rassicurante, con quegli occhi che guardano attraverso, con quell’aria serena ma al contempo inquietante. La piccola ragazza che sa sussurrare le più belle parole d’amore e che con la stessa forza emotiva sa urlare la propria determinazione, il suo essere donna. Una voce in grado di accarezzare con la stessa delicatezza con cui la madre sfiora il suo neonato, e con eguale passione lasciare segni profondi nell’animo di chiunque riesca a spogliarsi della propria piccola quotidianità, per lasciarsi trasportare verso spazi in cui il sentimento è l’unica cosa vera, e rendersi conto che è quello, solo quello a tenerci in vita.
E allora ogni cosa assume un valore diverso, l’aria che si respira diventa pura e ci si sente al centro del mondo, ma consapevoli di essere solo un granello di sabbia nell’universo.
Sono emozioni, sentimenti, sensazioni impalpabili che si riescono a vivere in maniera artificiale, sollecitate, con l’aiuto della poesia. La musica fa il resto.

Succede raramente che un artista riesca a coinvolgerti a tal punto, succede quando vieni preso per mano per essere accompagnato in uno spazio non definito, portando con te tutto te stesso, per scoprire piccole cose che già conoscevi, cullato da una atmosfera che ti fa credere di essere stato tu ad averla creata. Mary Chapin Carpenter è un artista che riesce a narrare il malessere di questa società attraverso la storia di un uomo dimenticato da tutti (John Doe No. 24) dimostrando che dietro il dramma di un essere umano si può nascondere tutta l’ostilità di questo sistema verso chi l’ha concepito. Così come una vecchia camicia (This Shirt), il rapporto con essa, cosa con essa ha vissuto, possa essere la metafora per raccontarci nella più malinconica delle maniere una passata storia d’amore che non riesce a scordare (…so old I should replace it, but I’m not about to try). E’ tutto qui, il dono della sintesi. Ma anche una sensibile lente che riesce a filtrare quello che scivola via senza lasciare apparente traccia, per offrirtelo in poesia e musica.

Mary Chapin Carpenter nasce a Princeton, New Jersey, il 21 Febbraio 1958, terza di quattro sorelle si interessa alla musica in tenera età, già a dieci anni comincia a suonare la chitarra e a sedici, trasferitasi con la famiglia nella zona di Washington D.C., prende il via la sua conoscenza con il mondo esterno, lo stesso mondo che qualche anno dopo, mentre è all’Università, la scopre come una delle più interessanti giovani cantautrici in circolazione. Sono sufficienti pochi anni passati sui palchi dei folk club della città perché, con un solo nastro all’attivo, si guadagni il Washington Area Music Award. Quel nastro lo registrò nel seminterrato di John Jennings, dove l’amico allestì un casalingo studio di registrazione, e Tom Carrico, manager di Mary Chapin sin dall’inizio e fino a pochi mesi fa, fece da subito un buon lavoro, tant’è che se non avesse firmato per la CBS alla fine dell’86, avrebbe sicuramente stipulato un contratto con la Rounder Records.
Il primo disco, Hometown Girl, è del 1987 e venne prodotto da Jennings, che si confermò come il responsabile del suono Carpenter in tutti gli anni che seguirono, oltre che ottimo chitarrista sia acustico che elettrico. Già il debutto discografico evidenziò le doti della cantautrice, infatti conteneva ben otto canzoni di sua produzione, una scritta in coppia con Jennings e una bella cover di Downtown Train di Tom Waits. Un particolare molto interessante è che la chitarra acustica lead scelta per le incisioni fu quella di Tony Rice, mentre gli altri strumenti acustici vennero suonati da Mark O’Connor.

Ma mentre il suono di Hometown Girl, per quanto buono fosse, soffriva forse di una produzione scarna, il successivo secondo lavoro, State Of The Heart, inciso per la Columbia nel 1989, portò la cantautrice ad un livello di prima grandezza in quanto le sue liriche vennero abbracciate da un suono perfetto, curato in ogni suo aspetto dalla stessa Mary Chapin e da Jennings, con un ottimo Rico Petruccelli ad arrangiare e condurre la preziosa sezione d’archi, e da Mike Auldridge e Rickie Simpkins a rendere più country un disco che altrimenti non avrebbe assunto quei connotati che consentirono all’autrice di scalare la classifica country oltre a quella pop.
La band, consolidata e perfettamente coerente alle caratteristiche musicali dell’artista, era formata da Robbie Magruder (batteria), Rico Petruccelli (basso), John Carroll (tastiere), Peter Bonta (tastiere, accordeon e chitarra acustica), John Jennings (chitarra elettrica ed acustica) e dalla stessa Mary Chapin, apprezzatissima chitarrista oltre che vocalist.
Dieci delle undici canzoni di State Of The Heart vennero scritte dalla Carpenter, e quell’unico brano altrui, Quittin’ Time di Robb Royer e Roger Linn, affiancava egregiamente altri come Never Had It So Good o Too Tired per le similari caratteristiche di certo country rock di maniera, forte di una melodia chiara, semplice, facilmente memorizzabile. Non una delle canzoni di State Of The Heart può essere giudicata non riuscita, tutte posseggono una forte personalità, e per quanto differenti l’una dall’altra – si va dal country rock alla canzone d’autore al country più classico – il suono si rivela incredibilmente omogeneo.
Il disco venne promosso anche in Europa con un tour che vide Mary Chapin esibirsi in diverse gratificanti situazioni come il festival di Grindelwald, nella Svizzera tedesca. Tornò nel Vecchio Continente anche l’anno successivo per un concerto al prestigioso Wembley Festival in Gran Bretagna.

