Neil Young

Un interessante percorso sulle tracce del ‘loner’ canadese, fresco autore di Harvest Moon, che riscopre le sue origini musicali.

Journey Through The Past
Chi viaggia da solo, va veloce il doppio, consiglia un vecchio detto americano. E Neil il Giovane, canadese un poco matto e molto errabondo, loner per eccellenza, ha attraversato in perfetta solitudine (anche quando a lui si univano per un tratto di cammino Richie Furay e i Buffalo Springfield, David Crosby e i Crazy Horse, Stephen Stills e Graham Nash) la lunga strada di due decenni e mezzo.
Ogni tanto, in qualche stazione di servizio, si fermava qualche ora per scrivere una cartolina agli amici, per far sapere che era ancora vivo. Ma quando la cartolina arrivava, lui era già in altri luoghi, i vecchi amici lo credevano innamorato di un posto e lui annusava già l’aria di un altro. E senza mai pensare, neppure un attimo, di mettere radici.

E’ stato così in tutti questi anni; a chi gli rimproverava di cercare la luce della musica come una falena impazzita attorno alla lampada, Neil il Giovane rispondeva che era meglio bruciare che arrugginire o dissolversi nel nulla. La sua carriera – meglio dire la sua avventura, il suo pellegrinaggio verso il Sacro Graal della vera musica – è stata sì caratterizzata dalla voglia di incidere un disco dopo l’altro, ma spesso anche dalla voglia di rifilare un pugno nello stomaco a chi aveva amato il disco precedente.

E’ una schizofrenia (ben giustificata dall’autore con la necessità di confrontarsi con sempre nuove cose per evitare la fossilizzazione, con l’impellente bisogno di seguire l’ispirazione del momento e non le indicazioni della storia) già evidente negli anni Settanta – quando, dopo le operazioni a cuore aperto di After The Goldrush e Harvest erano venute le cure termali di Journey Through The Past e Time Fades Away e all’ottimismo surreale di On The Beach era seguito il cupo e amaro Tonight’s The Night – ma clamorosamente manifesta negli anni Ottanta: Re.Ac.Tor flirtava con il rock duro; Trans giocava con la musica computeristica ed elettronica, nonché col vocoder, strumento che filtrava la voce con effetti robotici; Everybody’s Rockin’ raggrumava venticinque minuti di divertissement rockabilly; Old Ways decretava il ritorno a un country nashvilliano un po’ troppo melenso; Landing On The Water il ritorno al rock più duro; in This Note’s For You Neil il Giovane si confrontava per la prima volta con il soul, il rhythm and blues e con una sezione fiati; in Freedom mescolava rock urbano con splendide ballate nella tradizione più intimista.

E ora, quando il sole comincia ad alzarsi nel mattino degli anni Novanta, ecco arrivare Harvest Moon, presentato un po’ da tutti come il seguito di quell’album tanto celebrato, una sorta di ‘Harvest 2 – la Vendetta’ (di tutti coloro che hanno continuato a seguire l’artista nella speranza di ritrovare, prima o poi, le melodie di un tempo).
Dunque, dovremmo essere portati a pensare che Neil il Giovane abbia preferito festeggiare, con una anno di ritardo sulle due ricorrenze, il ventennale di Harvest piuttosto che le nozze d’argento con la musica (era il ’66 quando cominciò a dar vita alla breve favola dei Buffalo Springfield).

A dire il vero, però, a guardare a distanza ravvicinata le dieci canzoni del nuovo album (bellissimo, è il caso di dirlo subito per non incorrere in equivoci), si scopre che ci sono grandi rimandi al passato – splendide ballate, da quelle atipiche come Such A Woman che ricorda a tratti You Are So Beautiful scritta da Billy Preston e immortalata da Joe Cocker, a quelle che diffondono nell’aria i profumi d’antan dei Buffalo Springfield. Ma di country tradizionale non c’è molto, e nemmeno del country del primo Harvest.

