Philadelphia Folk Festival

Tre giorni di immersione totale, tre giorni con musicisti tra i migliori al mondo, tre giorni senza mai perdere un colpo, senza defaillances, senza pause, tre giorni di prato, cielo e musica, tre giorni di festa che da 27 anni il Philadelphia Folk Festival promette ed anche quest’anno, come sempre, ha mantenuto!

Tre giorni di Musica.
Il programma fa spavento, la domanda è se riusciremo a reggere, soprattutto fisicamente, le decine e decine di gruppi previsti dall’organizzazione, se riusciremo a spostarci tempestivamente tra i quattro palchi che, soprattutto nelle performance pomeridiane, vedranno l’accavallarsi di workshop di grandi e concerti di gruppi minori ma solo di fama, non certo di bravura.
Stando al programma, dalle 11:00 del mattino a mezzanotte c’è qualcuno sul palco: ad un ritmo così è difficile resistere! Cerchiamo di individuare le cose da non perdere assolutamente e son subito problemi. Al Craft stage c’è Tracy Schwarz assieme ai File ed alla Bottine Souriante per un workshop sul tema French Connectìon e contemporaneamente al Tank Stage ci sono i Free Hot Lunch, un gruppo che promette (e mantiene) scintille! Piacciono molto, questi ultimi, a noi e alla gente; immediato scatta il contatto, si cercherà non appena possibile di portarli in Italia. Subito dopo c’è Mike Cross, un musicista che alla bravura alla chitarra ed all’ottima voce aggiunge una grande abilità di intrattenitore, la gente apprezza, applaude, si piega in due dalle risate alle sue battute scoppiettanti. Il pomeriggio prosegue con Tom Paxton in un workshop dedicato ai bambini mentre dall’altro lato Stefan Grossman assieme a Paul Geremia intrattiene la gente parlando e suonando blues guitar. Più tardi, su quello stesso palco, salirà John Renbourn ad impartir lezioni sulla British Influence.

I programmi pomeridiani si infittiscono man mano che il festival si dipana, si giunge, purtroppo, a dolorose scelte. Tra i preferiti non può mancare il workshop sul banjo tenuto dagli amici Bob Carlin e Mike Seeger assieme a John Cohen e Roger Sprung anche se ciò obbliga a perdere l’analogo sul Blues con Tom Winslow e Moses Rascoe.
Women In Song è di scena al Craft stage e ci permette di ascoltare Linda Williams, Marcy Marxer e la vulcanica Patty Larkin, una songwriter dalla voce morbida e versatile, divertente ed allo stesso tempo intensa. Più tardi ritroviamo Tom Rush da vent’anni sulla breccia negli states e tutt’ora in grado di non sfigurare assieme a Maria Muldaur ed alla Jug Band, riunitasi per l’occasione (ma senza Jim Kweskin), in un fantastico intreccio di voci e suoni che sanno profondamente di america tradizionale. Un piacevole incontro è anche quello con gli Horseflies, un gruppo che, tra tutti i performers del festival, è di più alla ricerca di suoni e sensazioni nuove ma senza dimenticare le radici Old Time.

Tre giorni di Star.
Se i pomeriggi sono intensi i programmi serali sono tali da dimenticare ogni stanchezza. Il Big show del primo giorno è quello del grande Arthel ‘Doc’ Watson. Il suo concerto è tra quelli che voglio ricordare per tutta la vita, il suo impatto sulla audience è formidabile, la gente lo segue, battuta per battuta, accordo per accordo, assaporando ogni piccolo passaggio. Lui, dimostrando nonostante l’età e la stanchezza di essere ancora uno dei migliori flatpicker del mondo, ripassa attraverso molti dei grandi classici del suo repertorio, alternando con sapienza i pezzi strumentali ai cantati. Gli fa da spalla con grande bravura il giovane Jack Lawrence ottimo chitarrista che da poco tempo lo accompagna e accudisce amorevolmente, sostituendo il bassista Michael T. Coleman (ora in forza ai Seldom Scene). Purtroppo per chi non c’era, dobbiamo dire che è stata forse una delle sue ultime apparizioni on stage. Ce lo dice lui, dopo il concerto, quando scambiamo qualche parola nel backstage.
La seconda serata si apre con un duo ben noto a noi europei: Stefan Grossman & John Renbourn. I due marpioni dimostrano la grande e consumata professionalità di sempre e regalano un concerto sul livello dei tempi migliori. Il repertorio non è dei più freschi ma, come un tempo, è sempre valido ed è accolto dalla platea statunitense con grandi ovazioni.
Il pezzo forte della serata, ed il più atteso, è però la reunion dei New Lost City Ramblers. I tre giovanotti, Mike Seeger, Tracy Schwarz e John Cohen si ritrovano insieme sul palco per la prima volta dopo trent’anni dalla data della loro prima formazione e l’evento è quantomeno storico. Per chi li ha seguiti negli anni passati, soprattutto grazie alle dozzine di loro album, è una grande emozione poterli vedere dal vivo. Il loro concerto, nonostante un pò di ruggine accumulata negli anni, riporta indietro ai tempi del magico Revival, le voci i suoni, la loro presenza sul palco è ciò che di più genuino si possa trovare e regala, oggi come allora, momenti indimenticabili. Speriamo che l’esperienza di Philadelphia ’88 li convinca a tornare sulle scene di nuovo insieme come un tempo.

