Ed eccoli giunti al quarto disco Sugar Hill, dopo la parentesi iniziale tutta in mano alla meno importante (?) Rebel. Sono anni che questa band si posiziona in alto nelle classifiche, quelle di vendita in particolare, quelle di preferenza da parte di critica e pubblico in generale.
Si è parlato e si continua a parlare tanto di questo gruppo, ogni volta che ne danno occasione, e di occasioni gli infaticabili ne danno tante: dischi individuali e di gruppo, partecipazioni, produzioni, concerti…
In quanto ad awards, il gruppo si è portato a casa tutto ciò che è possibile. Bowman, Smith, Shelor e Rigsby hanno girato buona parte di mondo dimostrando di essere sempre a dir poco esplosivi: mai sentito qualcosa di negativo circa le loro esibizioni da parte di amici; io stesso, che li ho ascoltati dieci anni fa con la vecchia formazione (Dan Tyminski e Tim Austin al posto degli attuali Smith e Rigsby), li ricordo strepitosi.
I singoli componenti si sono pure presi soddisfazioni personali, producendo dischi a loro nome, tra l’altro di ottima qualità, e collaborando a registrazioni altrui. La loro tecnica strumentale è sbalorditiva e cantano come angeli. Non sono ricchi (e come lo si può diventare facendo bluegrass?) ma si presume stiano bene. Insomma, hanno raggiunto un livello tale, sotto ogni aspetto, che è difficile immaginare ce ne sia uno più alto.
Come se tutto ciò non bastasse, ai cinque (si è aggiunto al fiddle Rickie Simpkins), che dal punto di vista anagrafìco non sono più giovincelli da un pezzo, viene riconosciuto perennemente lo status di ‘giovane band’, grazie al loro approccio moderno alla musica che eseguono. Eppure, a mio modesto avviso, qualche cosa gliela si può contestare… Quanto tempo ancora potranno andare avanti incidendo dischi concepiti esclusivamente per gli appassionati del genere? Dischi che, per quanto ben suonati e cantati, nella maggior parte delle loro canzoni, propongono poco altro rispetto alle tematiche care alla tradizione bluegrass.
Il rischio è che diventino un gruppo alla Quicksilver, buono, anzi ancora ottimo, ma fermo ad innaffiare il proprio giardino guardandosi bene dal non oltrepassare la recinzione.
Le statistiche, come ho già avuto modo di riportare su queste pagine, dicono che in USA l’unico genere musicale in continua ascesa di popolarità sia il bluegrass.
Mi piacerebbe scoprire se questa ricerca di mercato si riferisce soltanto alla musica così come la concepì Bill Monroe, oppure sono stati considerati anche i dischi di artisti ‘on the edge’, cioè sul confine con altro, magari spesso più dall’altra parte che di qui, artisti come Jerry Douglas, Laurie Lewis, Sam Bush, Claire Lynch, Tim O’Brien, Valerie Smith, Alison Brown, Alison Krauss, Bela Fleck, Chesapeake, ecc., perché credo che, nonostante le critiche dei più tradizionalisti indirizzate ad alcuni di questi, lette sulle pagine delle riviste americane, siano costoro che hanno portato il ‘vecchio’ suono bluegrass, reso attuale nella forma e nei contenuti, all’attenzione di un pubblico nuovo, che vive lontano mille miglia dal Kentucky (o addirittura dall’altra parte del pianeta) e in una società la cui cultura ha poco in comune con quella del Sud Est statunitense.
Bill Monroe, è bene ricordarlo, fu rivoluzionario nel modificare i suoni tradizionali, non meno dei Sex Pistols quando caddero dal cielo spazzando via il rock stantio del loro periodo (solo che Monroe & Soci sapevano suonare) o di Elvis Presley che fece la stessa cosa col pop a metà degli anni ’50.
Affinchè si possa capire l’apertura mentale dell’artista, desidero ricordare che Bill Monroe si complimentò personalmente con Elvis per la sua versione rockabilly di Blue Moon Of Kentucky, (qualche tempo dopo quella di Elvis, Monroe tornò a inciderla in 4/4 lasciando la sola introduzione col vecchio 3/4) e quaranta anni dopo, nonostante la sua avanzatissima età, salì sul palco con i duri Kentucky Headhunters per eseguire insieme a loro l’ennesima versione dello stesso pezzo, resa ancora più ‘cattiva’ da questi redneck country rockers.
