McGuinn, Clark & Hillman cover album

A più di cinque anni di distanza dall’album cosiddetto Reunion ecco McGuinn, Clark & Hillman, tre quinti degli originali Byrds, nuovamente insieme su vinile. Questo loro album, maturato progressivamente in oltre un anno di contatti costanti e di vita comune, frutto della verifica della identità dei loro obiettivi, era molto atteso.

Tutto era nato come per caso, dall’incontro di Clark con McGuinn ad un suo solitario concerto (avvenuto dopo, ricordiamolo bene, la tournée europea della primavera del 1977 bruscamente interrotta per motivi economici) cui ha fatto poi seguito l’esibizione acustica dei due, il successivo inserimento di Hillman agli inizi dello scorso anno.

Quindi gli spettacoli in giro per il mondo, Europa esclusa, le apparizioni di Crosby (lo abbiamo ricordato in un memorabile concerto alla Boarding House di San Francisco dello scorso febbraio), infine il contratto con una nuova casa discografica, la Capitol, disposta ad operare un loro grande rilancio.

L’attesa non è stata premiata, il lavoro non è all’altezza delle previsioni, c’è troppo odore di commercialità nell’aria. McGuinn, Clark & Hillman si sono completamente dimenticati (spero non liberati) del loro vecchio sound che tanto aveva fatto fremere ed emozionare e che pure si sono portati appresso fin nei loro concerti più recenti. Questo suono di oggi è qualcosa di completamente diverso e nuovo, lontano 1000 miglia da quello cui eravamo abituati.

Certo rimangono le voci, rimangono soprattutto gli impasti corali, ma tutto il resto è mutato.
La mia prima sensazione al suo ascolto è stata di stupore e meraviglia, quasi di incredulità, perché nonostante le notizie di stampa e le lettere degli amici mi avessero parlato di un suono rinnovato che io stesso invocavo, non avrei mai immaginato si sarebbero spinti così lontano.

Il risultato può anche essere accettato, dopo tutto tante volte nella vita si è detto “è arrivato il momento di voltare pagina” e M., C. & H. lo hanno semplicemente fatto. Ma questa svolta avrebbe a mio parere dovuto prendere ben altra direzione.

Comunque se la nuova immagine potrà disorientare molti dei vecchi fans com’è il sottoscritto, è probabile d’altro canto che sappia conquistarsi nuove simpatie e adesioni tra i più giovani, fra coloro che apprezzano gli attuali ritmi, ma desidererebbero da essi qualcosa in più nel senso della classe e della professionalità.

L’errore dei tre è stato quello di affidare la produzione del disco al duo Ron e Howard Albert, che avendo gli occhi troppo puntati sulle classifiche di vendita hanno fatto ricorso alle loro ultime esperienze introducendo arrangiamenti insopportabili.

E sono i pezzi di Clark in particolare che ne soffrono di più. L’inserimento poi di ulteriori voci corali è del tutto inutile. C’è peraltro la sensazione che ci sia ancora troppo individualismo come se i brani fossero presi da singoli, solo album. Le loro voci, davvero fresche e come ringiovanite, costituiscono i momenti migliori. Il sound, ho detto, è nuovo, quindi niente Rickenbacker a 12 corde, né mandolino.

Il batterista è l’ex Thunderyrd Greg Thomas, gli altri musicisti sono session man: George Terry, chitarra acustica, elettrica e piano, Joe Lala percussioni e Paul Harris organo (oltre l’orchestra naturalmente). Chris suona un bel basso, mentre gli altri due la chitarra, forse, in qualche occasione.

Un’occhiata ai brani: apre Long Long Time di Chris e Rick Roberts, con un buon ritmo, un eccellente basso, assolo di chitarra acustica, che ricorda Manassas e Firefall; segue un pezzo di Gene, Little Mama, il meno riuscito della raccolta, che si ispira ai motivi degli anni ’50; Don’t You White Her Off di Roger (scritta in collaborazione con R. J. Hippard, quello di C.T.A. 102, Space Odissey e Time Cube) è stupenda, attacco di chitarre acustiche, ritornello bellissimo, che contiene i tentativi di sopraffazione degli arrangiamenti orchestrali.

Chris canta poi un pezzo di Rick Vito, Surrender To Me, un rock melodico che trovo piuttosto buono, anche se mi dispiace non sia presente l’autore a sbizzarrirsi colla sua chitarra elettrica, non certo inferiore a quella di Terry. Backstage Pass di Gene chiude la prima facciata: è molto bello e si conclude tra scene d’entusiasmo di pubblico (credo aggiunte in studio però) sopra un coro molto orecchiabile e facile.

Il primo brano della seconda facciata è di Chris (e Peter Knobler) Stopping Traffic, tipico del suo repertorio, deciso e rockeggiante, con lunghi interventi di chitarra; molto particolare Feelin Higher di Gene (firmato con un certo T. Messina) con un refrain di facile presa che si chiude con un lungo assolo di pianoforte, aiutato dalle percussioni, su di un ritmo divenuto latino americano.

Ancora Chris con Sad Boy il più duro dei suoi pezzi, molto valido anche se non travolgente; l’unica retrodatata è Release Me Girl di Clark (scritta con T. J. Kaye), del ’75, che sarebbe anche un bel pezzo se non si facessero sentire tanto i condizionamenti orchestrali, a fronte di un ritornello molto delizioso; l’ultimo pezzo è di Roger (che è quello che ha meno spazio dei tre) Bye Bye Girl, ballata d’amore con accenti molto dolci, sicuramente O.K., ahimè un po’ disturbata dai violini.

Questo il quadro di un disco che creerà molte polemiche e discussioni, al quale tuttavia non si può disconoscere un feelin’ moderno e assai ritmato, ma che lascia purtroppo dubbi e interrogativi. Quello che mi tormenta di più si riferisce al ruolo che avrebbe potuto giocare qui David Crosby se fosse stato della partita. Dalle note di copertina, anche se del leggendario nome non si fa giustamente menzione, pare di capire che questo nuovo gruppo si proponga di diventare i Byrds degli anni ’80. David per favore correggili tu!

Capitol 11910 (Country Rock, 1978)

Raffaele Galli, fonte Mucchio Selvaggio n. 17, 1979

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