Che cosa significa questo (parte prima)? Innanzitutto che sotto quella luna ricordata nel titolo e solo immaginata nella copertina, sono passati vent’anni. Nulla è più come prima, forse l’unica cosa rimasta immutata è la giacca a frange di Neil. Curioso anche questo: ha cambiato marce e velocità, macchine e gomme con il piglio di un collaudatore; ha viaggiato per lande sconosciute solo per meglio conoscere la musica e se stesso, e non ha mai smesso di indossare quella giacca woodstockiana, da figlio dei fiori, da sogno hippie, un po’ patetica, dunque bellissima. Forse l’artista ha provato a confrontarsi con il passato e si è reso conto che non saprebbe più (e non avrebbe più senso) comporre canzoni come un tempo. Perché il tempo, a dispetto della giacca, lo ha cambiato. Neil il Vecchio.

Ma ci sembra, questa, l’interpretazione più fallace, l’ipotesi meno probabile. In realtà, Harvest Moon è scritto come un disco del passato, potrebbe perfino essere un disco del passato, perfino del passato di Neil. Solo che non è Harvest. Semmai, è After The Goldrush.

Che cosa significa questo (parte seconda – la vendetta)? Che dopo aver terminato di comporre, ha scelto per suonare una giusta manciata di ospiti country del tempo che fu – Linda Ronstadt, James Taylor e Nicolette Larson, guarda caso gli ospiti di Harvest – e un buon manipolo di musicisti – gli Stray Gators, Ben Keith, Kenny Buttrey, Tim Drummond e Spooner Oldham: toh, quando si dice la combinazione! Tre di loro c’erano già su Harvest. Poi ha dato un’occhiata al calendario e, notato che erano passati due decenni da quel capolavoro, ne ha inventato un seguito, con tanto di legittimazione nel titolo. Così, tutto il mondo, noi compresi, parlerà del nuovo disco come seguito del vecchio, anche se non lo è. Chissà che risate si starà facendo, il grande canadese.

Time Fades Away
Ma Harvest Moon, oltre che per la sua bellezza cristallina, è da segnalare perché è il primo disco in cui Neil il Giovane mette a punto dei testi in cui parla esplicitamente della sua carriera, del suo cammino senza bussola nelle terre del rock, della sua voglia di abbandonare a volte la strada principale per vedere dove porta quel sentiero. Leggiamo i versi belli di From Hank To Hendrix:

Da Hank a Hendrix
Ho camminato queste strade con te
E sono ancora qui con questa vecchia chitarra
A fare il mio mestiere

Mi sono sempre illuso
Che tu vedessi dentro di me
Non ho mai creduto in molte cose
Ma ho creduto in te

Possiamo proseguire insieme il cammino?
Possiamo camminare fianco a fianco?
Possiamo trasformare tutto questo
in un’ultima scorribanda musicale?

Ecco, è possibile, è probabile che la canzone sia dedicata a una donna. A me piace pensare che sia dedicata al rock stesso, lungo le cui strade Neil ha camminato da Hank Williams a Jimi Hendrix per restare sempre il Giovane. E poi c’è One Of These Days, dove si narra il proposito dell’artista di sedersi a un tavolo e scrivere una lunga lettera agli amici di un tempo, una di quelle cartoline delle stazioni di servizio cui si faceva riferimento in precedenza.

Uno di questi giorni
Mi siederò al tavolo per scrivere una lunga lettera
A tutti i buoni amici
Che ho incontrato
E ho intenzione di ringraziarli
Per i buoni momenti passati insieme
Anche se abbiamo preso strade così diverse
Ringrazierò tutti
Da quel vecchio violinista country
A quei ragazzacci del rock and roll
Io non ho mai cercato
Di rompere con il mio passato
Anche se qualcosa di bello è andato smarrito
Lungo la strada
Da Los Angeles
A Nashville
A New York City.

E’ inevitabile che qualcosa sia andato davvero perduto, in questi 25 anni passati a rincorrere e rincorrersi, per dirla alla Cohen a “indossare nuovi vestiti per vecchie cerimonie”. Di certo, come King, il vecchio cane al quale Young dedica Old King, Neil il Giovane “non ha mai avuto paura di lanciarsi giù dal camion in alta velocità. Annusava qualcosa e si lanciava alla sua ricerca”. E di certo, sempre come il suo vecchio cane, “lui è stato il miglior segugio che abbiamo mai sconosciuto”.

Massimo Cotto, fonte Hi, Folks! n. 56, 1992

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