Ci sarà un motivo se la vita e la manciata di musica che ha lasciato Robert Johnson appaiono infinite, un pozzo senza fondo, un vaso di Pandora che da anni alimenta ricerche e ossessioni. Una versione definitiva e insindacabile dei fatti non ci sarà mai perché Robert Johnson si è trasformato in un mito e come tale collega universi e tempi molto distanti tra loro, con prospettive che tendono a moltiplicare i punti di vista. Ci saranno sempre margini di indagini suppletive sul suo rapporto con Son House, sui cani dell’inferno e altre creature mostruose, sulle ombre che parlavano e sulle strade buie che lo aspettavano perché in fondo a tutte le ricostruzioni di Robert Johnson è rimasto, come avrebbe detto Nietzsche, un «garbuglio di materia e fantasma». Va da sé che non poteva averlo conosciuto, ma trattandosi di un mito, il grande filosofo non sbagliava.
Qui si comincia a capire, se si segue la necessità, tutta umana e molto americana, di costruire dei simboli in cui riconoscersi, anche in condizioni estreme come quelle in cui ha vissuto Robert Johnson (quelle reali, non quelle mitologiche). La fame di figure leggendarie per dare un volto a una nazione sfuggente per natura ha generato leggende di ogni forma, ma i miti non sempre corrispondono ai desideri. È un importante dettaglio preliminare che serve a distinguere l’ambizione dalla realtà, come scriveva Jean Baudrillard in America, «proprio perché l’idolo non è che un pura immagine contagiosa, un ideale violentemente realizzato. Si dice: fanno sognare, ma c’è differenza tra il sognare e l’essere affascinati da determinate immagini».
Questo è il punto. Il mito di Robert Johnson si compone in effetti di due forme fluttuanti e altrettanto enigmatiche, il blues e l’America. Come epicentro (arbitrario, simbolico) del blues Robert Johnson contiene moltitudini di volti e spiriti da lasciare aperta ogni altra strada dopo tutte quelle che sono già state battute. La forma del blues è il veicolo ideale: abbastanza solida da attraversare i secoli indenne nella sostanza e altrettanto malleabile da fomentare le metamorfosi musicali del jazz e, come è noto, del rock’n’roll. Ci sono anche componenti più specifiche e profonde. Paul Williams notava che «il blues è una forma d’arte nata non perché i neri fossero più malinconici dei bianchi, ma perché erano più onesti con se stessi al riguardo». Nel dettaglio, poi, Greil Marcus in Mystery Train (Editori Riuniti) era ancora più scrupoloso: «Il blues rese più facile da sopportare il terrore del mondo, ma il blues rese anche più reale questo terrore. Per un uomo come Robert Johnson le promesse della chiesa si erano dileguate; potevano essere ricordate quando si cantavano canzoni da chiesa; magari anche quando uno pregava, quando eri troppo spaventato per non farlo, ma quelle promesse non si potevano vivere. Una volta passato quel confine non segnato da nessuna parte non potevi tornare indietro. Il peso del blues di Robert Johnson era pesante abbastanza da farsi beffa della salvezza; il meglio che poteva era piangere per quella meravigliosa menzogna».
L’America è l’altra componente determinante perché, come scriveva il critico Leslie Fiedler in Cross The Border, Close To The Gap, «essere americano (a differenza dell’essere inglese, francese o di qualunque altra nazionalità) è esattamente sapere immaginare un destino invece che ereditarlo; poiché siamo sempre stati, da quando siamo americani, co-abitanti del mito piuttosto che della storia». Questa precisissima constatazione contiene anche tutti gli elementi che compongono l’ideologia del ‘destino manifesto’ e dell’esportazione della libertà e della democrazia degli Stati Uniti d’America contando, nel complesso, anche le sue (non poche) aberrazioni. Se si colloca Robert Johnson all’interno di questo sistema mitologico si capisce perché, evidentemente, ogni ricerca ne genera un’altra. Anche le ipotesi o le allusioni contribuiscono a procrastinare all’infinito l’identificazione definitiva di Robert Johnson. Robert Palmer nel fondamentale Deep Blues (Shake) scriveva che «Robert (Johnson) era sempre curioso di tutti i generi di musica e alla fine, se fosse arrivato fino agli anni quaranta, probabilmente avrebbe creato un blues moderno e influenzato dal jazz».
È evidente che le supposizioni lasciano margini enormi per interpretare le cronache e i dati storici confermati, ma è interessante notare come la forza del mito spinga ad alzare la soglia delle analisi. Sulle possibili evoluzioni artistiche di Robert Johnson le congetture coincidono, a partire proprio da Robert Palmer che scriveva: «Gli esperti di blues hanno reperito numerose voci secondo le quali, negli ultimi mesi di vita, Robert Johnson suonava la chitarra elettrica e ogni tanto capitanava un piccolo gruppo con un batterista. Se fosse vissuto fino alla serata alla Carnegie Hall all’interno di un programma che prevedeva la prima apparizione dal vivo della formazione di Count Basie, oltre ai pianisti boogie-woogie, sarebbe stato senza dubbio spinto a compattare i suoi già impliciti ritmi boogie-woogie e a esibirsi e registrare con una band accanto». Robert Palmer si riferisce alle serate natalizie From Spirituals To Swing del 1938 e 1939 organizzate da John Hammond, che aveva provato a invitare Robert Johnson, ma il suo invito non era mai giunto a destinazione in tempo utile, per cui l’estrapolazione di Robert Palmer, per quanto curiosa e interessante sul piano ipotetico, si regge su indizi molto fragili.
