Divenuta con No Boundaries una sorta di ambasciatrice della fiddle music di Cape Breton, dopo la parentesi acustica e traditionally oriented di My Roots Are Showing, Natalie MacMaster è tornata a spingere sull’acceleratore della sperimentazione, ed ha incocciato nell’ostracismo dell’establishment folk. No, nessuno ha bocciato In My Hands senza appello, ma da Folk Roots a The Living Tradition tutti i periodici di settore, che sino a ieri l’altro l’avevano esaltata, si sono allineati sulla posizione di un consenso parziale e critico.
Anche ammettendo che dietro tutto questo ci sia, più o meno conscia, l’invidia per chi ha cercato il successo presso un pubblico più vasto e lo ha trovato, le perplessità dei vari recensori non sono del tutto peregrine: magari la sezione di ottoni sfoderata in Flamenco Fling non è nemmeno stucchevole, ma gli eccessi di Space Ceilidh senza dubbio lo sono.
Esiste un limite oltre il quale giocare con la contaminazione risulta un esercizio fine a sé stesso, e la valenza ludica si perde nel puro e semplice ridicolo. E allora, senza farla lunga, vale la considerazione dei recensori britannici e statunitensi che questo disco lo hanno comunque consigliato per ciò che di buono propone – diciamo un sessanta per cento abbondante, tra cui gli arrangiamenti d’archi in armonia, o le partecipazioni di Sharon Shannon o della vocalist Alison Krauss – con l’avvertenza che ci sono momenti deteriori da cui prendere le distanze, e non ultimi quelli in cui Natalie si azzarda a provare a cantare.
D’altra parte: se uno pensa che l’ultimo disco di Hevia ha venduto centinaia di migliaia di copie, in fondo le cadute di gusto di Natalie MacMaster possiamo derubricarle ad intemperanze giovanili, e chiederci perché In My Hands di copie non ne abbia vendute milioni.
Greentrax TRAX 180 (Folk, 1999)
Gianni Cunich, fonte Out Of Time n. 35, 2000
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