La serata conclusiva si apre con Maria Muldaur, strepitosamente accompagnata dalla Jug Band in un concerto trascinante, dove la cantante tira fuori il meglio della sua bellissima voce in un crescendo che manda in visibilio la platea. Non c’è il tempo per riprendersi che gli Ossian sono già sul palco a ricordare alla platea, con una grande performance, le tradizionali origini celtiche della musica statunitense. Grande accoglienza per loro come per Moses Rascoe che subito dopo ripropone, con il suo repertorio, il sound del blues nero più tradizionale, quasi a voler ricordare come da questi due generi si sia poi sviluppata la maggior parte della musica contemporanea, americana e non, che ascoltiamo oggi.
La conclusione della serata e del festival spetta ad un grande santone: Taj Mahal. Il musicista nero tiene il palco da solo per più di un’ora, accompagnandosi con chitarra acustica e pianoforte, in un concerto che credo irripetibile. La sua voce è calda, forte, versatile, gli permette di giocare con i suoni prodotti dagli strumenti a suo piacimento, a volte è lui ad accompagnare a volte si fa guidare dalle dita in una serie di caricature che producono applausi a non finire. A volte imita se stesso, a volte voci famose, mentre ripercorre un repertorio che molti ben conoscono e che tutti, sicuramente, apprezzano. Dimostra, in conclusione, se ancora ce ne fosse bisogno, che è un musicista di grande talento e che è in grado, anche senza una band alle spalle, di fare tanta ottima musica e di tenere il palco come solo le grandissime star sanno fare.

Tre giorni di Gente.
La platea del festival, qui a Philadelphia, è una delle più eterogene che io abbia mai visto. Ciò che più colpisce è vedere persone di ogni età, dagli adolescenti agli ultra sessantenni, entusiasmarsi per gli stessi musicisti, seguire con un’intensità quasi irreale il susseguirsi degli spettacoli, con una comune voglia di assaporare buona musica, senza ostacoli di colore o di radici. Le decine e decine di famiglie, con figli da zero a pochi anni, che per tre giorni si sono trasferite qui, sono forse il simbolo dell’America che ancora crede nello stile di vita musica e aria aperta. Ne è una dimostrazione il vastissimo (e completo) campeggio che gli organizzatori hanno allestito. Passeggiando tra le tende si aveva l’impressione che l’unico problema di costoro fosse di riuscire a vivere il festival fino in fondo, nel modo più totale possibile e assaporarlo fino all’ultima goccia. Lo stesso intrattenitore ufficiale, che riempiva il palco tra una performance e l’altra, Michael Cooney era ‘alloggiato’ nel camping: per essere parte del festival in tutto e pertutto, ha detto, tra una battuta e l’altra.

Tre giorni di Lavoro.
Più di trecento sono i volontari che rendono possibile il Philadelphia Folk Festival. Un’organizzazione davvero imponente, ben visibile nel lavoro di controllo nei parcheggi, agli ingressi, all’assistenza backstage ai musicisti e agli ospiti, alla continua e metodica igienizzazione delle aree del concerto. Ogni giorno tra la sessione di concerti pomeridiani e serali, dopo aver fatto uscire gli astanti con ordine e senza alcuna violenza gratuita (non è assolutamente facile far sgombrare qualche migliaio di persone senza creare caos!) gli organizzatori procedevano ad una totale ripulitura dei prati davanti ai palchi: l’avete mai visto fare in un festival in Italia? Per coordinare una tale massa di volontari è necessaria un’organizzazione permanente ed è per questo che esiste la Philadelphia Folksong Society. Un’organizzazione senza scopo di lucro che conta, solo tra i membri occupati a tempo pieno tutto l’anno, più di dieci persone e che oltre a questo festival organizza varie altre manifestazioni minori nell’arco della stagione.

Tre giorni di Patatine Fritte.
E per finire non si poteva non parlare di tutto ciò che sta intorno al festival. Le patatine? Certo, anche quelle, una delle poche cose che gli americani sanno fare bene, con tanto ketchup, e che divengono in alcuni casi (vedi il mio) la maggior fonte di sostentamento! Per quelli di bocca buona naturalmente anche tanti hamburger con cipolle e pizze (all’americana) e coca-cola, in tutte e tre le versioni, ed ogni tipo di lemonade o altro soft drink vi venga in mente (gli alcoolici no, sono vietati). E poi bancarelle con ogni genere di oggetti e strumenti, dalle Martin agli Hammer Dulcimer, dalle magliette, felpe e spille del festival alle candele colorate e chi più ne ha più ne metta. Che ne dite, vi piacerebbe? Non c’è problema, il 25, 26, 27 agosto 1989 il 28th Annual Philadelphia Folk Festival vi aspetta!

Daniele Bovio, fonte Hi, Folks! n. 32, 1988

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