Muddy-Waters-Muddy-Mississippi-Waters-Live cover album

L’arte della canzone ha sempre qualcosa di irrisolto, di leggendario. A maggior ragione trattandosi di Muddy Waters, quando, nell’ultimo frangente della sua carriera e della sua vita (i due aspetti coincidevano), condivise il suo bagaglio con un bel po’ di ragazzi, giovani, bianchi e chitarristi, che rispondevano al nome di Bob Margolin, Eric Clapton e Johnny Winter. In un modo o nell’altro, poi, con l’aggiunta di Paul Butterfield e di una bella parte della Band (Garth Hudson e Levon Helm) le canzoni di Muddy Waters trovarono una direzione, verso il futuro, e cominciarono a intravedere spazi inesplorati.

Muddy Mississippi Waters Live è una testimonianza eclatante, in quel senso, e non soltanto per la sua fragorosa natura, davvero imponente, anche a distanza di anni, compresso nei limiti dell’oggetto discografico. Ritornare a Muddy Mississippi Waters Live è un  passo importante perché contiene una moltitudine di segnali, a partire proprio da quel sound pauroso, elettrico, furioso. Un’onda brutale che ha cambiato tutto e che secondo Sherwood Anderson, uno dei progenitori della letteratura americana, ha origini ben chiare. In Canti Del Mid-America (Corrimano Edizioni), pur con un abbondante anticipo sui tempi, Sherwood Anderson sembra tracciare una particolare visione di Muddy Waters nell’ultimo segmento della sua storia, quando si prodigò per trasmettere l’evoluzione del suo blues: «Sopra la mia città, Chicago, un cantore si leva per cantare. Saluto te, rauco e terrificante cantore, mezzo uomo mezzo uccello, forte, alato. Ti vedo librarti in cupi venti freddi, le tue ali bruciate da fiamme di fornaci, in tutte le tue grida c’è così poco di bello, solo il fatto che sei emerso dal frastuono e dal rombo per librarti e aspettare e indicare la vita per il canto». Bisogna intendersi sull’idea di bellezza: di sicuro c’è una bellezza che proviene dalla lotta, dal conflitto, dalle dure realtà metropolitane che Sherwood Anderson riassume: «Conosci la mia città, Chicago trionfante, fabbriche e mercati e il rombo delle macchine, orribile, terribile, orrendo e brutale».

Inevitabile una risposta sonora allo stesso livello e Muddy Mississippi Waters Live è una celebrazione che porta il volume delle canzoni a quella tensione urbana che poi diventerà uno standard, fin troppo abusato. Per quanto assemblato in modo scoordinato (anche nella bella e più recente ristampa digitale), perché c’è un bel miscuglio di performance e musicisti assortiti, Muddy Mississippi Waters Live condensa le storie del blues che lo attraversano in una ragnatela fittissima in cui è facile rimanere impigliati per sempre. E’ blues, ma è molto più che blues, come ricordava Robert Gordon. Intanto è Muddy Waters perché la prima canzone, Mannish Boy, è un abbraccio insistito che avvinghia e non molla più: se di ‘signature song’ bisogna parlare, come dice Bob Margolin nelle note della ristampa, una è proprio questa ed è curioso, perché si sa che è basata su I’m A Man di Bo Diddley, ma la proprietà privata e il blues non sono mai andati d’accordo. C’è sempre una forma di condivisione e di trasmissione e questa in particolare è una versione monolitica, un omaggio allo stesso riff reiterato all’infinito. Ogni canzone è un passo in un altro territorio e Nine Below Zero basta a capire perché un gruppo possa prendere il nome da una canzone (tra l’altro, scritta da Sonny Boy Williamson II°) e sappiamo tutti che non è un caso isolato, visto che un’altra rock’n’roll band (indovinate quale) ha pescato a ripetizione nel repertorio di Muddy Waters (per il nome e per molto altro).

Quando arriva Howling Wolf, l’applauso con cui è accolta è rimasto un segno indelebile di un tributo a un altro grande pilastro del blues, la cui associazione con Muddy Waters è spontanea, almeno quanto quella con Willie Dixon. Hoochie Coochie Man è il primo degli omaggi a Willie Dixon, l’altro è Mad Love (I Want You To Love Me) e riporta a una commedia ormai dimenticata del 1983, Get Crazy, (in italiano era stato tradotto con Flippaut, ma noi siamo un paese di geni) di Allan Arkush. La trama si sviluppava attorno alle vicende di un concerto di Capodanno con tutti gli annessi e i connessi e un paio di piccoli, interessanti particolari. Lo show, ambientato al Fillmore East, viene inaugurato da un certo King Of The Blues ispirato alla figura di Muddy Waters (e il nome ci sta tutto) e interpretato da Bill Henderson, nella realtà un raffinato cantante jazz.