Poi è un dato di fatto che le ‘voci’ sono (quasi) sempre vere e, a riprova che le ricostruzioni si susseguono e si fanno via via più dettagliate, Tom Graves riporta a sua volta una dichiarazione di John Hammond che diceva: «Robert Johnson doveva essere la grande sorpresa della serata. Lo conoscevo solo dai suoi dischi blues e dalle storie esagerate, entusiasmanti che raccontano di lui i tecnici del suono e i responsabili degli studi improvvisati di Dallas e San Antonio». Come si può vedere ogni conferma è nei fatti anche una smentita, le voci si intersecano e spalancano altre congetture. Tom Graves, che è l’autore di un’agile e denso riassunto dei fatti, scrive nella prefazione di Robert Johnson. Crossroads, Il Blues, Il Mito (Shake): «Quella di Robert Johnson resta una delle figure più misteriose e sfuggenti a cui sia mai stata dedicata una biografia. Separare i fatti dalle invenzioni, la leggenda dalla verità, la precisione dall’esagerazione equivale a una condanna di Sisifo, un compito senza fine. Non appena un fatto sembra essere verificato, esso viene smentito da altri dati, altre ricerche». Il riferimento mitologico (non soltanto nel titolo) ricorre in continuazione perché come scrive il filosofo Hans Blumenberg in Elaborazione Del Mito, «i miti sono storie con un alto grado di stabilità nel loro nucleo narrativo, e con una variabilità marginale altrettanto marcata».
Tradotto vuol dire che hanno un’identità ben precisa e focalizzata, ma sono in grado di adeguarsi a tutte le mutazioni per tramandarsi nel tempo e dello spazio, e allora ci saranno sempre tracce da cercare lungo il Mississippi e nel Delta, dove è stato segnalato a Clarksdale, Rosedale, Friars Point, Lula, Coahoma, Midnight, Inverness, Moorhead, Tchula, Drew, Jonestown, Yazoo City, Hollandale, Greenville, Leland, Shaw, Gunnison, Beulah, Lobdell, Lamont, Winterville, e così a Marianna, Hughes, Brickeys, Marvell. Presto o tardi scopriremo se c’erano davvero Sonny Boy Williamson e Honeyboy Edwards quel giorno fatidico a Three Forks Store, a Quito, Mississippi. Ci sarà sempre da discutere se How Long Blues di Leroy Carr sia stata la prima canzone che ha suonato, ci sarà comunque un piccolo dettaglio lasciato in uno sperduto juke-joint. Le scoperte continueranno seguendo i nomi dei musicisti che ha visto, con cui ha suonato o che ha ascoltato sul fonografo: Sonny Boy Williamson, Robert Nighthawk, Elmore James, John Hammond, Honeyboy Edwards, Howlin’ Wolf, Hacksaw Harney, Calvin Frazier, Peter Memphis Slim Chatman, Johnny Shines, Scrappel Blackwell, Skip James, Kokomo Arnold, Lonnie Johnson, ognuno di loro importante a suo modo, perché come scrive ancora Blumenberg: «Le storie vengono raccontate per scacciare qualcosa. Nel caso più innocuo, che però non è il meno importante, il tempo. In un altro caso, più serio, la paura».
Questa distinzione si applica alla perfezione alle vicende di Robert Johnson inseguito dai suoi fantasmi perché il blues resta è un brivido profondo, un brivido che ti scuote. In fondo, l’ammissione di Peter Guralnick di essere ancora «in cerca di Robert Johnson» è ancora la più onesta e, forse, la più aderente alla realtà quando scrive che «la musica ha un significato. Per Johnson l’atto della creazione era un modo per affermare se stesso in un mondo che gli appariva senza scopo e in cui mancava quel senso di coesione, per quanto artificiale esso sia, che l’era della comunicazione sofisticata ha creato. Un mondo nel quale Robert Johnson seppe improvvisamente elevarsi grazie a un atto di volontà creativa che era sintesi di tutto quello che si portava dentro e di tutto quello che sarebbe diventato». La dimensione del mito non ha limiti, e ne verranno altri in rapida sequenza dopo Robert Johnson, ovvero Hank Williams e (ancora di più) Elvis perché come diceva ancora Hans Blumenberg «il mito permette all’uomo di vivere in quanto depotenzia il potere superiore; per la felicità dell’uomo non ha immagini. Se ci sono forme di esistenza più rischiose di quella rustica, è a causa dell’aspirazione ad una vita migliore, oltre la semplice assicurazione della sopravvivenza». Qui la definizione di mito aderisce alla perfezione alla figura di Robert Johnson, ma ha anche una valenza complessiva più generale e universale, così come l’ha riconosciuta Sam Shepard dato che «il mito è un mezzo potente perché parla alle emozioni e non alla testa. Ci spinge in una zona di mistero. Alcuni miti sono pericolosi da seguire mentre altri possono cambiare qualcosa dentro di noi, anche solo per un minuto o due». Per Robert Johnson, la verità è che, come per tutti i miti di questo e di altri mondi, il mistero non si può risolvere. Si può solo rendere più interessante.
Marco Denti, fonte Il Blues n. 151, 2020