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Con la morte di Ray Charles il 10 giugno 2004 all’età di 73 anni, abbiamo perso uno degli interpreti più importanti del 20° secolo, e sicuramente l’artista più versatile della musica nera. Subito riconoscibile per i suoi occhiali scuri e l’abitudine di dondolarsi al ritmo della musica al suo pianoforte, Charles brevettò un approccio emotivo alla musica che ha avuto tanti imitatori ma pochi eguali. In una carriera lunghissima, non tutta la sua musica può essere considerata degna di nota. Ma i momenti migliori (e ce ne erano tanti) erano tali da meritargli un posto d’onore nella storia della musica popolare.

Nato ad Albany (Georgia) il 23 settembre 1930, Ray Charles Robinson fu il primogenito in una famiglia assai povera. Erano gli anni della Grande Depressione, e quando Ray aveva l’età di tre mesi i suoi genitori decisero di trasferirsi dall’altra parte del confine, a Greenville in Florida, alla ricerca di un futuro migliore. Già da parecchio tempo Ray lamentava problemi alla vista, ma nessuno riusciva ad individuarne la causa, finché il ragazzo non rimase cieco per colpa di un glaucoma all’età di sei anni. I genitori lo mandarono alla St. Augustine School per giovani ciechi e sordi (data la grave situazione economica della famiglia, gli fu permesso di frequentare la scuola gratuitamente). Imparò a leggere il braille, ma soprattutto cominciò a studiare la teoria della composizione nonché vari strumenti musicali, tra cui il pianoforte, il sassofono e il clarinetto.

Purtroppo il destino continuò ad essere poco gentile nei suoi confronti: gli morì la madre Aretha quando Ray aveva solo 15 anni, e due anni dopo mancò anche Baily Robinson, il padre. A questo punto, Ray decise di girare in lungo e in largo la Florida come musicista di strada, allargando poi il suo raggio d’azione allo stato di Washington. La vita ‘on the road’ era durissima, e più volte rischiò di fare la fame. Ma con i soldi guadagnati si trasferì a Seattle nel 1947. Fu forse a questo punto che Ray decise che poteva davvero sbarcare il lunario con la musica. Scelse di abbreviare il suo nome in ‘Ray Charles’, probabilmente come un atto di riverenza nei confronti del grande pugile Sugar Ray. A Seattle trovò come vicino di casa nientemeno che Quincy Jones, prossimo a diventare un leggendario arrangiatore jazz. I due diventarono amici e, grazie alle conoscenze di Jones, Ray formò un piccolo gruppo jazz, i Maxim Trio, con G.D. McGhee alla chitarra e Milton Gerred al basso. Arrivarono anche ad incidere per la Downbeat Records a Los Angeles, ma dietro l’angolo si aspettavano soddisfazioni più grosse. Poco dopo, Ray andò in tournée come componente dell’orchestra del cantante R&B Lowell Fulson, e poi ebbe modo di lavorare con mostri sacri quali Ruth Brown e Guitar Slim a New Orleans (suonò il pianoforte nel classico The Things I Used To Do di quest’ultimo).

Va detto che, a differenza di Ray Charles, molti di questi artisti si erano già affermati. Dall’altra parte nessuno di loro poteva vantare la stessa sua versatilità. Ray aveva già studiato composizione e arrangiamento, ed era capace di suonare sia il pianoforte che il sassofono. Sapeva cantare nello stile ‘smooth R&B’ di Nat King Cole e Charles Brown, oppure in classico stile gospel. E amava il jazz, il blues, e perfino il country & western. I dischi incisi per la Downbeat/Swingtime (ormai sul via del fallimento) mettevano in mostra un jazz/blues raffinato ma grintoso, e da un punto di vista commerciale promettevano quanto basta per convincere ad Ahmet Ertegun e Herb Abramson, proprietari dell’Atlantic, di comprare il contratto di Ray per $2500. Fu un passo determinante per la sua carriera. Ray lasciò temporaneamente da parte le sfumature jazz presenti nella sua musica fin dall’inizio, e sviluppò il suo lato R&B più aggressivo.

I risultati furono stratosferici. Brani quali Mess Around (1953), It Should Have Been Me (1954, il suo primo vero hit) e il magnifico I Got A Woman (sempre 1954) mettevano in mostra un approccio emotivo al rhythm & blues che nessun altro artista sapeva offrire. Il termine ‘soul’ non era ancora stato coniato, ma erano numerosi i critici che negli anni successivi avrebbero scritto che fu proprio Ray Charles ad inventare il soul con questi dischi. Seguirono senza tregua lo splendido R&B di This Little Girl Of Mine (1955), basato sul brano gospel This Little Light Of Mine di Clara Ward, il gioioso Hallelujah, I Love Her So (1956), un pezzo ripreso da artisti del tutto dissimili quali gli Animals, Eddie Cochran e Bert Jansch, e la ballata gospel Drown In My Own Tears dello stesso anno. Ray fu l’autore di buona parte di queste composizioni, e si occupò degli arrangiamenti. The Right Time (1959) fu noto anche per i cori delle Raelettes, un gruppo di coriste guidato da Margie Hendrix che figurò spesso nei suoi dischi. Però non tutti guardavano con un occhio positivo l’opera di Charles. Il bluesman Big Bill Broonzy: “Sta mischiando il blues e la musica sacra… e ciò non può che essere sbagliato”.

