Michael Nesmith - Live At The Palais cover disco

Da quanto tempo sia uno dei miei pupilli, si perde nella notte della mia memoria. Penso oltre dieci anni, da quando cioè compravo i dischi dei Monkees per ascoltare le due canzoni che gli lasciavano fare… Di solito chi conosce bene un autore, se da un lato è più portato di altri a centrare nel segno parlando di un suo nuovo lavoro, dall’altro può forse peccare di indulgenza nel giudizio di un musicista da tempo suo beniamino. È un rischio minimo però, almeno se si possiede quell’onestà critica che dovrebbe essere il primo dovere verso chi legge. Dopo sei solo-albums, dopo il disco di country progressivo e quello influenzato dalla musica sudamericana, dopo l’antologia inglese, era abbastanza logico aspettarsi il live, come naturale compimento di un processo evolutivo che è rappresentato da una opera ispirata e geniale, non solo vista in se stessa ma anche concepita in proiezione, nei confronti cioè di tutti quei cantautori su cui Michael ha esercitato un’influenza feconda di gusto e di raffinata eleganza.

Ma parliamo dell’album. Sono otto brani, registrati dal vivo al Palais Theatre di Melbourne in Australia, per una durata di oltre cinquantuno minuti. Nelle note, assai interessanti, che corredano la confezione, c’è un po’ la spiegazione per aver tanto atteso ad uscire con un live-album, che Nesmith probabilmente voleva perfetto in ogni particolare, tanto da fargli, ogni volta che si presentava l’occasione buona, accantonare l’idea. Comunque, se non è la perfezione, senz’altro si può dire che ci è andato molto vicino. Il lavoro lo si potrebbe nel complesso definire di country rock latino (così almeno abbiamo coniato un nuovo idioma…), in cui tutta la forza comunicativa ed espressiva del cantautore di Houston, dove è nato il 30-12-1942, sono assecondate dal brillante estro del suo gruppo, i cui elementi più famosi (John Ware alla batteria e Al Perkins alla solista) spiccano per la puntuale, conosciuta professionalità, mentre intelligenti e precisi si rivelano gli interventi di James Trumbo (davvero eccellente) alle tastiere e di David MacKay al basso.

Quanto a Mike la sua continua, coerente crescita come musicista è testimoniata dall’essenziale cambiamento delle songs più famose, riproposte in una veste che quasi cancella la pur vivida, eterna bellezza degli originali. Joanne è una cosa struggente e possiede un fascino così limpido da ricondurci ad istanti di una incorporea ma avvertibile purezza; Silver Moon, liquida e pianistica, è pure ricca di candore e poesia, e si snoda sinuosa in un crescendo carico di una tensione emotiva da lasciare attoniti; Some Of Shelley Blues, delicata e surreale, è ancora la ballad lirica e impalpabile di sempre, densa di una commozione indicibile e di una carica umana vibrante, quasi ai confini della partecipazione di cui il nostro essere, la nostra anima, sono capaci.

Momenti di vera, consistente dolcezza sono invece Propinquity, velata di suggestivo romanticismo che si stempera in un autentico inno alla gioia e alla serenità, e Me And My Calico Girl Friend, completamente rifatta e riarrangiata rispetto all’originale, comparso sul primo disco della First National Band in un’esecuzione decisamente più veloce, veramente smagliante per la calda, ricca tonalità d’impasto sonoro che vi è profuso. Grand Ennui?. Beh, se i Cream avessero fatto un country rock, lo avrebbero forse fatto così. Ha una batteria e un piano elettrico che rendono la song hard e latina al tempo stesso, mentre l’arrangiamento risente un po’ della moda del momento, specie per l’uso della sezione ritmica. La versione di studio era più statica, qui c’è un feeling che riesce a sprigionarsi misurato ma corposo e lucido.

Per finire i due inediti: the current single. Roll With The Flow, una canzone tipica del Nesmith più rockistico, ma sempre radicata nell’anima e nel gusto di sapore melodico che più gli è congeniale; e Nadine Is It You, ricca di spunti legati al rock’n’roll duro, con una apertura iniziale chiaramente progressiva, sicuramente il momento più solido e viscerale del disco, sottolineato da un pianoforte deliziosamente swing. Mike Nesmith costituisce indubbiamente l’immagine più innocente e candida della country music americana, un artista tanto taciuto quanto coerente e sincero, di una grandezza che va al di là dello stesso simbolo che rappresenta: a venir soggiogato dalla bellezza, dall’arte, dal talento, non credo di essere il solo, chi vive la musica come una parte vitale della propria esistenza non ne può restare immune.

Pacific Arts PAC 7-118 (Country Rock, 1978)

Pietro Noè, fonte Mucchio Selvaggio n. 12, 1978

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