Il re del blues suona in effetti una canzone di Muddy Waters, The Blues Had A Baby And They Named It Rock And Roll (che è la verità, ed è anche uno dei primi frutti della collaborazione con Johnny Winter in Hard Again) e poi Hoochie Coochie Man. Il punto è che, da lì in poi, Hoochie Coochie Man è suonata a ripetizione, senza soluzione di continuità e fino alla fine, in una mezza dozzina di versione diverse, dando vita a un concerto sgangherato, caotico e molto, molto divertente. Si ha la stessa sensazione riascoltando Hoochie Coochie Man nelle versioni dal vivo di Muddy Waters, soltanto che l’impianto è decisamente più solido, monolitico. Qui bisogna dare ragione a Keith Richards quando sosteneva che non esiste ripetitività o monotonia nelle canzoni che ruotano sempre attorno allo stesso riff (nel caso di Muddy Waters spesso un solo accordo, a volte nemmeno quello) perché quando finiscono, vorresti solo che ricominciassero (bisogna farci l’abitudine). Intanto che siamo al Fillmore East, viene naturale ricordare Trouble No More che ci riconduce ancora agli Allman Brothers (come è ovvio) capaci, più di molti altri, di interpretare le grandi potenzialità delle canzoni di Muddy Waters.

Trouble No More sarà infatti uno dei pilastri dell’esordio dell’Allman Brothers Band che, come scriveva Scott Freeman, virava «verso territori più marcatamente bluesistici per una bruciante versione di Trouble No More, che segnava l’esordio ufficiale su disco della slide guitar di Duane (Allman); ancora una volta le chitarre creano un riff assolutamente caratteristico, quindi arriva Gregg (Allman) con un cantato ringhiante e Duane suona delle brevi contro melodie nelle pause tra una frase e l’altra. Trouble No More è il primo esempio di come gli Allman Brothers fossero in grado di alterare significativamente un arrangiamento blues tradizionale rimanendo all’interno della struttura della canzone e al tempo stesso espandendola». L’arte della canzone prevede proprio quello: prima la trasmissione del sapere, poi la sua evoluzione, ovunque vadano a finire le idee di partenza. Verrebbe da dire lo stesso della Baby Please Don’t Go e poi, ancora a proposito di ‘signature song’, delle innumerevoli versioni di Got My Mojo Working per arrivare poi a quelli che nel repertorio di Muddy Waters hanno pescato a piene mani ovvero gli Stones che, tra tutte le sue canzoni, si porteranno Champagne And Reefer fino al lussurioso Shine A Light, il film di Martin Scorsese.

L’altro amico inglese, Eric Clapton che venne salvato, ovvero riportato allo spirito del blues (per non dire adottato), da Muddy Waters lo stesso anno della pubblicazione di Muddy Mississippi Waters Live disse: «Credo che negli ultimi anni di vita, quando suonava in giro, abbia dovuto attingere a fondo alla sua generosità di spirito per accettare certe situazioni. Era ancora grande e generosissimo con tutti». In effetti, e almeno dal vivo, Muddy Mississippi Waters Live è una specie di eredità indiscutibile a cui hanno attinto in molti. Robert Gordon l’ha definito «un trionfale testamento di una meravigliosa carriera» e non c’è un’altra definizione per dirlo meglio. Basta guardare le singole carriere che si sono dipanate proprio attraverso quel disco: James Cotton, Pinetop Perkins, Bob Margolin, Jerry Portnoy e lo stesso Johnny Winter. Il Muddy Mississippi Waters Live corona proprio la collaborazione con Johnny Winter, visto che arriva proprio tra I’m Ready e il lascito finale, in studio, di King Bee.

Se Johnny Winter è il ‘medicine man’ artefice del rigoglioso crepuscolo di Muddy Waters, l’incontro con «il bluesman per eccellenza» come scriveva Robert Palmer è avvenuto anche grazie alla sua scelta di condividere le canzoni senza distinzione di età, di censo o di razza. Lo diceva proprio a Robert Palmer: «Ti dico la verità quello che sto vivendo adesso è il miglior traguardo della mia vita». Era già stato al festival di Newport ed era stato portato da Joe Boyd in Europa che nel suo memori (Le biciclette bianche, Odoya, imperdibile) lo descrive così: «Un uomo di grande compostezza e dignità. Era imponente e vestito con eleganza, sempre con un cappello a tesa floscia, una cravattina grigia e una camicia bianca pulita». Non di meno, faceva ballare la gente tutta la notte quando con la sua slide «evocava gli spiriti di Robert Johnson e Charlie Patton».

L’incontro con i ragazzi bianchi troverà una sua definizione a Woodstock, nel 1975: un particolarissimo, per quanto non sorprendente, convivio, quando i boschi di Woodstock erano ancora il centro del mondo. La generosità di Muddy Waters e la sua disponibilità nei confronti degli ascoltatori e dei musicisti più giovani si era già concretizzata più volte, ma in quel momento delicato della sua carriera, alla fine della storia della Chess, l’ultimo disco con il glorioso marchio fu proprio il Muddy Waters Woodstock Album. A Woodstock, Muddy Waters incrociò Paul Butterfield, i ragazzi della Band con una parte del suo gruppo, Bob Margolin e Pinetop Perkins in testa e la presenza in Muddy Mississippi Waters Live di Kansas City, che proviene proprio dal Woodstock Album, è lì a ricordare come l’esperienza sia anche prodiga di elementi adatti alla simbiosi tra musicisti diversi e distanti per status, età, idee e cultura, eppure del tutto a loro agio una volta avvicinati dall’arte della canzone, perché come direbbe Sherwood Anderson «stiamo cercando di aprirci un varco. Sono un canto io stesso, l’estremità di un canto spezzato io stesso».

Blue Sky Legacy 86559-S1 (Blues, Chicago Blues, 2003)

Marco Denti, fonte Il Blues n. 131, 2015

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