Ray Charles lasciò l’Atlantic per la ABC/Paramount alla fine di 1959 ma non prima di incidere forse il suo capolavoro per eccellenza: il celeberrima What’d I Say. Ripreso anche da numerosi gruppi bianchi (la leggenda vuole che i Beatles ne eseguivano versioni che duravano fino a 90 minuti durante la loro permanenza ad Amburgo!), il disco riuscì a mettere insieme molte delle caratteristiche che resero grande il suo compositore: la voce emotiva in chiave gospel, la straordinaria agilità al piano elettrico, e un’incredibile tensione generata dallo stile ‘call-and-response’, con grande partecipazione dal pubblico dal vivo. Infatti What’d I Say diventò un autentico classico della musica rhythm & blues.

Per quanto inaspettata la decisione di lasciare l’Atlantic (rimane indubbiamente il suo periodo di maggiore creatività), c’è chi sostiene che ‘The Genius’ desiderava più libertà. Infatti alla ABC/Paramount Ray mise in evidenza una versatilità semmai ancora più spiccata. Poi c’era la questione non indifferente di un accordo che gli permise di conservare la proprietà delle sue incisioni alla scadenza del contratto, fatto quasi inaudito per un artista di colore all’epoca. Non lasciò il R&B più grintoso (Sticks And Stones), ma allargò ulteriormente le sue influenze con il blues a ritmo bossa-nova di Unchain My Heart, Georgia On My Mind (uno dei suoi più grandi hit, un classico di Hoagy Carmichael che Charles decise di incidere su consiglio del suo autista!) e l’orecchiabile Hit The Road Jack di Percy Mayfield, tanto per citare alcuni dei dischi più rilevanti. L’LP Genius Plus Soul Equals Jazz (1961), pubblicato dalla Impulse, è considerato una delle massime espressioni dell’ibrido soul/jazz, con gioielli quali One Mint Julep e I’m Gonna Move To The Outskirts Of Town. Gli arrangiamenti furono opera del suo vecchio amico Quincy Jones.

Il capitolo più sorprendente arrivò nel 1962 con la pubblicazione dei due LP Modern Sounds In Country And Western (Vol. 1 And 2). Ebbene, sì… Ray Charles si misurava con la musica country! Eppure non era poi un episodio così eclatante per chi conosceva il suo grande eclettismo. I due dischi volarono in testa alle classifiche, e la sua cover di I Can’t Stop Loving You di Don Gibson fu nr. 1 nelle classifiche pop, R&B e C&W. L’importanza di questi dischi non va sottovalutata; anche se non era il primo artista nero a cimentarsi nella musica country, Ray fu il primo a conquistare un tale successo commerciale. Sempre nel 1962, Charles fondò un’etichetta tutta sua: la Tangerine. Le vendite dei suoi dischi raggiungevano cifre impressionanti, e fu richiesto ovunque per concerti dal vivo. Dopo una prima apparizione nel 1963, Ray tornò con frequenza ossessiva in Gran Bretagna e in Europa.

Tuttavia gli anni sessanta portarono anche qualche problema. Data la vita che faceva, era quasi inevitabile che Ray si scontrasse con la droga. Il suo arresto nel 1965 all’aeroporto di Boston fu solo l’inizio di una lotta per liberarsi dallo spettro dell’eroina. Una lotta che sarebbe durata 17 anni. Fu costretto ad interrompere l’attività musicale, ma già nel 1966 tornò alla carica con una canzone intitolata ironicamente Let’s Go Get Stoned. Ormai sembrava preferire arrangiamenti pop per un pubblico sempre più MOR, e verso la fine degli anni Sessanta si lasciò andare ad alcune scontate cover dei Beatles (Yesterday, Eleanor Rigby).

Ray Charles non avrebbe mai più raggiunto i livelli artistici del periodo Atlantic, anche se la sua classe non fu mai messa in discussione. Negli anni settanta collaborò con nomi illustri e variopinti quali Stevie Wonder, Randy Newman, Aretha Franklin e Cleo Laine (in una rilettura di Porgy & Bess di Gershwin). Poi negli anni successivi partecipò al progetto We Are The World contro la fame in Africa; incise un disco di duetti in coppia con vari artisti soprattutto country; fece numerose apparizioni sia televisive (anche in spot pubblicitari) che cinematografiche (in particolare ne The Blues Brothers di John Landis), e così via.

Possiamo rimpiangere quanto vogliamo il Ray Charles energico e graffiante che fu uno dei artefici della musica soul tra gli anni ’50 e gli anni ’60. E’ chiaro che per lui il rhythm & blues rappresentava una sola delle frecce nel suo arco; avrebbe potuto costruirsi una carriera straordinaria come blues singer, ma non voleva limitarsi a cantare per mezzo secolo It Should Have Been Me. Piuttosto evitiamo di criticare oltremisura le reclame per la Diet Coke, nonché le numerose interpretazioni di God Bless America alla corte di Ronald Reagan e compagnia bella. Da un punto di vista umano, Ray Charles si dimostrò capace di superare mille problemi personali per poi diventare un’istituzione americana. Da un punto di vista musicale invece, fu forse il più grande innovatore che la musica nera abbia mai conosciuto, capace di fondare R&B, soul, jazz, pop e country & western. Insomma, un autentico genio.

Maurizio Maiotti, fonte Jamboree n. 45, 2004

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