Qualche mese dopo venne distribuito il suo terzo disco. Shooting Straight In The Dark esce nel 1990, e il suono si fa un pò più duro, più deciso, con brani rock leggeri come Right Now (fu subito un singolo di successo – un rock’n’roll scritto nel lontano 1958), brani rock del miglior cantautorato come Going Out Tonight, Middle Ground o You Win Again e, oltre ad un cajun-rock di immediata presa (altro grande successo), tre canzoni lente, intimiste che giudicare splendide è fare un torto alla piccola Mary Chapin. Basti la conclusiva The Moon And St. Christopher, una canzone dalla costruzione melodica e arrangiamento perfetti, con la quale la brava autrice si mette a nudo guardandosi dentro, offrendo tutta la poesia di cui è capace.
Shooting Straight In The Dark, pur essendo un disco poco, quasi per niente country, rimase per due anni consecutivi nella classifica dei prodotti più venduti divenendo presto Gold, e le consentì una tale ammirazione da parte del pubblico, critica e colleghi, da essere invitata ad aprire il Country Music Award show di quell’anno, dove si esibì con una canzone inedita seguita da una standing ovation della platea.
A confermare che è solo lei a decidere quando è il momento di farsi ascoltare, evitando di sottostare ai voleri delle etichette che tendono a spingere gli artisti di successo nell’incidere almeno una volta all’anno, lascia che trascorrano ben due anni prima che Come On Come On veda la luce.

E mai attesa fu più giustificata: una serie di canzoni accattivanti, orecchiabili ma di grande spessore, profonde, con testi intelligenti ed un suono ancora più vicino al rock che al country. Il disco è a tutt’oggi quello che ha raccolto maggior successo commerciale, vendendo un numero di copie inimmaginabile anche per lei, che da sconosciuta folk singer da folk club si vide proiettata nel giro di pochi anni nell’olimpo dei grandi del country e del rock.
Come On Come On fece guadagnare a Mary Chapin Carpenter il suo secondo Disco d’Oro solo un paio di mesi dopo l’uscita e, come se non bastasse questo, presto divenne di Platino e le fece portare a casa ben due Grammy per I Feel Lucky e Passionate Kisses, una canzone scritta da un’altra brava autrice meno fortunata di lei, Lucinda Williams.
L’elenco degli awards guadagnati dalla Carpenter in questo periodo, come miglior disco, canzone, performance, voce femminile e quant’altro, offerti da tutte le organizzazioni e associazioni operanti nel settore discografico, è troppo lungo per essere steso interamente. Il più importante rimane certamente quello che ognuno di noi, nel proprio piccolo, ascoltando il disco anche a distanza di quattro anni, tributerà a quest’artista, e a tutti quelli che hanno fatto parte in maniera diretta (Joe Diffie, Matt Rollings, John Jorgeson, Rosanne Cash, Paul Franklin, Jerry Douglas, Edgar Meyer, Emily Saliers, John Jennings…) e indiretta (Lucinda Williams, Mark Knopfler, Don Schlitz) alla produzione di uno dei migliori dischi degli anni ’90.
Giungiamo così all’ultima parte della sua discografia. Stones In The Road (1994) è il progetto più impegnativo realizzato da Mary Chapin Carpenter, non certamente dal punto di vista compositivo – sotto questo aspetto il disco si rivela come la più naturale continuità con i lavori passati – ma piuttosto per quanto riguarda il coinvolgimento di un alto numero di musicisti di fama mondiale provenienti dai più diversi generi.

Apprezziamo il produttore (ancora John Jennings insieme a Mary Chapin Carpenter) per essere riuscito ad integrarli in un disegno che, come i precedenti, risulta brillare per coerenza ed omogeneità sebbene si denotino in esso anime musicali diverse.
Gli appassionati di country music vi hanno rincontrato Stuart Duncan (fiddle) e Alan O’Bryant (vocals) della Nashville Bluegrass Band, i coniugi Robin e Linda Williams (vocals) e la giovane stella Trisha Yearwood (vocals). Kenny Aronoff, micidiale batterista già con John Mellecamp e Lee Roy Parnell, country rocker sempre più tendente verso la seconda metà dell’etichetta ed eccellente slide guitarist che si è visto ricambiare il favore dalla Carpenter (ha partecipato all’incisione del suo recente We All Get Lucky Sometime), hanno appagato quanti, più vicini al rock in fatto di gusti musicali, sentono l’esigenza di forti vibrazioni. Paul Brady e Branford Marsalis, dal canto loro, hanno chiuso il cerchio, fornendo un determinante apporto anche se in maniera delicata e discreta; il primo con il suo penny whistle nella bellissima Jubilee, il secondo disegnando astratti contrappunti con il sax soprano alla voce narrante di Mary Chapin Carpenter in uno dei testi più amari composti dall’autrice (John Doe No. 24).
Stones In The Road è un disco coinvolgente, caldo come un abbraccio, umido come l’autunno, duro come la roccia, malinconico come un vecchio album di fotografie. E Mary Chapin Carpenter è vicina, come un’amica alla quale si può svelare ogni intimo segreto, amabile complice di lunghi silenziosi momenti.

“If you ever need to hear a voice in the middle of the night
When it seems so black outside that you can’t remember light
Ever shone on you or the ones you love in this or another lifetime
And the voice you need to hear is the true and the trusted kind
With a soft, familiar rhythm in these swirling, unsure times
When the waves are lapping in and you’re not sure you can swim
Well here’s the lifeline
If you ever need to feel a hand take up your own
When you least expect but want it more than you’ve ever known
Baby here’s that hand and baby here’s my voice calling…
This is love, all it ever was and will be
This is love” (Mary Chapin Carpenter)

Maurizio Faulisi, fonte Country Store n. 33, 1996

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