Ma se dal punto di vista strumentale Monroe era un musicista sensibile alla sperimentazione, anche per quanto riguarda i testi ha dimostrato di essere al passo coi tempi. Le sue canzoni, esclusi gli inni e i brani tradizionali, raccontavano del dramma della gente del Sud costretta ad emigrare in cerca di lavoro verso le grandi città del Nord – cosa provata da egli stesso in prima persona – attraverso testi che richiamavano alla memoria le immagini della propria terra e delle famiglie spezzate. Non erano canzoni di protesta, contenevano piuttosto messaggi di rassegnazione in attesa di tempi migliori, che senza dubbio sarebbero giunti varcando il confine con l’aldilà; erano canzoni nostalgiche che ricordavano i bei tempi andati, un passato estremamente povero e duro ma sereno, carico di affetti e buoni sentimenti.
Ma i temi trattavano il sociale, erano attuali, ognuno poteva riconoscersi in quelle canzoni.
Se i giovani musicisti di oggi cominciassero a guardarsi intorno, magari facendosi aiutare dai giornali, riscontrerebbero che oltre le loro amate colline c’è una società con mille problemi e contraddizioni: guerre, cibi transgenici, armi in mano ai bambini, violenza, analfabetizzazione, razzismo, povertà, pena di morte. Esagero? Allora lo apro io il giornale e, sullo stesso quotidiano di un giorno qualunque, leggo… ‘”Il boia ancora al lavoro, trentaquattresima condanna a morte in Texas nel 2000″, ancora “La polizia di Los Angeles verrà messa sotto osservazione da un controllore inviato dal ministero della Giustizia. Il sindaco Richard Riordan ha dato il suo assenso al provvedimento per le accuse di violenza e razzismo rivolte agli agenti che hanno portato alla cancellazione di 100 condanne”, ancora “Una insegnante di geografìa incinta e 19 studenti sono stati tenuti in ostaggio per mezz’ora in una scuola del Texas da un quindicenne che ha reagito ad un rimprovero estraendo dalla cartella una pistola”, ancora “Una ragazzina di 13 anni, minorata mentale, è stata violentata da 25 ragazzi tra i 12 e i 27 anni in Georgia. Gli stupratori hanno girato un video dello stupro”.
Chiudo il giornale e torno al disco.
Talkin’ To Myself, a parte diverse buone canzoni d’amore (ma con rime del tipo amore-cuore-dolore) e un paio di episodi veramente interessanti, ci ricorda ancora una volta che il tema principale del bluegrass di oggi continua a essere la nostalgia per il passato e i sentimenti di solitudine, conseguenza del contesto sociale e delle caratteristiche geografiche e morfologiche delle zone in cui questa musica è nata, condizioni legate ad un passato che i giovani di oggi conoscono però solo attraverso la testimonianza degli anziani.
Se l’aspetto strumentale del disco è accattivante e moderno, fìrst class come al solito, quello relativo ai testi soddisfa soprattutto il pubbico con i capelli grigi. “Che i giornali e i notiziari tivù trasmettano pure tutta la truculenza della società d’oggi, ma quando mi metto davanti allo stereo per ascoltare bluegrass music, voglio tornare in quel mondo che non c’è più”.
Sarà per questo, per mancanza di coraggio, a causa di fattori culturali o perché il pubblico
anziano continua ad avere il suo peso, che una formazione potente come la Lonesome River Band decide di rimanere così dichiaratamente fuori dal tempo?
E’ mai possibile che Bill Monroe cinquant’anni fa fosse più attento alla realtà che lo circondava di quanto lo siano oggi i nostri giovani e aitanti musicisti? Che qualcuno mi aiuti a capire, perché comincio a stancarmi di una musica fatta in buona parte solo di hot licks, hot breaks. tone & taste & timing, di armonizzazioni perfette e infinite versioni di ‘cabin on the hill’, il tutto confezionato applicando, in scala, gli stessi principi di Music Row per la country music ‘made in Nashville’.
Talkin’ To Myself – Sugar Hill 3913
Maurizio Faulisi, fonte Country Store n. 54, 2000